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Cinema e pittura tra teorie e pratiche

CINEMA E PITTURA: PASSION

2.2 Cinema e pittura tra teorie e pratiche

Dopo aver delineato una tipologia di film che richiamano gli aspetti della pittura, verrà trattato ora il rapporto tra cinema e pittura nella letteratura critica. Una posizione di rilievo nella storia delle teorie del cinema è occupata dalle teorie emerse nel corso degli anni sul rapporto tra cinema e arti figurative.

Tra la letteratura critica più illustre troviamo i saggi di André Bazin, il quale afferma che il cinema «compie e trascende tutto ciò che le altre arti avevano in precedenza tentato di realizzare»75, ma la consapevolezza di tale frase poté essere

compresa solo dopo molti anni. La critica cinematografia nacque nel momento in cui il cinema riuscì a staccarsi dalla dipendenza degli schemi concettuali delle arti

74 Tale sottocapitolo è bastato principalmente sulle teorie principali tra cinema e pittura analizzate da Antonio Costa nel suo libro Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino, 2002; e nella voce Pittura in Enciclopedia del cinema Treccani.it (a cura di) Costa Antonio, 2004, http://www.treccani.it/enciclopedia/pittura_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/ (ultima visualizzazione 21 novembre 2014).

75 Bazin André, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1986; qui citato in Costa Antonio, Il cinema e

tradizionali. Decisivi furono gli apporti di grandi teorici che condussero le loro riflessioni favorendo lo sviluppo di nuovi modi di collocare il cinema in rapporto al sistema delle arti.

Uno dei primi teorici che indagò le differenze tra cinema e pittura fu il poeta Vachel Nicholas Lindsay con il testo The art of the moving pictures (1915). La prima parte del libro è incentrata sugli aspetti essenziali che hanno dato il successo al cinema, come l'azione, il sentimento e la magnificenza. Secondo Lindsay, per superare la struttura compositiva delle arti visive tradizionali, il cinema deve fare leva sulla dimensione temporale propria del mezzo cinematografico. Nei capitoli successivi egli studia il cinema come sculpture-in-motion, painting-in-motion e architecture-in-

motion76, precisando però che il movimento di cui parla è tale da mutare la natura stessa

delle arti tradizionali citate: dalle sue notazioni risulta evidente che l'idea di movimento che viene sviluppata riguarda non solo il contenuto dell'immagine, ma il tipo di relazioni che si stabiliscono tra le immagini77. A partire da questo concetto, Lindsay

definisce il cinema come un tipo di scrittura iconica (writing-picture), vicina a quella dei geroglifici e degli ideogrammi. Gli stessi concetti saranno analizzati anche nella riflessione teorica di Sergej M. Ejzenštejn un decennio dopo.

Rudolf Arnheim nel suo libro Film als Kunst (1932) tenta di trasporre il cinema all'interno della teoria dell'arte della Gestaltpsychologie, per cercare di dimostrare che nel cinema «anche i processi visivi più elementari non producono immagini meccanicamente registrate del mondo esterno, ma organizzano il materiale grezzo fornito dai sensi secondo i princìpi di semplicità, regolarità ed equilibrio»78. Secondo

Arnheim, l'artisticità del cinema discende da quelle caratteristiche in grado di differenziare l'immagine cinematografica rispetto alla realtà percepita, che sono incentrate sull'effetto di illusione: «Il cinema dà contemporaneamente l'impressione d'un avvenimento reale e d'un quadro»79.

Lo storico dell'arte Carlo Ludovico Ragghianti analizza il cinema come arte figurativa, sostenendo la tesi nella quale il cinema deve essere studiato con gli strumenti

76 Vachel Lindsay Nicholas, The art of the moving pictures (1915), The Modern Library, New York 2000, pp.65-104.

77 Citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, pp.212-213.

78 Arnheim Rudolf, Film als Kunst (1932), tr. it. Il film come arte, Feltrinelli, Milano 1982, p.14. 79 Arnheim Rudolf, Film als Kunst (1932), tr. it. Il film come arte, Feltrinelli, Milano 1982, p.35.

propri della storia dell'arte. Ragghianti mise in pratica la sua teoria realizzando una serie di documentari sulle arti figurative, dove il tema principale poteva spaziare dall'opera pittorica, scultorea, architettonica oppure concentrarsi sull'artista stesso. Ragghianti definisce i documentari con il termine “critofilm” d'arte, ovvero una critica d'arte esercitata attraverso il linguaggio cinematografico. Primo esempio di “critofilm” è

