• Non ci sono risultati.

Godard e la musica: compositore di cinema

CINEMA E MUSICA: PRÉNOM CARMEN

3.4 Godard e la musica: compositore di cinema

Jean-Luc Godard inizia a sviluppare uno studio verso un'estetica del suono a partire dai suoi primi lavori, per giungere ad un'estetica personale con Prénom Carmen. La sua estetica si basa su un triplice approccio: quella dell'artista, il suo lavoro e il suo rapporto con la storia295. Il suono, in Godard, diviene espressione soggettiva dell'artista,

che esterna attraverso la simultaneità di diversi eventi sonori oppure con la segmentazione dello stesso suono. I suoi processi di rottura riescono a fondersi in un unico universo musicale, una separazione e riparazione del suono che si accompagna al montaggio dell'immagine stessa. Con questo metodo, di montaggio e smontaggio degli elementi, il regista crea nuovi oggetti sonori ed individuali, segmenti che non sono né primari, né la somma dei loro componenti. I due monologhi di Made in Usa (1966) sono ad esempio la giustapposizione egualitaria di due discorsi distinti, che possono essere ascoltati separatamente o insieme. La difficoltà di una differenziazione tra i due monologhi rafforza la percezione della sonorità globale. Per le sue caratteristiche, il suono godardiano può essere associato alla musica di campionamento, ovvero quando parti di una composizione musicale o di suoni vengono miscelate per dare vita ad una nuova composizione. Questa pratica può essere considerata l'equivalente della citazione in letteratura o del collage in pittura. L'estetica del suono in Godard si basa quindi su il missaggio di suono, musica e immagini.

Questo mix ha una un'origine antica e profonda che ricerchiamo nel montaggio. Come abbiamo potuto osservare in precedenza, i cineasti che trattano con molta libertà la tecnica del montaggio sono anche i più audaci nell'utilizzo della musica. Pensiamo alle teorie formulate da Ejzenštejn296, che aveva fatto del suddetto il fulcro del suo

discorso teorico, il quale sosteneva l'idea di un assemblaggio delle immagini scomposto, privo di una linearità temporale, costruito in modo tale che sia lo spettatore a partecipare attivamente alla “ricostruzione” del film, attraverso nuove associazioni di idee e di emozioni da esso provocate tramite il turbamento della nuova tecnica. Allo stesso modo,

295 Secondo Serrut Louis-Albert, Jean Luc Godard. Cineaste acousticien: des emplois et des usages de

la matières sonore dans ses oeuvre cinématographiques, L'Harmattan, Paris 2011, pp.324-237,

(traduzione nostra).

296 In questo caso ci riferiamo ala teoria del montaggio delle attrazioni formulata nel 1923. Per un approfondimento sull'argomento si consiglia il testo di Antonio Somaini, Ejzenstejn. Il cinema, le

arti, il montaggio, Einaudi, Torino 2011 e di David Bordwell, The cinema of Eisenstein , Harvard

nel Manifesto dell'asincronismo297 egli sostiene che il suono asincrono, oltre ad essere

un elemento importante del montaggio, favorisca il perseguimento dell'obiettivo, sostenuto anche per la montatura delle immagini, di dimostrazione dell'artificialità del cinema allo spettatore, generando conflitti espressivi in grado di provocare sensazioni nuove.

Ritengo perciò doveroso soffermarci sull'utilizzo innovativo che Godard fa del montaggio per poter così approdare ad una comprensione che sia sufficientemente esaustiva del suo legame, prima con il suono e, poi, con la musica.

