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I classici al servizio dalle orchestre leggere

5.3 I classici secondo Barzizza e Angelin

Il contributo dato da Angelini e Barzizza alla diffusione del reper- torio musicale passò attraverso migliaia di arrangiamenti, di cui restano ampie testimonianze in Rai: 1101 partiture riferite all’attività dell’Orchestra Angelini e 1492 legate ai vari organici passati sotto le mani di Barzizza (quasi tutto materiale manoscritto). La produ- zione rielaborata da questi due musicisti, o dagli arrangiatori al loro servizio (soprattutto nel caso di Angelini, che non ha mai firmato arrangiamenti), tocca ambiti molto disparati: la canzone napo- letana, le melodie più in voga del tempo (quali Mille lire al mese, Arrivederci, Buongiorno tristezza, Arrivederci Roma, Mala femmena, Parlami d’amore Mariù), lavori di importazione anglo americana che spaziano dal boogie-woogie al rock, Lieder moderni (soprattutto nel periodo dell’occupazione nazista, ovviamente), classici natalizi, canzoni americane (Bye, bye, baby era diventato un brano ricorrente della trasmissione Pippo lo sa), titoli di origine latinoamericana (Bra- zil di Ary Barroso, Cachito di Consuelo Torres Velázquez, Buenos Dias di Augusto Algueró Dasca), fantasie su musiche di Glenn Mil- ler e Duke Ellington, brani tratti dalla produzione cinematografica, e anche qualche pagina estrapolata dal corpus della chanson française.

C’è un caso che fa da perfetta copertina all’argomento in que- stione, vale a dire i classici al servizio delle orchestre leggere: l’ar- rangiamento firmato dallo stesso Barzizza a Firenze nel 1943 dello

Studio op. 10 n. 3 di Fryderyk Chopin. Il lavoro nacque nel periodo dello spostamento della Cetra in Toscana, in seguito all’incendio della sede torinese. In quell’anno la nuova dirigenza filonazista pre- diligeva i brani classici alla musica leggera: la loro fisionomia ormai cristallizzata nell’immaginario collettivo rendeva meno rischiosi i contatti semantici con la sfera socio-politica. La rivisitazione è libe- ramente ispirata all’originale di Chopin, nel senso che riprende il tema principale e la prima sezione dello Studio, sorvolando sulla sezione virtuosistica della parte centrale. Il pianoforte è presente dalla prima all’ultima nota, come un retaggio dello strumento per cui è scritta la composizione, ma si limita a svolgere un ruolo di accom- pagnamento sistematicamente incatenato a un ritmo sincopato del basso (semiminima – minima – semiminima), che dà al pezzo una fisionomia zoppicante del tutto estranea alla quadratura solida dell’idea chopiniana in 4/2. Ma è il resto dell’organico a garantire un sound del tutto originale a un capolavoro dell’Ottocento: sax bari- tono, tenore, clarinetto, due tromboni e una parte probabilmente di violino. L’insieme è molto più vicino alla sonorità jazzistica, e la conferma viene da una serie di ricami che danno quasi l’impronta dell’improvvisazione all’intervento di alcune parti. L’effetto doveva essere molto curioso, soprattutto perché associato a una delle più celebri pagine del repertorio romantico; e lo stesso Barzizza provò un certo imbarazzo nel toccare con tanta invadenza un monumento della cultura occidentale, al punto da ritenere necessario siglare il pezzo con un «Chopin perdonami», che sembra un po’ la firma di una generazione nata nei Conservatori ma cresciuta lontano dagli ambienti accademici.

