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Crisi di legittimazione del capitalismo neo-liberista e superfl uità del lavoro

Mario Doglian

2. Crisi di legittimazione del capitalismo neo-liberista e superfl uità del lavoro

Il modello del capitalismo neo-liberista era, fi no ad alcuni anni fa, un mo- dello che sembrava impossibile da contrastare. Un modello compatto, fatto di regole economiche ed etico-politiche (e, si potrebbe dire, anche gnoseolo- giche: relative alla conoscibilità/rilevanza o non conoscibilità/non rilevanza dei fenomeni sociali) che gli assicuravano l’egemonia a livello planetario (non piena, come dimostrato dallo scontro di civiltà da esso indotto). Oggi non è più così. È evidente che molti fenomeni sociali hanno profondamente eroso la legittimazione del capitalismo neo-liberista. Dal trumpismo – che ha messo in discussione l’essenzialità della globalizzazione – agli aumenti esponenziali della disuguaglianza e della povertà (che si misura e si percepi- sce come «ingiustizia» a livello planetario), ai nazionalismi, ai populismi, ai razzismi crescenti: tutti sintomi delle sofferenze materiali e – sul piano delle coscienze – della insicurezza, della paura del futuro che dilaga nei paesi una volta governati dagli «Stati del benessere». Tutto ciò ha la sua radice nella progressiva inutilità del lavoro oggettivamente generata dalla automazione, e dunque nel dilagare della disoccupazione e della precarietà; e nel conseguen- te degrado dell’autostima di parti sempre più ampie delle popolazioni. Fino a ieri sul problema di come rispondere alla crescente disoccupazione indotta dai processi di automazione erano diffuse analisi che presentavano due carat- teristiche: a) erano (seppur non tutte) ottimistiche o addirittura agiografi che; e b) circolavano in ambito scientifi co mentre la politica non ne era neppure sfi orata. La politica è la grande assente da questa presa di coscienza. Come può uno Stato, e in particolare uno Stato democratico, affrontare e prevenire le diffi coltà, se al suo vertice, anziché una vedetta che scruta l’orizzonte, c’è un tappo?

In questa società sta venendo a maturazione la consapevolezza che le stra- de intraprese negli anni scorsi dalle forze socialdemocratiche (in senso lato) per cercare di accompagnare (di governare, come incautamente si diceva) il neo-liberismo non sono affatto servite a civilizzarlo, cioè a renderlo compa- tibile con la democrazia sostanziale (torniamo a usare questo termine, ormai del tutto abbandonato). Sta acquisendo consensi una prospettiva che fi no a non molto tempo fa era considerata – per via del fi deismo di cui si è detto – apocalittica. Il discorso sulle disuguaglianze, moralmente e politicamente inaccettabili ed economicamente dannose (FMI), si è diffuso per la forza e l’evidenza delle cose (e per un buon lavoro intellettuale che è stato svolto) e ha innescato una trasformazione molecolare (direbbe Gramsci) in alcuni settori della società, che ha diffuso la consapevolezza del fatto che il lavoro manca (con tutti i disastri sociali che ne conseguono) non a causa di qualche strozzatura del sistema economico-fi nanziario, correggibile dal sistema stes- so o da quella politica, nazionale e sovranazionale, che fi nora ne è stata pas-

siva appendice. Il lavoro manca semplicemente perché non è più necessario4

nella stessa misura in cui lo era in passato; esito, questo, percepito non più come un dato naturale, ma come il frutto di politiche che sono state perse- guite e di altre che sono mancate. La disoccupazione, il precariato, la povertà sono usciti da quella regressione impressionante – il sintomo principe della egemonia neoliberale – che li aveva ricacciati tra i fenomeni ineluttabili, na- turali, invincibili. Una verità elementare, che le ingiustizie reali sono il frutto di ingiustizie volute, pensate, lucidamente programmate, è tornata a farsi strada. Tutti vedono i capannoni abbandonati, le fi liali delle banche chiuse (e quelle non chiuse, vuote), i locali dei negozi sfi tti. Tutti leggono sui giornali articoli come quello intitolato Paradosso Germania: l’economia è in volo

e le aziende licenziano5 in cui l’amministratore delegato di Deutsche Bank

dichiara – dopo aver richiesto novemila esuberi già nel 2015 – che «siamo troppo basati sul lavoro manuale, il che ci rende ineffi cienti. C’è molto che possiamo imparare dalle macchine e possiamo fare molta meccanizzazione [...]. Diamo lavoro a novantasettemila persone e la maggior parte dei nostri competitori ha la metà di quei dipendenti». Con un surplus di bilancio di 31,5 miliardi di euro la Germania potrebbe tranquillamente procedere verso l’obiettivo della piena occupazione. E invece, nello stesso articolo, si legge che l’amministratore delegato di Siemens sta per annunciare 6.000 esuberi perché la robotizzazione procede a ritmi talmente prodigiosi da consentir- gli di risolvere molti problemi eliminando posti di lavoro. E così tutti san- no che – da noi – Intesa-San Paolo sta licenziando 9.000 dipendenti; che il piano Transform di Unicredit prevede la chiusura di 883 fi liali (con 6.500 licenziamenti entro il 2019, dopo 3.900 licenziamenti già concordati); che la grande distribuzione, i supermercati, sono in crisi per le vendite on-line (in Italia non ancora, ma si legge sui giornali che la catena di grandi magazzini Macy’s taglierà, negli Usa, 5.000 posti di lavoro, e lo stesso sta avvenendo in Inghilterra); che i camion che si guideranno senza conducente lasceran- no disoccupate centinaia di migliaia di persone. Un caso emblematico6 ed

eloquentissimo è rappresentato dalla società (si noti) cinese Tianyuan Gar- ments, che aprirà una fabbrica tessile in (si noti) Arkansas, grazie (si noti) «a generosi incentivi diretti e agevolazioni fi scali da parte della Contea. Potrà produrre 23 milioni di t-shirts all’anno, made in Usa, al prezzo medio di 33 centesimi di dollaro. Secondo il presidente della società cinese, che lavora anche per Adidas, Armani e Reebok, in nessun paese del mondo il costo del lavoro sarà così basso. La fabbrica sarà infatti interamente gestita da robot,

4. Sulla sostituzione del lavoro umano attraverso le macchine vasta eco ha avuto il Rapporto del McKinsey Global Institute, A future that works automation, employment, and productivity, gennaio 2017, www.mckinsey.com/mgi, che stima il 49% degli attuali lavori sostituibili dall’automazione.

5. Pubblicato su «la Repubblica», 9 novembre 2017.

6. Esposto da A. Gianni, L’intelligenza artifi ciale e un nuovo compromesso sociale, in «il Manifesto» del 1° marzo 2018.

con una velocità di produzione calcolata in 26 secondi a pezzo». Tutti sanno che questo fenomeno è in atto da anni7, eppure si è continuato erroneamente

a confi dare in una mitica ripresa che avrebbe rimesso le cose a posto. Questa nuova consapevolezza che si sta via via radicando riguarda fe- nomeni molto semplici. Di una semplicità disarmante, lapalissiana. Ma oc- cultati (come nel passato) da una rete armatissima di depistaggi, di compli- cazioni e di astruserie di cui la fi nzeconomia è maestra. Non solo. Questo armamentario stravolge l’oggetto di quella consapevolezza, e lo intorbida, lasciando spazio a discorsi demagogici che deviano il malcontento sociale verso fenomeni che, per quanto importanti (l’immigrazione) sono tuttavia solo conseguenze della causa prima (la mancanza di lavoro) del malessere del nostro mondo.

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