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Memoria come protezione: Mito, Storia e Sicurezza

3. D IFENDERE LA COMUNITÀ : CATASTROFI E PROTEZIONE

3.5. Memoria come protezione: Mito, Storia e Sicurezza

Le analisi lessematiche ed etimologiche ci permettono di passare a un altro livello, quello testuale. In particolare, a mio avviso, schemi culturali di costruzione dell’evento disastroso corrispondono a stili di ragionamento diversi, come anche a pratiche e generi discorsivi differenti a cui farò riferimento: la storia, il mito, la sicurezza. Leggerò queste tre pratiche discorsive attraverso il filtro della categoria di immunità.

Roberto Esposito sostiene che i meccanismi immunitari si fondano sulla temporalità del “futuro anteriore” (2002: 37 e ss.), cioè cercano di anticipare ciò che potrebbe avvenire. È questo il caso della legge che è tale “solo se è in grado di prevenire qualsiasi evento possa avvenire, qualsiasi accidente possa eccederla”. In tal senso è “il continuo ritorno del passato” a garantire il presente “dall’incertezza che su di esso fa pesare il futuro”. Il meccanismo immunitario è per Esposito “l’assicurazione nei confronti di un rischio futuro pagata attraverso la sua assunzione preventiva in dosi sostenibili” (ib.: 37). Il filosofo napoletano mette quindi in evidenza come i meccanismi immunitari costruiscano una temporalità ciclica: gli eventi passati, che fanno parte della memoria collettiva di una comunità, costituiscono la base per la costruzione e rappresentazione di quelli eventi futuri da cui in qualche modo la comunità è chiamata a difendersi. La costruzione dell’evento futuro minaccioso costituisce – nella mia ipotesi sul funzionamento semiotico dei discorsi e delle rappresentazioni della sicurezza – ciò che Esposito chiama assunzione preventiva del rischio in dosi sostenibili.

Qui per Esposito si installa il grande parallelo tra procedure immunitarie attuate dalla medicina sul corpo dell’individuo singolo, e le procedure immunitarie attuate dalle istituzioni sul corpo collettivo24.

La medicina prevede, con il vaccino, l’inoculazione nel corpo dell’individuo del virus da cui l’organismo deve proteggersi. Il virus viene introdotto in uno stato tale da non causare la patologia (cioè appunto nelle modalità e nelle dosi sostenibili), ma il corpo deve riuscire a riprodurre vicariamente il percorso della malattia producendo poi gli anticorpi necessari a riconoscere il nemico nel momento in cui si presenti realmente nell’organismo. Il sistema

immunitario terrà quindi memoria del nemico e questa memoria permetterà il riconoscimento nel caso l’evento, cioè l’incontro tra l’organismo e il virus, si realizzi.

A livello politico i sistemi di sicurezza funzionano come costruzione di memoria funzionale ai meccanismi di riconoscimento: o l’evento è avvenuto nel passato, e quindi si sono prodotti su di esso testi e rappresentazioni (non necessariamente testi narrativi) che ne permettono il riconoscimento e la prevenzione, oppure questo evento non si è ancora realizzato e la società se ne vuole comunque proteggere in qualche modo costruendone delle esperienza vicarie che di seguito analizzeremo25.

3.5.1. Dalla imprevedibilità alla prevedibilità

Il rapporto tra memoria e protezione è stato lungamente tematizzato all’interno delle nostre società: se si vuole che un evento non si realizzi più occorre ricordarlo o in qualche modo esorcizzarlo per esempio attraverso dei riti. Questa idea è alla base della concezione della storia come maestra di vita o comunque come guida per il futuro della comunità. Ma si pensi anche all’approccio psicanalitico: occorre recuperare il ricordo dell’evento traumatico per impedire che esso ritorni in altre forme.