Barzizza tornò sullo stesso testo nel gennaio 1953, per le esigenze del programma Rosso e Nero. Dieci anni dopo aveva già chiuso la sua esperienza per molti versi all’avanguardia con la Cetra, e l’ar- rangiamento – intitolato Tristezza in omaggio al tipico nomignolo dello Studio op. 10 n. 3 – è molto meno vicino al linguaggio jazz: il pianoforte accompagna riprendendo lo stesso ritmo lineare dell’o- riginale, e introduce il pezzo presentando da solo il tema princi- pale. Dopodiché gradualmente, come succede spesso nella scrittura orchestrale delle canzoni, l’organico si ispessisce fino a coinvolgere archi, corno, tromboni, due sax, clarinetti e flauto: vale a dire una

formazione, probabilmente l’Orchestra Moderna che fu affidata a Barzizza proprio in quegli anni, molto diversa dalla band usata per il primo intervento. Una scelta simile ha il sapore di un ritorno a quel ritmosinfonico, che Barzizza era stato proprio chiamato a espian- tare dall’EIAR; e la conferma viene dalla presenza su molti degli arrangiamenti successivi al 1950 della dicitura per «grande orchestra ritmosinfonica».

Appartiene invece alla prima fase un altro brano intitolato Mar- cia di Chopin. L’autore, stando al manoscritto, dovrebbe essere lo stesso Chopin; ma la fonte di questo arrangiamento è impossibile da ricostruire. Il compositore polacco non pubblicò difatti pezzi sciolti con questo titolo, e le uniche marce presenti nella sua produzione sono le due marce funebri, rispettivamente dalla Sonata op. 35 e dai Preludi op. 28 (in quest’ultima raccolta il brano n. 20 si guadagnò questo epiteto per bocca di Hans von Bülow). Non è stato possibile pertanto ricostruire con precisione la matrice di questo lavoro. Ma fa comunque impressione vedere un arrangiamento legato, se non al catalogo, quanto meno alla scrittura di Chopin, introdotto da una

Fig. 28: Firma e commento di Barzizza sul manoscritto di un arrangiamento dello Studio op. 10 n. 3 di Chopin

serie di accordi accentati sui tempi deboli e corredati dell’indica- zione «Swingy». Così come colpisce la presenza, non di una piano- forte come nei casi precedenti, ma di una chitarra libera di eseguire a piacere una serie di accordi siglati. Se Barzizza non avesse inserito un titolo, la fisionomia sarebbe esattamente quella di un brano per big band (l’organico prevede tre saxofoni, tromboni, chitarra, con- trabbasso e batteria), pieno di melodie sincopate, da scandire con la tipica pronuncia jazz.

Anche il Sogno d’amore (Liebestraum) di Liszt (il secondo dei tre) fece la cura Barzizza nel 1946. Il trattamento è simile a quelli citati in precedenza, perlomeno negli anni della Cetra: organico formato da solo ottoni, clarinetto e pianoforte, armonie siglate, sottolineature degli accenti deboli, accordi molto dissonanti con predilezione di seste e none (i vocaboli più caratteristici del linguaggio jazz). C’è però un’attenzione particolare nel lavoro di Barzizza, che merita di essere sottolineata. Il contatto con la grande tradizione classica lo spinge a incrementare il tasso di raffinatezza, cercando con mag- giore frequenza disegni contrappuntistici. Gli altri arrangiamenti di solito prediligono i movimenti accordali (in sezione), mentre qui le imitazioni si infittiscono e la trama polifonica si fa molto più densa. Inoltre l’introduzione che Barzizza aggiunge, di suo pugno, a questa versione del Sogno d’amore riflette un’assimilazione forte del linguaggio lisztiano: tutto sembra nascere dal nulla, tramite iso- lati richiami di alcuni strumenti, secondo una linea compositiva che è tipica del compositore ungherese. Sono molti i poemi sinfonici (Lamento e Trionfo del Tasso, ad esempio) e i lavori pianistici (La vallée d’Obermann) che prendono avvio da disegni disarticolati e sofferenti; e questa apertura in Moderato sembra proprio riflettere questa caratteristica distintiva del repertorio specifico.

Tu che m’hai preso il cuor segna invece un raro avvicinamento di Barzizza al mondo dell’operetta. L’aria (il cui incipit originale è «Dein ist mein ganzes Herz»), tratta dal Paese del sorriso (Das Land des Lächelns) di Franz Lehár, è una delle più intense di tutto il reper- torio; in fondo è lo stesso libretto ad affrontare un tema molto pro- fondo, del tutto inusuale per il genere del teatro musicale leggero. La bella Lisa si innamora del principe cinese Sou-Chong; ma la loro unione viene ostacolata dalle differenze culturali, e alla fine la