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Il modus e il confine noi vs loro

4. P REVENT , P URSUE , P ROTECT AND P REPARE : DIFENDERE L ONDRA DAL PERICOLO

4.13. Il modus e il confine noi vs loro

Ciò che emerge dall’analisi di queste campagne è l’irrappresentabilità del nemico: ciò che vediamo sono oggetti e non persone, ciò che leggiamo sono descrizioni di azioni e non descrizioni di chi le compie.

Se guardiamo all’immagine del “noi”, come emerso nell’analisi della campagna We are

Londoners, We are One anche in questo caso, non credo si possa riconoscere una chiara definizione di chi sia un londinese. Londra è casa per persone di differente origine e di diverso credo, al punto che la stessa identità londinese non è sotto ordinata a una identità nazionale (come può essere l’essere romano o parigino rispetto all’essere italiano o francese), né a una appartenenza culturale precisa, né tantomeno a un diritto di sangue o di terra. Se l’asse semiotico “intorno al quale si costituisce ogni istituzione sociale” è “quello che stabilisce il confine tra l’io e l’altro – tra noi e gli altri” (Esposito, 2002: 179), nel nostro caso mi pare che questi testi non riescano a renderne conto.

Su questa linea si inserisce anche l’analisi del politologo Carlo Galli:

lo Stato ha un obiettivo ordinativo: di far perdere alla relazione amico-nemico la sua indeterminatezza, di stabilizzarla, e spazializzarla. Lo Stato è infatti un continuo creatore di pace interna, e questa è la “legge” positiva, il suo comando razionale […] E creare la pace significa creare la distinzione categoriale, senza la quale non si capisce la politica moderna, fra interno ed esterno. (2007: 28)

Abbiamo visto come per garantire la pace interna l’istituzione abbia dovuto rappresentare i vari “noi” come nel poster We stand united with our customers e TYS nei termini di una inclusività senza chiari limiti: il londinese può essere chiunque. Questo non permette una divisione categoriale interno vs. esterno né la possibilità di stabilizzarla e far uscire dall’indeterminatezza la relazione amico-nemico. L’unica divisione categoriale è quella forse

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esterno ma semplicemente un tutto sul quale corrono le linee di metropolitana e autobus, che non trova un ”fuori” da cui distinguersi. Rispetto all’analisi di Galli l’indeterminatezza identitaria ha funzionato in tutt’altro modo: essa è stata essenziale per il mantenimento dell’ordine nella città inglese, permettendo di tutelare le comunità non-europee da eventuali attacchi razzisti.

Esposito, come abbiamo visto nel primo capitolo, ha individuato nella legge il principale meccanismo di differenziazione noi/altro e di conseguente immunizzazione, reperendo nel funzionamento logico della norma quella funzione di definizione dell’esterno, e di conseguenza del confine, che deve rimanere tale. Eco ne ha descritti i meccanismi semiotici e logici, riportandoli a un modello di interpretazione proprio della razionalità occidentale fondato sul principio di identità, di non contraddizione e del terzo escluso:

Questi principi prevedono, se non il riconoscimento di un ordine fisso del mondo, almeno un contratto sociale […] La norma logica è modus, ma il modus è anche limite, e quindi confine […] L’ossessione latina del confine spaziale nasce con il mito della fondazione: Romolo traccia un confine e uccide il fratello perché non lo rispetta. Se non si riconosce un confine non può esserci civitas. (Eco, 1990: 41 corsivo mio)

Il modus, nell’arricchimento apportato in senso giuridico e contrattuale dal razionalismo latino a quello greco, rappresenta il principio logico e semiotico di funzionamento dello stato moderno e dunque dell’inscrizione anche spaziale del confine.

Tale confine è però tracciabile solo se abbiamo chiaro chi è l’altro e chi siamo noi. Mentre oggi ci troviamo di fronte a una figura diversa e in parte nuova dell’”altro”, quella del nemico-fanstasma. Caduta la chiara differenza tra un “Noi” e un “Loro”, iscritta nei corpi (pelle, tratti somatici) o nei segni di una inimicizia che assume le forme della guerra regolata dal diritto internazionale (uniformi, bandiere, regolamenti), non ci rimane che l’enigma sull’identità dell’altro e soprattutto sull’identità dell’amico: è il nostro vicino di casa, padrone di casa o familiare che il capo dell’antiterrorismo ci invita a controllare; la minaccia al Regno Unito viene “from within British communities”, perché ci viene ricordato che “the bombers were British citizens brought up in this country”, “[and they] brought home the risk of suicide attacks” (punto 11 e 38 del documento Countering International Terrorism).

Questo nemico, il terrorista, già difficilmente definibile politicamente e giuridicamente, è anche “di difficile individuazione pratica: è il nemico che si mimetizza, che assume le nostre fattezze, e che anche per questo ci terrorizza; è, inoltre, il nemico che ci costringe ad agire come lui” (Galli, 2007: 40). Secondo Galli, dopo la Guerra Fredda “interno ed esterno si confondono fino a scomparire (ib.: 39), così che nella “guerra globale il più intenso conflitto coesiste […] con la più alta indistinzione fra amico e nemico” (ib.: 41). Galli riconduce a

questo la caratteristica delle campagne di propaganda attuali che sono “più attente alla costruzione virtuale delle identità dell’amico che non alla raffigurazione del nemico” (ib.).

Mi pare che l’analisi di Galli riesca a cogliere anche la cifra delle pratiche e dei testi della sorveglianza fin qui analizzati. Se il modus, come modello interpretativo e di costruzione della civitas fallisce nella sua funzione di distinzione categoriale amico-nemico e costruzione del confine, cosa ha preso il suo posto in queste campagne? La mia ipotesi è che le rappresentazioni tipiche delle campagne antiterrorismo siano ricollegabili più generalmente a un modello cospirativo, e dunque di semiosi ermetica, che ha come conseguenza precisi effetti di tipo patemico e cognitivo. La verifica di questa ipotesi passa però per un ritorno ai testi e al loro “stile interpretativo” e a un confronto tra questi e gli strumenti che la propaganda inglese ha usato nel passato per definire il “nemico” e distinguerlo dall’”amico”.