La memoria in particolare è ciò che rende gli eventi prevedibili e che ci permette quindi di riconoscerli e muoverci in essi, dotandoli di senso. Il modello lotmaniano ci viene ancora una volta incontro in particolare con le categorie di prevedibilità e imprevedibilità e con quella di “esplosione”. L’esplosione è appunto il verificarsi di un evento o di un fenomeno che la cultura non può prevedere, perché non è stato mai vissuto, e che quindi non può elaborare né inserire nelle proprie strutture di contenimento. Lotman precisa che l’idea di esplosione non deve essere ridotta alla detonazione di “polveri, della dinamite o del nucleo atomico” né semplicemente alle ”idee di devastazione”, “simbolo di distruttività” (1993: 20 trad. it.).

25 Non mi soffermo sulle varie discussioni filosofiche che questo tema apre, a partire da quella sul phármakon

così come rilanciata da Derrida (1972). Lo stesso Eco (1990) si è interessato al modo in cui l’immunologia ha preso in prestito la metafora della memoria e del riconoscimento per spiegare il funzionamento del sistema immunitario. E d’altra parte è sempre rischioso reificare e naturalizzare il funzionamento dei sistemi politici utilizzando metafore biologiche. È un dato di fatto però che tra il dominio medico e il dominio politico-giuridico vi sia una strettissima relazione, che può arrivare a una loro completa sovrapposizione, come nel caso della biopolitica.

Dal mio punto di vista è interessante vedere come una struttura logica si trasferisca in un altro dominio e ne strutturi il discorso: la filosofia (Esposito, 2002), le scienze politiche e l’antropologia (Girard, 1972), hanno preso come modello interpretativo l’immunologia. È difficile capire tuttavia quale modello, se quello medico o quello politico, abbia strutturato prima il discorso nei due domini. Per esempio nel discorso pubblico il funzionamento del sistema immunitario è filtrato dalle categorie politiche di “conflitto”, “invasore”, “nemico”, “identità” e “guerra”: si vedano le analisi sulla rappresentazione dell’AIDS di Marita Sturken (1997) e il saggio di Donna Haraway “Biopolitica dei corpi postmoderni: la costituzione del sé nel discorso sul sistema

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Tuttavia alcuni di questi eventi devastanti, anche se non tutti, costituiscono momenti culturalmente esplosivi. Come hanno indicato sia De Martino che Dickie nel suo caso di studio, disastri e catastrofi riportano in superficie le mitologie della fine (come le apocalissi). Lotman vede riemergere “nel momento dell’esplosione le idee escatologiche, come l’approssimarsi del Giudizio Universale, della rivoluzione mondiale […] e altri analoghi fatti storici” (ib.: 30 trad. it.). Mi pare che Lotman e De Martino guardino qui sotto rispetti diversi a fenomeni molto simili.

In questo caso secondo Lotman l’evento esplosivo è ciò che provoca una rottura dell’ordine culturale e sociale perché la comunità non ha memoria di un evento paragonabile: non è possibile narrarlo né collocarlo nella struttura di mondo di cui una data società dispone. L’opera di traduzione dell’evento esplosivo passa attraverso una sua ricollocazione da una logica dell’imprevedibilità e della discontinuità a una logica della prevedibilità e della continuità. Questo può essere fatto riportando la narrazione dell’evento dal livello della

casualità – un evento subitaneo e imprevedibile è letto come fatalità o caso – a una logica

causale, cioè l’evento è il risultato di una serie di altri eventi. Uno dei possibili processi di traduzione viene compiuto dagli storici, che rendono l’evento intelligibile alla comunità inscrivendolo nel continuum della sua storia:

il quadro degli eventi, caotico per il semplice osservatore, esce dalle mani dello storico ulteriormente organizzato […] Questo punto, alla base del quale vi è la casualità, ricoperto in superficie di tutta una falda di congetture arbitrarie e di legami di causa ed effetto pseudo convincenti, acquista sotto la penna dello storico un carattere quasi mistico. In esso viene visto il trionfo di predestinazioni divine o storiche e il momento che conferisce senso a tutto il processo precedente. (Lotman, 1993: 30 trad. it.)