L'uso iconoclasta e consapevole di tale tecnica da parte dell'artista si basa sulla frammentarietà della tecnica che conduce lo spettatore ad un distacco critico dall'opera cinematografica: il cineasta privilegia i falsi raccordi, i jump cuts, i salti di montaggio, le panoramiche a schiaffo, l'uso del piano sequenza-mobile e le ripetizioni di brevi sequenze come refrain; tecniche che lo portano a sperimentare soluzioni visive e sonore nuove. Così come la tecnica si contrappone alle impostazioni convenzionali, anche con il suono Godard tenta di contrapporsi alla postsincronizzazione del cinema classico. Caratteristica essenziale dei suoi primi film, ma anche dell'intera Nouvelle Vague, è il suono in presa diretta, ovvero registrato contemporaneamente all'immagine. A causa del ritardo della cinepresa 35 mm in fatto di presa diretta, le prime opere degli anni Sessanta sono però tutte postsincronizzate; così i cineasti della Nouvelle Vague si limitavano solo, al momento delle riprese, a registrare una colonna-guida, scelta che venne anticipata dallo stesso Godard alla fine degli anni Cinquanta, la quale causava tuttavia un asincronismo tra immagine-suono. Per un perfezionamento tecnico si dovette aspettare la fine degli anni Sessanta, ma ancora una volta è Godard ad anticipare la tecnica: nel 1961 e nel 1962 realizza i film Une femme est une femme e Vivre sa vie totalmente in presa diretta, raggiungendo un risultato clamoroso. È una rivoluzione nell'estetica del sonoro, il quale si fonde con i rumori del bar, del flipper, delle strade e delle automobili. «Nasce il “suono-Godard”, che si porta appresso la lingua e il parlato francesi risentiti e rigustati ex novo»298. A proposito di Vivre sa vie, Godard dirà:

297 Ricordiamo che il Manifesto dell'asincronismo venne teorizzato da Ejzenštejn e Pudovkin nel 1928, in cui si perseguiva l'idea che il suono messo in contrappunto con il montaggio potesse creare una perfetta fusione tra immagine e musica.

Nel mio film bisogna sentir parlare le persone, tanto più in quanto esse si trovano spesso di spalle e non si è distratti dai volti. Il suono invece è il più realistico possibile. Mi fa pensare a quello dei primi film parlati. Mi è sempre piaciuto il suono nei primi film parlati, aveva una grande verità, perché era la prima volta che al cinema si sentiva parlare qualcuno299.

La parola è un altro suono fondamentale nell'estetica di Godard, la sua riflessione sulla natura del linguaggio in rapporto alla realtà può riassumersi in queste brevi righe scritte dal regista:

Nei primi film parlati non si capivano tutti i dialoghi, e questo la gente lo trovava meraviglioso. Adesso, invece, la gente crede che, se si pronuncia una parola, questa debba sempre avere un significato preciso, e che se sfugge è la catastrofe. Si tratta di una falsa idea del cinema. Quando si sente la Carmen, all'Opéra, non si capisce niente di quel che dicono i cantanti, e la gente non è affatto irritata. Se questa stessa Carmen fosse portata al cinema, la gente direbbe di non aver capito nulla. Al cinema c'è il suono e l'immagine300.

La parola, o meglio il linguaggio, con le sue dinamiche ricche di paradossi visuali sarà analizzata con maggiore specificità nel prossimo capitolo dedicato alla letteratura. Ci soffermeremo ora su quella “sonorità” che Godard dona alla parola e ai dialoghi, che molto spesso l'ha visto sfociare, dal punto di vista tecnico, nel monologo interiore. «Egli rimane affascinato dalla libertà del monologo interiore e dall'efficacia emotiva di una postsincronizzazione dei dialoghi in Jean Rouch e nel suo film Moi, un noir301 (1958), al

punto che ne trae ispirazione per il suo Charlotte et son Jules (1958), dove ha l'audacia di doppiare egli stesso Jean-Paul Belmondo»302. Anche con Le petit soldat prosegue le

ricerche sulla postsincronizzazione, usando la voce interiore come diario personale del protagonista, accompagnato da una partitura per pianoforte di Murice Le Roux. «Nella rete delle varie sonorità che attraversano i film godardiani, possiamo udire talvolta anche i pensieri dell'interiorità dei personaggi, come gli interrogativi e le idee dell'autore stesso sul film che sta realizzando o che ha realizzato: Godard insinuerà costantemente, soprattutto nei suoi primi film, il suono della voce di un narratore, che coincide più o

299 Citato in Gilodi Renzo, Nouvelle Vague: il cinema, la vita, Effatà editrice, Cantalupa, Torino 2007, p.90.

300 Godard Jean-Luc, Il cinema è il cinema, I Garzanti Cinema, Milano 1981, pp.230-231. 301 Rouch per il film chiede agli attori di doppiarsi dopo le riprese in assoluta libertà. 302 Marie Michel, La Nouvelle Vague, Lindau, Torino 1998, p.106

meno palesemente con se stesso (Bande à part, Deux ou trois chose que je sais d'elle), aggiungendola o sovrapponendola a scritte e cartelli e accostandola alle voci interiori dei personaggi o delle “presenze” dei suoi film»303.

