• Non ci sono risultati.

Re protettore o re governante?

Antonio Mastropaolo

5. Re protettore o re governante?

Alla stagione crispina seguì un periodo burrascoso di grande tensione po- litica e sociale, che culminò nel 1898 con i moti di Milano e con la violenta repressione del generale Bava Beccaris. Quattro gabinetti presieduti da di Rudinì si succedettero tra il 1896 e il 1898. Fu ancora la Corona a far sentire il suo peso all’apice di questa fase. Luigi Pelloux, generale di sicura fede mo- narchica, fu designato così Presidente del Consiglio. A ispirare tale incarico fu probabilmente il clima di sfi ducia nei confronti delle dinamiche parlamen- tari, sempre più diffuso anche negli ambienti liberali. Ma non si trattava an- cora di un intervento necessariamente antiparlamentare. Un’ipotesi avanzata di recente è stata che si volesse offrire una soluzione a una crisi temporanea, sia pure a costo di una particolare esposizione politica del sovrano87. Proprio

nel 1897 apparve il celebre Torniamo allo Statuto di Sonnino, con la sua invocazione di ripristino del modello del governo costituzionale tratteggiato dallo Statuto. Era uno scritto fortemente condizionato dalla contingenza po- litica, forsanche ingenuo nella sua volontà di trasparenza, ma non riducibile a una bieca volontà reazionaria.

Per Sonnino i mali del parlamentarismo non erano da attribuirsi «a di- fetti inerenti allo Statuto, nei suoi principi fondamentali», ma piuttosto alle «dottrine accessorie con cui si sono via via voluti interpretare ed esplicare tali principi, alterandone e falsandone a poco a poco i concetti direttivi»88.

Il problema era dunque da ricercarsi nell’assoluta preminenza attribuita alla Camera dei deputati, che aveva usurpato il potere esecutivo, il quale, a sua

86. A. Aquarone, L’Italia giolittiana, il Mulino, Bologna, 1881, pp. 69-70. 87. P. Colombo, op. cit., p. 163.

volta, aveva usurpato le prerogative della Corona, che invece incarnava l’in- teresse nazionale.

In un Governo fondato quasi totalmente sull’elezione manca nella alta direzione della cosa pubblica la rappresentanza dell’interesse collettivo e generale. Atto per atto predo- minano sempre gli aggregati di interessi personali o locali… Onde 1’elemento elettivo apparisce meglio adatto a determinare l’indirizzo generale della legislazione e a sinda- care l’azione del Governo, che non a governare, sia direttamente sia per delegazione89.

La minaccia era rappresentata dal clericalismo e dal socialismo, «che la- vora a idealizzare e intensifi care il concetto di Stato, supremo rappresentante della collettività»90. Occorreva recuperare una rigorosa separazione dei po-

teri, a discapito del cosiddetto governo di gabinetto, che poteva funziona- re «dove numerosi e potenti organismi a base storica servono di freni e da guide al funzionamento delle istituzioni democratiche»91, ma non in Italia,

dove, ora, addirittura, il Ministero, resosi «quasi indipendente dal Sovrano, ed avendone arrogate a sé le funzioni reali ed effettive nel nome della rap- presentanza elettiva, ora vorrebbe rendersi indipendente dalla Camera, col togliere a questa ogni ingerenza nel potere esecutivo»92.

La soluzione a tutto ciò andava rintracciata nella disciplina statutaria, so- prattutto nelle disposizioni concernenti il sovrano, il quale scriveva Sonnino, «impersona lo Stato in tutti gli elementi suoi più necessari e normali, e nella tutela di questi elementi ha una funzione attiva, e non passiva. […] raffi gura nella nostra Costituzione l’elemento continuo, permanente dello Stato consi- derato come un organismo complessivo, di fronte agli elementi temporanei, mutevoli, contingenti nello spazio e nel tempo, rappresentati dagli elementi elettivi»93.

Nella mente dei conservatori si faceva strada insomma l’idea che il sovra- no costituisse l’unico rimedio ai mali del parlamentarismo, perché in grado di rimettere in carreggiata il parlamento. Si recuperavano perfi no motivi del- la sovranità antica, specie da parte degli ambienti più reazionari94. La morte

di Umberto I, il 29 luglio del 1900, per mano dell’anarchico Bresci, segnò tuttavia una battuta d’arresto in questa linea di pensiero. Già le elezioni che si erano svolte un mese prima avevano registrato una consistente avanzata delle forze di opposizione giolittiane e della sinistra radicale. Vittorio Emanuele III salì al trono perciò con l’intenzione di mantenere un profi lo più defi lato rispetto al suo predecessore e conforme almeno formalmente all’immagine del re che regna, ma non governa. Ciò non toglie che la sua operosità politi-

89. Ivi, p. 10. 90. Ivi, p. 11. 91. Ivi, p. 12. 92. Ivi, p. 14. 93. Ivi, pp. 21-22.

94. R. Bonghi, Il diritto del Principe in uno Stato libero, in «Nuova Antologia», 24, 1893, pp. 73-584.

ca pesò non poco negli anni successivi, con almeno tre momenti di rottura: il Patto di Londra del 1915, l’incarico a Mussolini nel 1922 e infi ne la sua defenestrazione nel 194395.

