Ugo De Siervo
3. La disciplina statutaria fra disapplicazioni e lente evoluzion
Al tempo stesso, specie nella fase pre-unitaria (ma non solo) le dispo- sizioni statutarie in tema di forma di governo hanno avuto un’applicazione assai lontana da quelle di un regime parlamentare, come invece sostenuto (e spesso con grande enfasi) da parte di tanti successivi giuristi: nomine e revoche di Governi sulla base di scelte del Sovrano (e non solo per i primi sette Governi, che addirittura si succedettero in neppure un anno e mezzo), nomine perfi no di più fi gure di vertice dei Governi, scioglimenti reiterati del- la Camera (sette scioglimenti anticipati della Camera nei primi dieci anni di vigenza dello Statuto), normale presidenza da parte del Re delle riunioni del Consiglio dei Ministri, esercizio di larga parte del potere legislativo da parte degli organi di Governo27. E ciò senza neppure considerare le importantissi-
me materie riservate in modo espresso al Sovrano (guerra e pace, relazioni internazionali, forze armate, composizione del Senato, ecc.).
Anche quando, in presenza di forti esponenti parlamentari, si registrarono alcune spinte signifi cative verso assetti di tipo parlamentare, ciò trovò non poche resistenze nei Sovrani: si pensi alla stessa forza relativa perfi no di Ca- vour, che – ad esempio – deve constatare che alle sue dimissioni nel 185928,
a causa dell’accordo di Villafranca, segue la immediata nomina da parte di Vittorio Emanuele II a Presidente del Consiglio del generale La Marmora. Ma anche dopo l’unifi cazione nazionale i mutamenti derivanti dalla molto accresciuta rappresentatività sul piano territoriale della Camera dei deputa- ti sono in larga parte ritardati, se non contraddetti, dalla perdurante grande forza politica della monarchia nei contesti ancora tanto diffi cili del decennio che passa fra la scomparsa di Cavour, la terza guerra di indipendenza e la conquista di Roma.
Basti qui considerare come proprio il primo Governo Ricasoli derivi da una scelta del nuovo Presidente del Consiglio da parte del Sovrano senza neppure mutare la preesistente compagine governativa, salvo che per la fi gu- ra di vertice. D’altra parte, anche le dimissioni del 1862 del Governo Rica- soli sembrano essere state sostanzialmente attribuibili al dissenso di Vittorio Emanuele II nei riguardi del Presidente del Consiglio; dissenso che Ricasoli
27. Per tutti cfr. R. Martucci, op. cit., pp. 43 ss.
28. Della cui esistenza si è anche dubitato: cfr. M. La Torre, Cento anni di vita politica ed amministrativa italiana. 1848-1948, Noccioli ed., Firenze, 1952, pp. 19-20.
aveva addirittura reso pubblico, parlando di minacce da parte dei comporta- menti del Sovrano alla «essenza del regime costituzionale»29.
D’altra parte, anche la seconda fi ne dell’esperienza di direzione del Go- verno da parte di Ricasoli è attribuibile ad un dissenso sulla progettata po- litica fi nanziaria del Governo. Proprio in questa occasione il Sovrano, anzi, scrive espressamente che il Presidente del Consiglio sarebbe «capo del Ga- binetto», mentre il Sovrano, invece, sarebbe «capo del Governo»30: una af-
fermazione che, ormai a vent’anni dalla concessione dello Statuto albertino, denota chiaramente come le pur tante vicende intervenute non avessero an- cora fatto venir meno la concezione di fondo del primato del potere regio su quello rappresentativo.
Eppure uno degli ultimi atti del secondo Governo Ricasoli fu il coraggio- so tentativo di metter mano ad un innovativo ordinamento del Governo, me- diante l’adozione del Regio decreto n. 3629 del 27 marzo 1867, «col quale sono designate le attribuzioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri». Un decreto che, non a caso, fu immediatamente abrogato dal successivo Go- verno Rattazzi (il tema potrà essere ripreso quasi vent’anni dopo solo dal Governo Depretis31).
Malgrado tutto ciò, lo Statuto trova una rinnovata legittimazione indiretta nell’esito dei plebisciti che precedono la proclamazione dell’Unità nazionale e diviene uno dei pochi punti di riferimento unitario sul piano istituzionale, oltre che simbolica espressione del sistema politico liberale (si pensi alle tan- te enfasi celebrative e pure alle molte ricostruzioni dottrinarie in tal senso).
La sommarietà della disciplina dello Statuto, la elasticità di varie dispo- sizioni statutarie, la stessa sua derogabilità ad opera di fonti legislative con- tribuiranno alla indubbia lunga sopravvivenza di questa costituzione, mentre intorno tutto lentamente muterà nella realtà sociale, economica e politica e mentre lo stesso ordinamento amministrativo statale si trasformerà ed ac- crescerà, man mano che lo stesso Stato liberale farà crescere e diversifi care la sua organizzazione. Sul piano costituzionale con grandissima lentezza e con non poche contraddizioni si affermerà un sistema parlamentare di tipo liberale (confi gurazione del ruolo del Governo, rapporto fi duciario, nomina governativa dei Senatori, ecc.), parallelamente al progressivo accrescimento della rappresentatività politica della Camera per effetto delle nuove leggi elettorali, ma rimarranno intatti una serie di poteri e di privilegi della Mo- narchia: basti qui pensare al ruolo del Sovrano nella dichiarazione di guerra nel 1918, nelle vicende del 1922 e negli anni successivi di convivenza con il fascismo.
29. M. Rosi, Vittorio Emanuele II, Cappelli, Bologna, 1930, II, pp. 81 ss. 30. Ibidem.
31. Si veda il R.D. n. 3289 del 25 agosto 1876. Tutta la vicenda è analiticamente ricostruita in Ettore Rotelli, La Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il problema del coordinamento dell’amministrazione centrale dello Stato (1848-1948), Giuffrè, Milano, 1972, pp. 37 ss.
Come ben noto, perfi no il fascismo, malgrado la sua carica espressamente illiberale e le sue profonde trasformazioni istituzionali, si sovrapporrà sem- plicemente all’ordinamento statutario, senza aver bisogno di metter mano ad un nuovo ordinamento costituzionale, paradossalmente così mantenendo in vita alcuni poteri regi che verranno esercitati contro di lui nel luglio 1943, nel momento del crollo.