Nel periodo maoista304 (1967-74), Godard crea nei dialoghi effetti di straniamento,

in cui molto spesso i personaggi si rivolgono ad un interlocutore esterno al film (La

Chinoise). Ma è con il gruppo Dziga Vertov che egli privilegia la parola, il suono,

rispetto all'immagine, in quanto sente la necessità di «istituire l'immagine come referente della parola, ottenendo così di allontanare il reale dall'immagine innocente, la quale invece intende avvicinarlo: designare l'immagine attraverso il suono vuol dire […] rendere più arbitraria la motivatezza del segno iconico […] usando uno strumento la cui motivazione è palese (la parola) per rendere evidente anche la codificazione dell'immagine»305. In questi anni il monologo interiore di Godard non corrisponde più

alla voce dell'autore, ma diviene espressione di una riflessione metodologica, in cui il regista si interroga sui rapporti tra le cose, tra le immagini e i suoni.

Approdiamo ora alla musica e all'uso che Godard ne fa nelle sue opere cinematografiche. Per il cineasta «la musica […] è un elemento vivente, allo stesso titolo di una strada o di un automobile. È una cosa che descrivo, una cosa preesistente al film»306. Quando in una pellicola viene inserita della musica preesistente, si mette in

moto il meccanismo della citazione. Citare vuol dire attingere ad un mondo extratestuale, esterno, preesistente. «Si prende una melodia, o un brano, lo si toglie dal contesto precedente e lo si ricontestualizza»307. Godard utilizza la musica come

elemento della modernità e ne esibisce i procedimenti e i mezzi audiovisivi come tali, in modo da valorizzarne la discontinuità: nei suoi film accompagna alle immagini elementi forzati di musica classica (La Chinoise, Pierrot le fou); crea stacchi brutali nei suoni e nelle musiche (Le Mépris) e un arbitrario rapporto tra musica e immagini (Sauve qui

peut, la vie). Utilizza la melodia come il montaggio, prima ne sperimenta le tecniche e

303 Chiesi Roberto, Jean-Luc Godard, Gremese Editore, Roma 2003, p.9.

304 In questo periodo Godard rinuncia alla personalità del regista-autore per fondersi nel gruppo Dziga Vertov (Godard, Gorin, Roger).

305 Citato in Allegri Luigi, Ideologia e linguaggio nel cinema contemporaneo: Jean-Luc Godard, Università di Parma, Centro studi e archivio della comunicazione, Parma 1976, p.201.

306 Godard Jean-Luc, Il cinema è il cinema, I Garzanti Cinema, Milano 1981, p.262.

poi l'impatto sullo spettatore. Questa associazione musica-montaggio è riscontrabile anche in una dichiarazione del regista, nella quale egli descrive l'assemblaggio in termini musicali: «si può passare da un piano all'altro per un motivo drammatico, e questo è il montaggio di Ejzenštejn, che oppone una forma all'altra, e le lega indissolubilmente con la medesima operazione di raccordo. Il passaggio dal totale al primo piano diventa allora come il passaggio dalla tonalità in minore alla tonalità in maggiore nella scrittura musicale e viceversa»308 e ancora «Sono arrivato ad uno stadio

in cui il montaggio diventa composizione, musica»309.

Fin dagli esordi Godard manipola il suono e la componente musicale con le stesse tecniche del montaggio: crea spostamenti, tagli, découpages e assemblaggi che sono comparabili a quelle dell'immagine. Sia che il regista attinga al repertorio classico, o che le musiche siano create appositamente per il film, il processo di frantumazione e di ripartizione dei pezzi sonori in tutto il percorso temporale del film è lo stesso. Questa estetica del suono in Godard la ritroveremo nelle partiture di Delerue per Le Mépris, Duhamel per Pierrot le fou, Yared per Sauve qui peut (la vie), che il regista taglia e sposta a proprio piacimento, per giungere agli anni Ottanta in cui Godard fa ricorso alla musica classica.

