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Semiotica della cultura e paradigma immunitario

Nel confronto tra paradigma immunitario e teoria del valore abbiamo messo in gioco una precisa nozione di significato: l’identità di un segno è data dalla correlazione, negativa, con altri segni appartenenti allo stesso sistema, quello linguistico. Ci siamo però posti una seconda questione: qual è la relazione tra il processo semiosico così come descritto da Eco e la necessità di produrre “un numero di contraddizioni sufficiente a creare un valido apparato immunitario” (Esposito, 2002: 58) in una data comunità (o semiosfera), cioè un sufficiente grado di differenziazione in funzione di difesa e protezione?

Prima di tentare una risposta a questa domanda (lo farò compiutamente nel prossimo paragrafo) dobbiamo portare l’analisi dal livello della correlazione tra segni appartenenti allo stesso sistema a quello del livello della correlazione tra diversi sistemi segnici, che costituiscono nel loro insieme ciò che generalmente chiamiamo cultura:

Nessun sistema segnico possiede un meccanismo che gli consenta di funzionare isolatamente. Ne consegue che, accanto a una impostazione che permetta di costruire una serie di scienze relativamente autonome del ciclo semiotico, anche un’altra è lecita, dal punto vista della quale tutte queste scienze considerino aspetti particolari della semiotica della cultura, intesa come scienza della correlazione funzionale dei diversi sistemi segnici. (Ivanov, Lotman, Piatigorskij, Toporov e Uspenskij, 1973: 107 trad. it.)

Nella visione di Jurij Lotman e della scuola di Tartu la cultura è un organismo unitario differenziato internamente e composto da diverse formazioni semiotiche tra loro correlate. Lo spazio culturale nel suo complesso e nell’insieme delle sue componenti è separato da uno spazio esterno ed extra-sistemico. Tra spazio interno e spazio esterno vi sono una serie di filtri traduttivi che collegano il primo al secondo e viceversa. Lotman usa per descrivere la cultura come organismo il termine semiosfera, creato a partire dal termine biosfera coniato da Franz Eduard Suess e diffuso dall’opera di Vladimir Ivanovič Vernadskij, a cui il semiotico russo si ispira. Se la biosfera è condizione per lo sviluppo della vita a partire dalla sua funzione di filtro dell’energia solare, la semiosfera è “lo spazio semiotico al di fuori del quale non è possibile l’esistenza della semiosi” (Lotman, 1985: 58). La visione lotmaniana della cultura è in questo senso organicista e olistica: se è sicuramente vero che la cultura è un insieme di testi e di linguaggi diversi, essa non è descrivibile come semplice somma delle sue parti in quanto

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Uno degli elementi fondamentali avanzati nel modello lotmaniano è l’importanza del confine e dei meccanismi di separazione tra esterno e interno. Il confine è “un meccanismo bilinguistico, che traduce le comunicazioni esterne nel linguaggio interno della semiosfera e viceversa” (ib.: 60). Come le membrane cellulari o lo strato di ozono che avvolge la Terra, così i confini della semiosfera trasformano ciò che è estraneo in interno. Mi sembra a questo punto evidente la consonanza teorica tra i meccanismi di immunizzazione, come evidenziati da Esposito, e il meccanismo semiotico della cultura come grande sistema di traduzione tra interno ed esterno. Per ritornare all’esempio del diritto, i codici giuridici hanno proprio la funzione di tracciare il confine traducendo “nel linguaggio interno della semiosfera” ciò che deve rimanere fuori dalla comunità (la violenza per esempio). Ci troviamo di fronte all’atto dell’appropriazione – la prima figura dell’Immunitas analizzata da Esposito con riferimento al sistema giuridico – dell’extrasemiotico da parte del culturale.