Nel primo decennio del ’900 sarà di un nuovo una personalità politica di grande spicco a imporsi come protagonista della stagione che si chiuderà drammaticamente con la prima guerra mondiale. Anche per questo periodo si è usata, e abusata, l’espressione «dittatura parlamentare», per defi nire il controllo sul sistema parlamentare esercitato da Giolitti, caratterizzerizzato dall’importanza dei rapporti personali da lui tessuti, fondati su legami di fe- deltà che trascendevano gli orientamenti politici dei suoi interlocutori96.

Sul piano elettorale ciò si tradusse in intromissioni prefettizie, brogli, di- stribuzione di favori, talora anche violenze, specie nel Mezzogiorno. Non si trattava però di un’assoluta novità. Pratiche del genere erano state adottate anche in passato, soprattutto da quando la Sinistra era andata al governo. Giolitti aveva solo perfezionato il metodo97, ottenendo così maggioranze più

ampie, utili a sostenere sempre la sua azione di governo. Era un «metodo», scrive Aquarone, «naturale, anche se patologica, conseguenza della centralità da lui [Giolitti] attribuita al parlamento nella sua funzione essenziale e in- sostituibile di mediatore ultimo dei contrasti economici, dei confl itti sociali, delle rivalità regionali che travagliavano la struttura politico-istituzionale del paese, sulla cui solidità, a ragione o a torto, egli rimase sempre sostanzial- mente scettico»98. È infatti indubbio che Giolitti rifuggisse ogni ipotesi di

governo forte99, anche se l’assemblea parlamentare fi nì per ridursi spesso a

organo di ratifi ca delle decisioni assunte dal governo, coinvolgendo tutte le forze politiche, comprese quelle d’opposizione.

Per quanto tale strategia di governo dal centro impedisse una piena strut- turazione dei partiti su base economico-sociale e ideologica100, ne ebbero

qualche benefi cio le relazioni del parlamento sia con il governo sia con la società. La fi gura del Presidente del Consiglio fu riconosciuta defi nitivamen- te101, si perfezionarono i meccanismi della fi ducia, fu introdotto il suffragio

universale maschile diretto, e, sul piano politico, si assistette a una conver-

95. Cfr. P. Colombo, op. cit., pp. 161-165. 96. A. Aquarone, op. cit., p. 261 e ss. 97. Ivi, 262-263.

98. Ivi, p. 264.

99. Nella strategia giolittiana rientrò anche una decisa attività di controllo sulle nomine dei senatori allo scopo di attenuarne il carattere di alleato naturale della Corona sempre in una prospettiva di prudente democratizzazione del sistema parlamentare. Vi fu anche una proposta di riforma, però respinta dallo stesso Giolitti, in quanto, a suo giudizio, avrebbe irrigidito eccessivamente l’istituzione. Cfr. ivi, pp. 264-266.

100. Ivi, pp. 267-268.

101. Il regio decreto del 14 novembre 1901, n. 466, come ebbe a dire Orlando «specifi ca meglio dei precedenti le varie funzioni del Presidente del Consiglio e ne aumenta, per qualche lato, l’autorità». Ma anche la responsabilità nei confronti del Parlamento. Cfr. V.E. Orlando, Principi di diritto costituzionale, Barbera, Firenze. 1928, p. 244.

genza con il riformismo turatiano e con i cattolici. Fu proprio questo ampia- mento della sfera politica a consentire che nuovi soggetti collettivi fossero ammessi al dibattito pubblico e soprattutto che fosse riconosciuto, almeno in parte, il confl itto sociale fi no ad allora negato e represso102.

Non mancarono comunque i dubbi sul funzionamento del regime rappre- sentativo. La tecnica di governo giolittiana era criticata anche dagli amici di Giolitti. Così Giustino Fortunato che, pur riconoscendo la necessità dello strumento della coalizione per governare, negava che quest’ultima dovesse basarsi su rapporti personali di fedeltà, ma piuttosto riteneva dovesse costitu- irsi attorno a programmi politici. Altrimenti si sarebbero creati governi: «che, ridotti ormai a semplici comitati esecutivi, non possono addirittura vivere se non di espedienti e di dilazioni, scavando un buco per tapparne un altro, sostituendo a programmi organici – non saprei come dire – elenchi di pro- posizioni contraddittorie, buone soltanto a raccogliere non forze omogenee e concordi, ma enti, sotto nome di Maggioranza… politicamente amorfi »103.

In realtà, come osservò Gaetano Salvemini, Giolitti, attraverso questa tec- nica di governo, non si impose come il padrone della maggioranza, ma fi nì per esserne lo schiavo, dovendo governare sempre nell’interesse di chi lo aveva sostenuto: “È Il loro capo: dunque deve servirli”104. Ne seguiva l’ac-

cusa di essere il «ministro della malavita», accompagnata dalla richiesta di riforme amministrative e dall’allargamento del suffragio105. Anche se per

Salvemini l’unica reale possibilità di rinnovamento istituzionale risiedeva nell’educazione di una nuova e più adeguata classe dirigente.

Outline

Documenti correlati