Come abbiamo potuto constatare, il lavoro di rinnovamento per quanto riguarda l'immagine intrapreso con il montaggio va di pari passo con un approccio innovativo al suono. Il cineasta fu il primo, dal punto di vista tecnico, a estendere il principio del falso raccordo e della rottura alla totalità della banda sonora e alla musica nel senso più specifico, che essa sia composta appositamente per il film (À bout de souffle, 1960;

Pierrot le fou, 1965) oppure no (Prénom Carmen, 1983). La sua ricerca di un'estetica

del suono culminerà, a mio parere, nei primi anni Ottanta, quando darà vita a Passion e

Prénom Carmen. Con quest'ultimo Godard persegue il suo progetto a lungo termine per

ristabilire il primato dato all'immagine, evidenziando l'elemento più dipendente da essa: il suono. Ma la sua ricerca non terminerà con Prénom Carmen, anche nei suoi film

308 Citato in Liandrat-Guigues Suzanne, Leutrat Jean-Louis (tr. it. di Arecco S.), Godard alla ricerca

dell'arte perduta, Le Mani, Recco 1998, p.59.

309 Godard Jean-Luc, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, Minimum Fax, Roma 2007, p.233.

successivi egli manipolerà la musica classica, adattandola alle diverse situazioni drammaturgiche a volte spezzando le musiche e usandone i frammenti in una grande libertà inventiva e di spiccata provocazione estetica (Détective, 1985; Puissance de la

parole, 1988; Allemagne année 90 neuf zero, 1992; Forever Mozart, 1996).

Partiamo ora dal film dove tutto ebbe origine (À bout de souffle) per soffermarci poi brevemente su altri film in cui la musica, e più precisamente la citazione musicale, è venuta in essere, per concludere con la produzion che racchiude la celebrazione del suono: Prénom Carmen.

Fin dal suo primo film, À bout de souffle, Godard mette in discussione il rapporto tra immagini e suoni: è finita la supremazia data alle figure e alla storia narrata, ora il cinema si fa audiovisivo. «Le parole non sono più attaccate alle bocche, i rumori abbandonano il ruolo d'illustrazione sonora, la musica non si limita più a effetti di ridondanza o di contrappunto»310. Questo appare già nei primi tre minuti del film e si

protrae per il resto dell'opera: se il film si apre con un montaggio ed una musica di sottofondo molto classica, è nella sequenza successiva che emerge l'originalità di Godard. Le immagini ci mostrano il protagonista Michel (Belmondo) che cammina per strada e canta, a cappella, Buenas noches mi amor di Martial Solal e nel momento in cui ripete «Pa papapa Pa-tri-zia» la relazione suono-immagine sembra essersi invertita, in quanto è il ritmo della voce che scandisce il montaggio delle immagini. La canzone swing di Solal si lega al montaggio delle immagini, alla voce, alla musica e ai rumori di clacson che si mescolano insieme in un'unità ritmica che richiama la canzone stessa. Il brano continua poco dopo quando Michel, in macchina, accende la radio e si ferma in una stazione che trasmette una canzone del cantante francese Brassens, insignificante per il film in sé ma che accompagna le parole che il protagonista rivolge direttamente allo spettatore, con lo sguardo in macchina dice: «Se non vi piace il mare, se non vi piace la montagna, se non vi piace la città... Andate a quel paese...»311. Il ritmo e

l'intonazione della voce di Michel si mescola a quello della musica, che diventa accompagnatrice delle parole, ma subito la sinfonia ricomincia e continua per tutto il viaggio fino all'incontro con le autostoppiste, le quali sembrano segnare il tempo con il movimento del braccio. Dopo aver lasciato le giovani, la musica si interrompe

310 Mouëllic Gilles, La musica al cinema. Per ascoltare i film, Lindau, Torino 2005, p. 82. 311 Dialogo del film À bout de souffle (1959).

brutalmente, Michel riaccende la radio e ricompare la voce di Brassens che dice «non c'è amore...», frase che viene lasciata completare dallo stesso spettatore. La musica

jazzy riprende per terminare con l'episodio dell'uccisione del poliziotto, dove il rumore

della rivoltella prevale e fa intuire allo spettatore cosa è accaduto. L'uso della citazione di musica classica avviene con Concerto per clarinetto e orchestra (KV 22) di Mozart, definito da Godard come «il suono mortale del clarinetto di Mozart»312. Questa

descrizione è rilevante, in quanto ritengo non sia casuale l'uso che il regista fa del “suono mortale di Mozart”, poiché la musica è associabile ad un'altra morte, quella di Michel, che avverrà poco dopo aver ascoltato il brano e per mano di Patricia, che lo tradirà denunciandolo alla polizia.