Ogni sistema culturale in un determinato periodo storico deve descrivere e rendere nel proprio linguaggio la disorganizzazione esterna da cui difendersi, il caos da cui sfuggire: catastrofi naturali, guerre, violenza, barbarie, immoralità, e in generale da tutto ciò che può condurre alla fine individuale o collettiva e dunque alla morte. Questo fuori per rimanere tale deve essere assimilato in maniera controllata (attraverso alcuni filtri traduttivi) e questo è possibile solo nel momento in cui l’estraneo e il proprio costruiscono al proprio interno una immagine dell’altro. Per spiegare questo meccanismo – che in realtà abbiamo visto nel suo aspetto logico, discutendo della teoria del valore saussuriana – Lotman ricorre al concetto geometrico di enantiomorfismo. L’enantiomorfismo è la relazione tra due forme che sono simmetriche specularmente e sovrapponibili solo rispetto a un piano posto fuori di esse. Vi è cioè simmetria tra due entità distinte solo rispetto a un terzo piano di riflessione. Se invece si cerca di sovrapporre direttamente le due entità queste non combaciano, rivelando la loro difformità, come accade per esempio tra la mano destra e la mano sinistra:

Questo rapporto crea quella differenza correlata, diversa sia dall’identità che rende il dialogo inutile, sia da una differenza priva di correlazione che lo rende impossibile. Se le comunicazioni dialogiche sono alla base della formazione del pensiero, le visioni enantiomorfe dell’unità e le somiglianze del diverso sono alla base della correlazione strutturale fra le parti nel congegno generatore di senso. La simmetria speculare genera i necessari rapporti di somiglianza e di differenza che permettono di creare le relazioni dialogiche […] è necessario che i partecipanti siano diversi e abbiano nello stesso tempo nella propria struttura l’immagine del contragente. (Lotman, 1985: 70-71)

Ci troviamo di fronte a quella antinomia messa in luce da Esposito in relazione a una scienza o a una esperienza dell’estraneo. Lotman, ricorrendo all’esempio della simmetria speculare, ci dice che non è possibile esperienza del totalmente estraneo che non sia già

proprio, e che l’esperienza della alterità e della identità si gioca a partire dalle somiglianze del diverso e dalle visioni enantiomorfe dell’unità: il senso si genera sul punto di giunzione tra identità e alterità. Il dialogo è possibile a partire dalla costruzione dell’immagine del contragente, cioè a partire da una operazione di traduzione, nel senso del trasportare dentro, di ciò che è fuori. Ci ritroviamo ancora a riaffermare che l’identità e il senso si producono sul limine: come due entità enantiomorfe sono sovrapponibili solo a partire da un terzo piano che le rifletta, così il confine funziona da piano di sovrapposizione e traduzione tra esterno e interno.

La costruzione del contragente, la delimitazione dei confini e lo scambio traduttivo tra interno ed esterno costituiscono per Lotman i problemi fondamentali per una semiotica della cultura (Lotman, 1985: 126), messi in evidenza già nel 1973 in un manifesto dal titolo “Tesi per un’analisi semiotica delle culture”:

In una descrizione del punto di vista esterno, cultura e non cultura sono rappresentate come ambiti reciprocamente condizionati e bisognosi l’uno dell’altro. Il meccanismo della cultura è un congegno che trasforma la sfera esterna in quella interna: la disorganizzazione in organizzazione, i profani in iniziati, i peccatori in giusti, l’entropia in informazione. In forza del fatto che la cultura non vive soltanto grazie all’opposizione tra sfera interna ed esterna, ma anche grazie al passaggio da un ambito all’altro, essa non si limita a lottare con il “caos” esterno, ma allo stesso tempo ne ha bisogno, non solo lo annienta, ma costantemente lo crea. (Ivanov, Lotman, Piatigorskij, Toporov e Uspenskij, 1973: 109 trad. it.)

