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2. P AURA , TERRORE E ORRORE : UNA ANALISI DI SEMIOTICA DELLA CULTURA

2.1. Cultura come protezione

Lévi-Strauss, il cui lavoro è una delle fonti principali del pensiero semiotico, già in una delle sue prime opere riassume al meglio parte di quello che finora ho cercato di sostenere:

l’opposizione della natura e della cultura non sarebbe né un dato primitivo né un aspetto oggettivo dell’ordine del mondo. Dovremmo riconoscervi una creazione artificiale della cultura, un’opera difensiva che questa avrebbe scavato tutto intorno a sé perché non si sentiva capace di affermare la sua esistenza e la sua originarietà altro che tagliando tutti i passaggi che potrebbero testimoniare la sua originaria connivenza con le altre manifestazioni della vita. (1967: 20 trad. it. corsivo mio)

La tesi di Lévi-Strauss non si discosta molto dalla rielaborazione fatta da Esposito della filosofia di Rousseau (infra 1.2.) soprattutto nei suoi due punti fondamentali: una cultura si afferma per negazione rispetto a una sua supposta origine naturale; la cultura si immunizza differenziandosi da ciò che non è più, che non è o che non vuole essere.

Sul primo punto abbiamo visto come l’origine, come stato di natura, è pensabile solo a partire dalla cultura che la nomina: l’origine è “non-società, non-Stato, non-storia” (Esposito, 1998: 34). Questo livello, che potremmo definire logico-epistemologico, descrive la struttura stessa dei sistemi di significazione in cui ogni “entità” non può che essere il risultato del campo di relazioni differenziali entro cui il senso si dà: la cultura può pensare la propria origine solo a partire dal “non-più” che la separa dallo stato di natura. Per descrivere il primo livello ho fatto riferimento alla teoria saussuriana evidenziando come questa sia generalizzabile all’universo della significazione.

Il secondo riguarda invece il livello storico-sociale, cioè il modo in cui la differenza, condizione strutturale del senso, viene iscritta di fatto nel linguaggio: la differenza diviene alterità e l’alterità può assumere la forma dell’amicizia o dell’inimicizia, della protezione o della minaccia, dell’autorità o della subalternità, della fratellanza o del conflitto. Dunque se al primo livello parliamo di differenza come condizione propria dei sistemi di significazione, al

secondo livello parliamo del modo in cui tale struttura opposizionale assume una certa forma logica: antonimia, complementarità, conversità, scale proporzionali, continui graduati gerarchicamente o meno, opposizioni antipodali o ortogonali, rapporti vettoriali, ecc… (Eco, 1984: 113-114). Tale forma logica è reperibile per gradi d’astrazione a partire dall’analisi dei testi e delle rappresentazioni di ogni cultura.

Ho circoscritto l’indagine a questo secondo livello e in particolare a tutte quelle forme di rappresentazione dell’alterità che richiedono, da parte della società, la costruzione di forme di difesa. La descrizione di questo secondo livello si avvale del contributo di Jurij Lotman e in particolare del suo modello topologico (Lotman e Uspenskij, 1975: 145 e ss.). Ciò che il semiotico russo mette in campo è soprattutto il rapporto tra esterno e interno e in particolare il modo in cui la cultura fissa i propri, instabili e variamente porosi, confini. In primo luogo ciò che vorrei fare è definire cosa intendo per “interno” ed “esterno” a proposito di una topologia della cultura.

Lotman, nei suoi primi lavori, parla di esterno come di tutto ciò a cui la cultura si antepone. Spesso questo esterno è appunto pensato come il dominio della natura: la foresta che circonda il villaggio o la campagna che circonda la città sono espressioni spaziali di ciò che in una cultura è esperito come l’esterno rispetto al luogo centrale occupato da un complesso di abitazioni. La cultura nello stadio di autodescrizione “individua un sistema di metalinguaggi con l’aiuto dei quali descrive se stessa e lo stesso spazio periferico della semiosfera” fissando così “il livello della sua unità ideale” (Lotman, 1985: 63). Questo vuol dire che ogni cultura si organizza anche per linee di confine interne, definendo un centro e distinguendolo da una periferia in cui viene collocato tutto ciò che è anti-cultura o non-cultura: esempi di anti- cultura possono essere le sottoculture giovanili, oppure nel caso di non-cultura i bambini e gli adolescenti, che per passare all’età adulta devono affrontare in molte civiltà una serie di rituali di passaggio.

I sistemi centrali sono quelli che hanno una forza normativa: vedremo come gli apparati categoriali come quelli di sovranità e biopolitica riescano a imporre il loro metalinguaggio e una conseguente costruzione dello spazio e del tempo sociali e dei rapporti di dominazione interni a un sistema.

In linea con la definizione di cultura data da Lévi-Strauss e con questa impostazione data da Lotman, con “esterno” e “interno” mi riferisco alla costruzione di uno spazio in cui è la stessa cultura che fissa ciò che è fuori dal suo dominio e ciò che invece, per vari gradi di

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parlare dell’ordine che una certa cultura dà al mondo e dei limiti, artificiali, che essa fissa nel definire il proprio e l’altrui.

Non parlo invece di esterno o interno alla cultura nel senso in cui ne parla Lotman in La

cultura e l’esplosione (1993). Credo infatti che in quel caso il semiotico russo svolti verso una impostazione ontologica del problema come “questione del grado di adeguatezza fra il mondo, che viene creato dalla lingua, e il mondo che esiste al di fuori dei legami con essa” o nel rapporto tra “sistema e realtà esterna” (Lotman, 1993: 9 trad. it.). In questo caso il rapporto interno-esterno diviene per Lotman un rapporto tra Realtà, in un senso metafisico, e Cultura. Nel mio lavoro assumo invece il rapporto interno-esterno come una questione totalmente interna ai sistemi di rappresentazione, cioè come modo in cui la cultura auto- descrivendosi e auto-rappresentandosi (attraverso le categorie che vedremo) si definisca e si collochi nel mondo, che è quello che conosciamo o potremmo conoscere attraverso le categorie culturali (non è dunque un fuori ontologico ma al limite epistemologico).

La mia posizione può essere chiarita se poniamo il problema nei termini cartografici classici: se prendiamo la carta dell’Italia, come spesso la vediamo nelle aule scolastiche, notiamo che la penisola, attraverso elementi plastici e figurativi, viene posta in primo piano e marcata come “interno” mentre il resto, in grigio, nero o con colori più sfumati, rappresenta l’”esterno” (la Francia, la Svizzera, l’Austria, gli stati balcanici, il Nord Africa e a volte la Spagna). Questo è un modo di concepire la propria identità collettiva, come territorio, marcandola rispetto a una alterità costruita come un esterno attraverso la definizione dei confini territoriali. Il rapporto tra interno ed esterno, come si vede, diviene un problema di punto vista e di installazione di un modello, quello dello stato territoriale, che impone il proprio metalinguaggio descrittivo.