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Cinque presuppost

Mario Doglian

5. Cinque presuppost

Chiariamo subito che discutere le conseguenze della automazione sulla quantità e qualità del lavoro ha un senso politico solo se si ammettono cinque presupposti. Se no, il discorso si avvita su se stesso.

Il primo è che il sistema produttivo digitalizzato e robotizzato – che ge- nera “immediatamente” disoccupazione in tutti i settori, compresi quelli ad elevato contenuto di lavoro intellettuale – non riesca a produrre, in un tempo ragionevolmente prevedibile, il lavoro suffi ciente a sostituire quello elimina- to. Che non si possa cioè ripetere quanto avvenuto in occasione del passaggio dall’agricoltura all’industrializzazione, e dall’industrializzazione ai servizi. È fondata la critica – che qui non può essere ripresa – per cui chi ragiona in questo modo in realtà nasconde la testa sotto la sabbia e compie una capriola nell’utopia.

Il secondo presupposto è costituito dal principio per cui gli esseri umani dovrebbero vivere in contesti nei quali un soggetto (lo Stato) ha, e deve ave- re, la responsabilità della loro vita libera e dignitosa. Principio ampiamente (non sempre però) negato dalla storia, ma la cui accettazione, qui ed ora, è condizione imprescindibile per continuare il discorso. Se cade questo pre- supposto, e cioè se si pensa che la libertà dei privati di muovere le merci, gli insediamenti produttivi e i capitali in ogni angolo del globo risolva di per sé il problema della possibilità di vivere una esistenza libera e dignitosa per tutti gli esseri umani, cade il problema. Se non ci si mette dal punto di vista della “città” (oggi lo Stato-Nazione, o strutture politiche più ampie), il discorso resta interessante, ma solo come discorso di futurologia impolitica.

Ammettiamo dunque, in ipotesi, che la libertà economica globale e i processi di digitalizzazione e di robotizzazione che la accompagnano non riescano a risolvere il problema politico dell’esistenza libera e dignitosa di tutti, e che sia di conseguenza necessario l’intervento del soggetto Stato (e diamo per acquisito questo principio anche da gran parte di quel che resta della tradi- zione marxista).

Il terzo presupposto è che il sistema produttivo digitalizzato e robotizzato continui a produrre ricchezza, almeno per un certo lasso di tempo, prima della inevitabile (se non si farà nulla) crisi. Una ricchezza che però oggi non prende la strada degli investimenti (se non quella degli investimenti in auto- mazione), ma piuttosto quella della tesaurizzazione fi nanziaria, per quanto possibile lontana dagli occhi del fi sco. Questo terzo presupposto assume che ancora per un lasso di tempo non troppo breve il sistema economico continui a funzionare come una idrovora che succhia ricchezza dal basso (lavoro) e la concentra in alto (capitale). E che dunque ci sia una “cosa” (la ricchezza prodotta, espropriata e dirottata) su cui agire politicamente.

Il quarto presupposto è che non si voglia precipitare ulteriormente in una società neo-schiavistica: presupposto tutt’altro che scontato. Una società neo-schiavistica che metta gli “scartati” nella condizione di non nuocere. La repressione violenta sarà l’extrema ratio. Prima vengono gli incenti- vi – già pienamente in atto – all’evasione nelle mode, nei circenses, nelle droghe, in varie forme di abbrutimento, di soffocamento della speranza e dell’autostima.

Il quinto presupposto è che l’intervento della civitas volto a garantire la dignità e la libertà di tutti abbia come strumento la creazione di lavoro, e non la mera erogazione di sussidi. Tutto ciò presuppone una concezione dell’uo- mo nella quale il lavoro sia fattore di autorealizzazione, di crescita morale e di incremento di capacità. Come è noto Friedrich von Hayek (sostenitore del libero mercato) era favorevole al reddito di cittadinanza, mentre Karl Polanyi (critico del libero mercato) no. Scriveva von Hayek: «Non vi è motivo per cui in una società libera lo Stato non debba assicurare a tutti la protezione contro la miseria sotto forma di un reddito minimo garantito, o di un livello sotto il quale nessuno scende. È nell’interesse di tutti partecipare all’assicurazione contro l’estrema sventura, o può essere un dovere di tutti assistere, all’interno di una comunità organizzata, chi non può provvedere a se stesso. Se tale reddi- to minimo uniforme è fornito fuori dal mercato a tutti coloro che, per qualsiasi ragione, non sono in grado di guadagnare sul mercato un reddito adeguato, ciò non porta a una restrizione della libertà, o a un confl itto col primato del diritto»9. Il punto è che quel reddito minimo uniforme deve stare «fuori dal

mercato» e intervenire solo perché la disoccupazione non arrivi a minare la legittimazione del mercato stesso. Il che spiega la apparente contraddizione

per cui, oggi, il cd. “reddito di cittadinanza” – dominante a sinistra – sia so- stenuto anche dai liberisti che vogliono la fl at tax. Esso rappresenta una delle vie d’uscita di cui sono alla ricerca anche i leader del neoliberismo, preoccu- pati della caduta della domanda cui l’automazione inevitabilmente conduce. Il reddito di cittadinanza sembrerebbe, secondo parte della cultura mainstream, quadrare il cerchio: l’erogazione monetaria effettuata dallo Stato attenuerebbe la caduta dei redditi da lavoro; disoccupati e sottooccupati avrebbero di che spendere, almeno per la sussistenza, e la domanda interna riprenderebbe com- plessivamente vigore (anche se la motivazione dominante è condotta in termini più lirici, conformemente al politically correct della teoria dei diritti). Ma è evidente che il reddito di cittadinanza è il contrario della piena occupazione, dal momento che ogni strategia orientata alla piena occupazione deve necessa- riamente praticare la più ampia possibile socializzazione degli investimenti10.

Se, attraverso il reddito di cittadinanza, l’obiettivo della socializzazione degli investimenti viene negato, come “innaturale” – contrario alla natura umana e alla natura delle cose –, come fantasioso, utopico e irrealizzabile, il diritto ad una esistenza libera e dignitosa (posto che sia tale se fondata su sussidi) diven- ta un diritto che si fonda sul principio politico della intangibilità del mercato selvaggio (che deve essere lasciato assolutamente libero di determinare tutti i prezzi, anche quello del lavoro dei fanciulli). Diventa un diritto che deve es- sere (in minima parte, perché il lavoro non è solo l’equivalente di un salario) se non soddisfatto, almeno placato, ma senza politiche che pongano anche solo in dubbio l’intrinseca razionalità del mercato selvaggio. In questo senso si può dire che «l’assistenza come alternativa al lavoro è un atto subdolamente regressivo»11. Il punto, dunque non è che il reddito di cittadinanza nella ver-

sione pura, incondizionato, à la Van Parijs, e nemmeno quello condizionato, in atto nel nostro Paese, sia una misura che potrebbe rivelarsi utile. Il punto invece è che il reddito di cittadinanza è una misura estremistica in senso neoli- berale. È la defi nitiva sanzione della spaccatura della società tra utili e inutili, produttori e assistiti, innovatatori e zavorra, buoni e scartati... Questo è il segno che questa soluzione imprimerebbe sulla confi gurazione della futura società. Per questo molti si rifi utano di trasformare quel che resta del mondo del lavoro in una classe di poveri rentier, senza arte né parte.

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