La semiotica della cultura, non da ora, ha rilevato la necessità per il sistema di produrre “un numero di contraddizioni sufficiente a creare un valido apparato immunitario” (Esposito, 2002: 58): la cultura produce strutturalità e ordine ma allo stesso tempo ha bisogno per funzionare della contraddizione e del disordine, cioè ogni cultura per funzionare ha bisogno del “proprio caos” (Ivanov, Lotman, Piatigorskij, Toporov e Uspenskij, 1973: 109 trad. it.). Una delle più gravi minacce per un dispositivo immunitario è proprio quella di perdere “il contatto con il disordine che ne costituisce insieme il confine e la materia, diventando alla fine preda di esso” (Esposito, 2002: 130). Così l’esterno sia per una semiotica della cultura che in una ottica immunitaria diviene “la molla di riproduzione dell’interno” e l’interno diviene il “filtro di assorbimento dell’esterno” (ib.: 59).

Se la figura fondamentale del meccanismo immunitario è quella dello sconfinamento in cui il luogo della minaccia “è sempre quello del confine tra l’interno e l’esterno, il proprio e l’estraneo, l’individuale e il comune” (Esposito, 2002: 4), per la scuola di Tartu la figura fondamentale nel funzionamento dicotomico della cultura si manifesta sotto il segno della

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ordinato nell’area dell’organizzazione” (Ivanov, Lotman, Piatigorskij, Toporov e Uspenskij, 1973: 112 trad. it.). Il confine della semiosfera più che una rigida divisione diviene il luogo di continui transizioni, traduzioni e attraversamenti.

È infine il ruolo della memoria, su cui però mi soffermerò più approfonditamente nel terzo capitolo, che assume un ruolo centrale, simile in entrambi gli approcci. La generazione del caos o della contraddizione tipica di ogni sistema culturale ha nell’ottica immunitaria il compito di produrre antigeni e anticorpi, cioè un apparato protettivo che, avendo costruito e interiorizzato l’immagine di quello che Lotman chiama il “contragente”, è capace di riconoscere il disordine e il caos che minaccia di distruggere il sistema. Il ‘no’ posto davanti a ciò che deve essere tenuto sul confine della comunità ha proprio questa funzione di anticorpo: la memoria nel paradigma di immunizzazione è protezione e rassicurazione per gli individui membri della comunità di fronte alla possibilità della catastrofe. La consonanza tra la funzione protettiva della memoria all’interno del paradigma immunitario e il ruolo della memoria e della cultura all’interno del lavoro di Lotman, assume qui una coincidenza importante. Ci siamo sempre concentrati in ambito semiotico sulla definizione di cultura data da Lotman e Uspenskij in quanto “memoria non ereditaria di una collettività” (1975: 43), senza soffermarci sul fatto che i due semiotici aggiungono immediatamente che tale memoria si manifesta come “sistema di divieti e prescrizioni” (ib.). Anche in Lotman, come nella teoria del diritto di Luhmann e nella ricostruzione del paradigma immunitario di Esposito, è il ‘no’ posto davanti a ciò che deve essere riconosciuto e rappresentato come estraneo a produrre una memoria.

Il confronto tra la semiotica della cultura di Lotman e il paradigma immunitario come descritto da Esposito credo sia molto produttivo. La funzione protettiva che il senso e la cultura sembrano avere nella vita degli esseri umani trova in entrambi gli approcci una formulazione simile: se la cultura nelle parole di Lotman esiste “per analizzare e disperdere i timori”, l’immunità, attraverso alcuni suoi strumenti (il diritto per esempio) sopprime le “aspettative incerte” e ci restituisce altre aspettative che, seppur problematiche, sono comunque sicure (Esposito, 2002: 58).

Il nostro problema, per ritornare alla seconda questione che ci siamo posti, è definire quali sono i meccanismi attraverso cui nella prassi sociale viene offerta protezione e sicurezza, a partire dai meccanismi di immunizzazione/differenziazione che abbiamo visto. Se è vero, come dice Esposito, che “l’asse semiotico intorno al quale si costituisce ogni istituzione sociale è quello che stabilisce il confine tra l’io e l’altro – tra noi e gli altri” (Esposito, 2002: 179), il terreno privilegiato della nostra indagine diviene proprio l’attività sociale e politica

delle istituzioni. Il problema dell’immunità è quindi strettamente legato alla relazione tra potere e individui o, per dirla con Michel Foucault, coincide con la questione del soggetto.