Vediamo come lo stesso Lotman veda nella scrittura storica proprio l’installazione di una nuova figura di Destinante che da un “altrove assiologico” riesce a dare senso all’evento, reinserendolo nelle strutture di prevedibilità elaborate da una società. Le varie entità a cui Lotman si riferisce – divine o storiche – rispondono alle varie filosofie della storia: dal mondo classico alla filosofia della storia hegeliana o benjaminiana in vari momenti storici sono stati evocati diversi ordini trascendenti capaci di dare senso agli eventi (Angelozzi in Prodi 1999: 101 e ss.).

Tuttavia il processo traduttivo di un evento catastrofico che si configura come esplosione simbolica può essere compiuto anche su un altro piano, che è quello del mito. Prendo qui come punto centrale la tesi di Hayden White (2000) sulla ricostruzione di società in seguito a un evento disastroso attraverso il discorso mitico.

Secondo White il mito è una risorsa culturale fondamentale per indirizzare l’azione di ricostruzione sociale. La logica narrativa del mito non è tanto quello della causalità, come indica Lotman nel discorso storico, quanto della conformità, cioè ogni cosa e ogni persona hanno un luogo e un tempo ben collocato all’interno della struttura sociale e rispondente a una regola di condotta:

se localizzate appropriatamente nello spazio e nel tempo, le cose funzionano bene; se non lo sono tutto procede in maniera negativa. Rovina, distruzione e disastro sono conseguenze di una dislocazione spaziale e temporale. Il mito pertanto spiega o, meglio, esplica i tipi di situazioni che noi moderni potremmo caratterizzare come “ricostruzione di società”, attraverso la segnalazione, l’individuazione e l’identificazione delle violazioni delle regole di conformità. (White, 2000: 141 trad. it.)

Il mito così ci fornisce una struttura per dare forma narrativa alla distruzione permettendoci ci moralizzare l’evento, cioè assegnando a esso una causa e dunque una fonte d’origine che non sia solo meramente fisica. Nel momento in cui gli esseri umani si trovano coinvolti in un evento che distrugge l’infrastruttura materiale della comunità, si cerca di costruire una narrazione che assegni in qualche modo un valore alla sofferenza umana.

La costruzione narrativa del disastro e la sua trasformazione in catastrofe per White può avere tre tipi di “assimilazione”:

• la mistificazione;

• la normalizzazione in tecniche di classificazione, catalogazione e conservazione; • la revisione e la delegittimazione della stessa memoria appartenente alla tradizione. I tre punti di White ci permettono di sistematizzare tre esiti dei processi traduttivi (quelli che lui chiama di assimilazione) dell’evento nella memoria comune: elaborazione mediante un approccio mitologizzante, elaborazione mediante un approccio razionalizzante e infine mancata elaborazione e dunque rottura del patto sociale. I primi due possibili eventi traduttivi, come vedremo, non sono affatto tra loro mutuamente esclusivi, ma spesso coesistono. Come appunto dicevamo in precedenza una delle caratteristiche di questi fenomeni è infatti di mettere in evidenza conflitti tra concezioni culturali diverse: è il caso di Lisbona in cui si sono confrontati un approccio mitologizzante, quello di Malagrida, e un approccio razionalizzante, quello di Plombal.

È il caso ancora oggi per esempio della tragedia di Sarno26, analizzata dallo stesso White, in cui la versione mitica dell’evento ha avuto la meglio su quella razionalizzante conducendo alla non-azione (ib.: 145 trad. it.). O per esempio dello tsunami asiatico del 2004 in cui sono stati chiamati in causa sia fenomeni “naturali” (la teoria geologica, lo spostamento dell’asse

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terrestre, il disastro ambientale) sia fenomeni “morali” (la distribuzione della ricchezza sul pianeta e il rapporto tra la condizione dei turisti occidentali colpiti e le popolazioni locali) tra di loro spesso strettamente imbricati (Dupuy, 2005).

La risoluzione narrativa della catastrofe si traduce sul piano dei comportamenti: l’affermarsi del modello di Plombal ha prodotto la ricostruzione di Lisbona secondo i criteri urbanistici innovativi dell’epoca; la risoluzione mitizzante della tragedia di Sarno ha prodotto l’inazione; la risoluzione moralistica della tragedia dello tsunami ha prodotto il più grande trasferimento di denaro per scopi benefici da singoli cittadini occidentali verso ONG e stati asiatici.