Deposizione di Raffaello del 1948; da allora, fino al 1964, Ragghianti realizzò altri

diciannove documentari sull'arte, nei quali il ruolo del cinema si trasforma in strumento di analisi e di divulgazione. Ragghianti supera il problema delle differenti basi tecniche del cinema e della pittura appellandosi ai princìpi dell'estetica crociana. Basandosi sulla distinzione tra arte e tecnica, Ragghianti sostiene che la forma artistica compiuta, cioè risolta in espressione, richieda di essere analizzata in quanto tale80. Ovvero, se non

appaiono rilevanti per l'esito artistico le differenze tra pittura e scultura nel campo delle arti plastiche, così non possono essere rilevanti quelle tra pittura e cinema. Per esplicare la sua tesi, Ragghianti utilizza come esempi Georg Wilhelm Pabst e Charlie Chaplin, con l'obiettivo di dimostrare la validità del suo metodo sia nei film che presentano espliciti riferimenti alla pittura (Pabst), sia in quei film in cui la lontananza dal modello pittorico è massima (Chaplin). Ragghianti sceglie come esempi alcune sequenze filmiche, che descrive mettendo in evidenza la coerenza che emerge tra procedimenti filmici e procedimenti grafico-figurativi: nell'analisi del film Kameradschaft (La

tragedia della miniera, 1931) di Pabst, Ragghianti ritiene che «i valori luministici di

molte scene rammentano, nel modo di costruire con pura luce, le figure di Rembrandt», mentre richiamano il pittore a Jean-François Millet «le forme in cui si vanno a ritrovare le pose naturalmente monumentali dell'operaio e del lavoro»81; l'analisi dello stile

chapliniano che ritiene sia impostato sull'antinaturalismo dei gesti e dell'incedere, viene definito da Ragghianti coerente e in linea con se stesso e parla di «trasformazione decorativa del moto»82 per poi accomunare l'esaltazione del movimento dello stile di

Chaplin al “linearismo funzionale”, una critica coniata dallo storico dell'arte rinascimentale Bernard Berenson.

Di grande rilievo è il contributo del cineasta e teorico russo Sergej Mikhailovich

80 Citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.219. 81 Ragghianti Carlo Ludovico, Arti della visione , volume I, Einaudi, Torino 1975, p.13. 82 Ragghianti Carlo Ludovico, Arti della visione , volume I, Einaudi, Torino 1975, p.19.

Ejzenštejn, il quale basò il suo lavoro creativo e teorico su un'idea-guida che più volte venne espressa e commentata dal cineasta e attuata nei suoi film: «il cinema come stadio contemporaneo della pittura»83. Questa idea-guida è riscontrabile nei film Ivan Groznyj

(Ivan il terribile, 1944) e Ivan Groznyj II: Bojarskij zagovor (La congiura dei boiardi, 1946), nei quali emergono i tentativi di collegare il linguaggio cinematografico con la tradizione pittorica dell'arte russa. «Nella sua vasta produzione teorica, Ejzenštejn cerca costantemente di collocare la relazione tra pittura e cinema in una storia e in una teoria della rappresentazione»84. Come osserva Pietro Montani, per Ejzenštejn il cinema

poteva servire a risolvere vecchi problemi, ma anche a individuare problemi non perfettamente focalizzati in passato85. A partire dalle analisi di opere pittoriche realizzate

da Ejzenštejn, egli è in grado di indagare e analizzare problemi della sfera pittorica attraverso il linguaggio cinematografico e viceversa. La sua teoria del montaggio può essere considerata come una teoria generale dell'arte ed è per tale motivo che tra la pittura e il cinema vi è una scambiabilità, che chiarisce ed esemplifica i problemi generali della rappresentazione. «I fondamenti teorici su cui si basa il metodo del cineasta sono vari e vanno dall'adesione al materialismo dialettico alle più eclettiche suggestioni»86; ne spiegheremo ora tre tra quelle connesse ai legami con la pittura. Il

primo fondamento si basa sulla teoria formalista dell'arte, che ha avuto delle influenze soprattutto sulla concezione del montaggio ideata da Ejzenštejn. Tale teoria si basa sulla concezione dell'arte come procedimento, costruzione e artificio, in cui le leggi che regolano la composizione artistica sono le medesime per le varie forme espressive, perciò anche per il cinema, purché venga mantenuto il rispetto delle caratteristiche specifiche dei materiali di base di ogni arte. Il secondo fondamento si basa sulla concezione dell'organicità dell'opera d'arte: un nesso simile a quello dei sistemi organici regola nell'opera d'arte i rapporti tra il tutto e le parti. Da questo nesso il cineasta cerca di chiarire il modello “polifonico” dell'opera d'arte, modello che trova la sua attualizzazione nel cinema, cioè la possibilità di un nesso organico tra varie materie

83 Citato in Costa Antonio, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino 2002, p.251.

84 Citato in Enciclopedia del cinema Treccani.it, Pittura, (a cura di ) Antonio Costa, 2004, http://www.treccani.it/enciclopedia/pittura_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/ (ultima visualizzazione 21 novembre 2014).