L'anno successivo, con Une femme est une femme, Godard omaggia il musical hollywoodiano con un richiamo esplicito nei titoli di testa: (un film) Musicale –

Sentimentale – Teatrale – Genere Lubitsch. Inoltre il film vede numerosi numeri

musicali svolti dalla protagonista, Angela (Anna Karina), che di professione fa la ballerina e la cantante in un locale di strip-tease. Il film però non è una commedia musicale, né cerca di avvinarsi a tale, come disse il cineasta: «alla fine ho preferito suggerire l'idea che i personaggi cantino, utilizzando la musica, ma continuando a farli parlare normalmente»313. La composizione della colonna sonora viene affidata a Michel

Legrand314 che, visionata la prima versione del montaggio, comunica all'autore: «Se sei

d’accordo, faccio scivolare la musica dappertutto, anche sopra, sotto e durante i dialoghi. Anche quando i personaggi camminano. Vedrai, quando Anna cammina per strada sembrerà che danzi; quando parla, sembrerà che canti! Un compito insensato, mi sono aggrappato a ogni millimetro di pellicola, al centesimo di secondo»315; questo

“effetto musicale” si nota soprattutto nella lunga sequenza iniziale, dove Anna Karina passeggia per le vie di Parigi, nei dialoghi femminili talvolta sovrapposti a quelli maschili, altre volte la musica unita ai dialoghi maschili fonda una monotonia ritmica.

Il compositore Delerue, già trattato in precedenza per le sue collaborazioni con

312 Godard Jen-Luc, Pierrot mon ami, in “Cahiers du Cinéma”, n.171 (ottobre 1965). 313 Citato in Farassino Alberto, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2007, p.45.

314 Michel Legrand comporrà le partiture anche per Vivre sa vie (1962) Bande à part (1964) La Chinoise (1967).

315 Michel Legrand, note al compact-disc Jean-Luc Godard, Histoire(s) de Musique, Universal Music 2007.

Truffaut, lavora a Le Mépris, film tratto dal racconto Il disprezzo di Alberto Moravia. L'opera è ricca di citazioni dotte ed è incentrata sul cinema, nonostante l'apparente centralità narrativa basata sulla crisi di una coppia: Paul (Michel Piccoli) e Camille (Brigitte Bardot). Le citazioni sono innumerevoli a partire dagli ambienti stessi: i teatri di posa di Cinecittà, in quanto Paul vi lavora come sceneggiatore, l'appartamento romano della coppia, Villa Malaparte a Capri. L'arroganza del produttore americano Prokosch (Jack Palance), interferisce sulla elaborazione di un film mitologico, l'Odissea, con l'obiettivo di renderlo più attraente agli occhi dei compratori; a lui è giustapposta la presenza del regista Fritz Lang nella parte di se stesso (che rappresenta una sorta di alter ego di Godard, come si è potuto constatare nel capitolo precedente lo sarà anche Jerzy in Passion). I molteplici caratteri del film ci dimostrano come sia problematico stabilire le funzioni drammaturgico-musicali, che sono una costante nel cinema di Godard. Accompagnamento e commento s'identificano e il livello è sempre esterno, frutto di un artificio, compreso un evento di suono diegetico. Ad esempio, in una dimessa sala cinematografica i protagonisti assistono ad un avanspettacolo dove una cantante interpreta Ventiquattromila baci di Adriano Celentano, ma la fonte sonora (di livello interno) si interrompe durante le battute di dialogo in dimostrazione dell'artificiosità del cinema; il regista attua quello che Chion definisce “la retorica della confessione dei mezzi”, termine di cui è stato argomentato nel sottocapitolo delle tecniche, per esibire le convenzioni cinematografiche ma con un velo di sarcasmo e ironia. Le musiche per archi, monotematiche, composte da Georges Delerue nella versione originale di Godard vengono brutalmente sostituite nella versione italiana, curata da Carlo Ponti, da una composizione jazz di Piero Piccioni, strappando quel tono drammatico e solenne al film. Anche con il doppiaggio suoni e rumori vengono eliminati e i personaggi, che nella versione originale parlano ognuno nella propria lingua, per la versione italiana vengono doppiati appunto in italiano; così facendo la segretaria di Prokosch che aveva il compito di tradurre i dialoghi in francese diventa un personaggio inutile, in quanto il suo ruolo si trasforma nel parafrasare frasi di dialoghi già comprensibili al pubblico. La manipolazione sonora e non solo316, attuata da Ponti