3.5.2. Pratiche e testi della sicurezza

I meccanismi di protezione sono quelli che puntellano le strutture di contenimento culturale impedendo o cercando di impedire che un evento pericoloso penetri nella comunità e ne laceri il tessuto di contenimento. La funzione dei discorsi della sicurezza che analizzeremo nella seconda parte è quella di ricondurre qualsiasi evento nell’ambito della prevedibilità, agendo da meccanismo traduttivo tra ciò che la cultura concettualizza come esterno alla comunità, e che deve rimanere tale, e ciò che essa vede come interno.

Se riportiamo a questo livello la tipologia messa a punto da White, le pratiche di sicurezza si trovano al secondo livello: si tratta di forme di normalizzazione, classificazione, catalogazione e conservazione che rispondono a un approccio razionalizzante rispetto al disastro. Tuttavia, come vedremo, spesso questo tipo di pratiche al loro interno possono sconfinare in “stili di ragionamento” che si avvicinano anche all’approccio mitologizzante (per esempio il pensiero gnostico, come vedremo nell’analisi del caso londinese) o affiancarsi ad approcci mitologizzanti (le narrazioni apocalittiche). In questo senso occorre compiere una operazione di astrazione rispetto ai ruoli sociali: non è detto che uno stile di ragionamento “razionalizzante” sia di esclusivo appannaggio delle istituzioni governative. Occorre dunque imparare a non far corrispondere automaticamente ruolo tematico sociale e stile di ragionamento.

La tesi che sostengo è dunque che i discorsi e le pratiche della sicurezza svolgano oggi la stessa funzione del mito e della narrazione storica: fornire le risorse simboliche affinché una società si protegga dal pericolo oppure ricostruisca la propria struttura di mondo nel momento in cui tale pericolo si realizza.

Nel primo capitolo ho parlato di sistemi di sicurezza come costituzione di una memoria prospettica e con funzione protettiva. Nel secondo capitolo ho sostenuto l’ipotesi di una

cultura che si costituisce, per dirla con Lévi-Strauss, come opera difensiva di una comunità. In questo capitolo ho affermato che la cultura agisce come una struttura di contenimento della comunità, permettendo a individui e collettività di agire nel mondo e collocare gli eventi. Se la cultura è la memoria non ereditaria di una collettività, nel corso di queste pagine abbiamo visto il medesimo fenomeno sotto rispetti diversi.

Così le pratiche e i testi della sicurezza sono a mio avviso un oggetto empirico fondamentale che ci permette di testare l’ipotesi di fondo avanzata, permettendo di verificarla oggi nel contesto post-11 settembre. Gli studi finora visti riguardano i modi in cui una comunità pensa e ricostruisce se stessa dopo un disastro. Questi studi ci danno alcuni strumenti e ci permettono di avanzare alcune ipotesi per capire come funzionano i testi e le pratiche della sicurezza. Tuttavia vi è una sostanziale differenza: queste non riguardano solo le pratiche di ricostruzione sociale dopo l’evento catastrofico, ma anche i modi in cui evitare la distruzione o contenerla prima che un evento catastrofico accada.

Possiamo riassumere la tesi che qui voglio sostenere in quattro punti:

1. le pratiche di sicurezza costruiscono una protezione e una struttura di contenimento rispetto a eventi disastrosi che sono possibili nel futuro;

2. dal pericolo al rischio: le tecnologie del rischio e le pratiche di sicurezza operano presentificando un evento che potrebbe accadere in futuro;

3. memoria prospettica e protettiva: le tecnologie del rischio inscrivono nella memoria di una società un evento che è avvenuto ma che si potrebbe ripresentare oppure un evento non ancora avvenuto ma che potrebbe verificarsi. L’obiettivo è la protezione; 4. l’analisi delle pratiche di sicurezza ci permette di vedere quali sono i valori culturali

messi in gioco in una società, quali i modelli culturali e le dinamiche identitarie operanti.

3.6. Regimi temporali nei testi e nelle pratiche di protezione: memorie del futuro