85 Montani Pietro, La soglia invalicabile della rappresentazione. Sul rapporto pittura-cinema in

Ejzenštejn, in “Cinema & Cinema”, XIV, 1987, n.50, p.47-52.

dell'espressione, tra la dimensione statica (spaziale) e quella dinamica (temporale). La concezione organica dell'opera trova il suo compimento nella nozione di estasi: il momento di estasi (uscita dalla rappresentazione) è costituito dalle fasi di trapasso da una dimensione a un'altra, da una forma statica ad una dinamica. Il terzo fondamento va ricercato nella concezione di “immaginità”: Ejzenštejn è affascinato dall'immagine concettuale, ovvero la figura del pensiero, la quale si oppone all'immagine figurativa, cioè plastica. Eppure il riferimento privilegiato all'universo pittorico sottintende un'idea di espressione capace di fondere “immaginità” e “figuratività”; secondo il cineasta è il cinema l'unica arte che può realizzare questa fusione.

I rapporti tra cinema e pittura sono stati approfonditi anche da Eric Rohmer in una serie di articoli dal titolo Le celluloïd et le marbre (1955)87. Nelle riflessioni sulla

pittura, il critico e cineasta francese ritiene che l'artisticità del cinema debba derivare non dalla sua subordinazione ad arti precedenti, ma dalla sua natura fotografica e riproduttiva; attraverso il cinema l'arte è in grado di recuperare la sua relazione con l'oggetto, rapporto che si era indebolito con la nascita recente della pittura novecentesca. Rohmer sostiene una supremazia del cinema nel sistema delle arti, dalla quale emerge un'esigenza di misura e di equilibrio, che costituirà il principio dell'estetica del critico che ritornerà ad indagare i rapporti tra pittura e cinema nel saggio L'organisation de

l'espace dans le 'Faust' de Murnau (1977)88. Nel saggio Rohmer definisce i tre spazi del

cinema e in cui la sua analisi si articola: lo spazio pittorico, architettonico e filmico. L'analisi è sbilanciata nello spazio pittorico: l'analisi dello spazio architettonico non fa altro che ribadire il primato del modello pittorico in Murnau, mentre quella dello spazio filmico tende a dimostrare la conquista d'una forma pienamente cinematografica, nonostante il primato della composizione spaziale (la dimensione pittorica) rispetto allo sviluppo temporale (dimensione specifica del lavoro del montaggio)89.

Il tema delle relazioni tra cinema e pittura è tornato ad interessare gli studiosi tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, in seguito alla decadenza dei modelli linguistico-narratologici che avevano controllato gli studi semiologici tra gli anni

87 trad. ita. La celluloide e il marmo.

88 Edizione italiana: Rohmer Eric, L'organizzazione dello spazio nel “Faust” di Murnau, Marsilio, Venezia 2004.

Sessanta e la prima metà degli anni Ottanta. Molto probabilmente tali modelli sono entrati in crisi perché strutturalmente portati ad ignorare gli aspetti propriamente visivi dell'espressione cinematografica; inoltre, una spinta è stata data anche dal cinema stesso, che iniziò a spostare la propria attenzione su tale tema. Negli anni Ottanta si affermarono perciò gli studi di due critici francesi, Pascal Bonitzer e Jacques Aumont, i cui scritti avranno un'ampia influenza sugli autori successivi.

Gli interessi di Pascal Bonitzer non sono incentrati in un confronto diretto tra cinema e pittura, né tanto meno sui problemi posti dalle relazioni evidenti o sui confronti tra le diverse basi tecniche e linguistiche proprie dei due mezzi. Bonitzer cerca le relazioni nascoste tra cinema e pittura e cerca di lavorare su di esse. Nel saggio

Décadrages, Cinéma et peinture (1985), il critico francese inizia ad analizzare il celebre

quadro di Diego Velázquez, Las meninas (1656), con lo scopo di evidenziare la funzione di sospensione di senso, di enigma, di domanda senza risposta, che emerge dalla relazione che si stabilisce tra ciò che viene mostrato nel dipinto e il “fuori campo”. Quest'ultimo è un termine cinematografico che Bonitzer impiega nella sfera pittorica per analizzare opere organizzate secondo i modelli dello spazio filmico dei pittori Leonardo Cremonini, Francis Bacon, Jacques Monory. Con questo approccio Bonizer dimostra l'esistenza di una serie di peculiarità comuni tra l'organizzazione dello spazio e forme simboliche della pittura e del cinema: ad esempio in quei cineasti-pittori (Antonioni, Duras, Straub e Huillet) in grado di creare inquadrature dalla “suspance non narrativa”; oppure nel campo della pittura è attraverso il trompe-l'œil e l'anamorfosi che si stabilisce l'esistenza di una relazione tra il cinema dei pittori e l'arte figurativa.

Con il testo L'occhio interminabile, cinema e pittura (1989) Jacques Aumont si distanzia dalla tesi della derivazione del cinema dalla pittura, ma anche quella di qualsiasi parentela tra le due, per porre il proprio interesse su ciò che della pittura muore o si trasforma con il cinema. A differenza di Bonitzer, che preferisce focalizzarsi su una possibile ipotesi di corrispondenza tra le tendenze del cinema contemporaneo e le esperienze pittoriche, Aumont indica invece i punti di massimo distacco tra i due mezzi. Il libro di Aumont offre un contributo che concilia le esigenze storiche del mezzo e delle forme artistiche con la prospettiva teorica, elaborando una teoria della forma filmica e di quella pittorica.