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L’EIAR folk

4.5 Negro Spirituals

La questione degli spirituals, come di tutta la produzione che veniva dalla cultura afroamericana, era particolarmente delicata tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento: il periodo a cui va ascritto tutto il materiale conservato nel fondo «Canzoni popolari» coincideva con la progressiva ghettizzazione – se non distruzione – del reper- torio di origine nera. Nell’Europa di quei decenni i negro spirituals finivano nel mucchio del nuovo jazz; in Germania quindi dovevano essere banditi dalla programmazione radiofonica al pari di tutta la musica degenerata.28 Ma quanto esce dai faldoni dell’Auditorium

Rai testimonia un atteggiamento meno rigido: sono numerosi gli arrangiamenti del fondo, che rielaborano melodie tratte da quel cor- pus. Evidentemente la direzione dell’EIAR non si sentiva troppo in dovere di rispettare quel divieto sempre più in voga a nord delle Alpi; del resto – come si diceva nel primo capitolo – non aveva mai manifestato eccessiva severità in relazione alla diffusione del jazz.

Un articolo pubblicato sul «Radiocorriere» nel 1934 testimonia addirittura una strenua difesa davanti all’assalto di una fetta – a quanto pare piuttosto significativa – di ascoltatori. Il contributo è firmato da Massimo Soria, che fu uno dei primi musicologi italiani a capire davvero la straordinaria forza espressiva di quella musica: capace come poche di esprimere il senso di frustrazione provato da una comunità sottomessa, costretta ad aggrapparsi alla spiritualità per trovare un senso alla sua esistenza. L’obiettivo di fondo è quello di spiegare ai lettori il valore di un patrimonio musicale a rischio di estinzione, chiarendo il senso di una devozione al Signore così diversa dalla nostra. Ma l’esordio sottintende la percezione di un’in- sofferenza generalizzata nei confronti degli spirituals e del jazz:

La lettura di una lunga serie di lettere pervenute al «Radiocorriere» sulla questione del jazz e della musica negra mi ha accertato che, mentre non esiste, di massima, alcuna – che sarebbe del resto ingiu- stificabile – prevenzione nei confronti della spiritualità della musica popolare, vi è in certuni una specie di risentimento, quasi d’acredine, 28. Scott Devaux, The Emergence of the Jazz Concert 1935-1945, «American Music»,

contro la musica popolare negra, la quale, incompresa nei suoi motivi etici, viene assurdamente scambiata per musica di selvaggi, e – fu addirittura detto – di boscimani.29

Questa è la premessa di un articolo che di fatto prende la forma di un’apologia del repertorio afroamericano, con tanto di riferi- mento a un nume tutelare del genere: il basso Paul Robeson, che in quegli anni girava il mondo con la chiara intenzione di spargere i semi dello spiritual anche in terreni avvezzi a tutt’altro tipo di pre- ghiere. La descrizione fisiognomica («egli è un magnifico esemplare di uomo, dall’altissima statura, il collo slanciato caratteristico di tutti coloro che hanno la voce bassa, l’occhio solitamente pensoso») sembra quasi puntare alla rifondazione di canoni estetici condivisi in quegli anni, con l’obiettivo di giustificare – anche agli occhi di una generazione che non aveva ben assimilato i pericoli del razzi- smo – la legittimità di un repertorio ancora indigesto per molti. Ma Soria parte da questa excusatio non petita per affrontare un’analisi musicale, che mette in evidenza gli aspetti più interessanti di quel linguaggio, premurandosi di sottolineare il contatto con i testi sacri della tradizione cristiana:

Io penso che gli uditori troveranno in essi il pathos religioso che li domina, largo, ampio, biblico. […] Ma le intenzioni di giubilo, i portamenti vocalizzati, e soprattutto l’estetica dell’inespresso, che si ritrova negli spirituals con le estrinsecazioni più ingenue rispec- chiano e ricordano il detto di S. Agostino «…ut gaudeat cor sine verbis et immensa latitudo gaudiorum metas non habet syllabarum (salmo XXXIII 8)».

La Bibbia e S. Agostino tornano comodi per ricordare che quella musica nasceva dalla stessa esigenza di spiritualità su cui la Chiesa romana aveva sempre modellato i suoi canti. Aveva un look diverso, ma in realtà portava verso l’alto gli stessi messaggi. E quel colore speciale andava riferito alla peculiare condizione di una collettività destinata a vivere un’esperienza diversa; perché dentro allo spiritual non c’è solo l’esigenza di comunicare senza troppi giri di parole con il trascendente, ma anche tutto il temperamento esplosivo di un

popolo costretto per secoli a reprimere la sua individualità. Soria sintetizza alla perfezione questo aspetto, parlando di un «gorgo di passioni strozzate in un nodo di angoscia», vale a dire la condizione migliore, affamata e disperata, per dare vita alla più alta forma di poesia.

Tra i diversi arrangiamenti conservati nel fondo «Canzoni popo- lari» giusto un paio di esempi possono essere sufficienti per capire il significato di queste trascrizioni. Water Boy, ad esempio, è una can- zone tradizionale, figlia dei grandi sentimenti cresciuti assieme alle piantagioni di cotone; e l’arrangiamento firmato da Petralia cerca di ripensare alle origini di quel canto, lasciando le prime battute della melodia alla sola voce: nuda proprio come l’emotività della gente nera imprigionata nella disumana condizione della schiavitù. Poi, però, l’arrangiamento prende la strada della sala da concerto, gon- fiandosi di linguaggio alla Gershwin e culminando in un piccolo corale, che rimanda per un attimo alla grande tradizione bachiana. Petralia, proprio come i compositori citati sopra, non riesce a trat- tare la melodia popolare con la devozione che si dovrebbe riservare a un oggetto unico; e così cerca un contatto con un mondo stilistico déja entendu, che si allinea alla grammatica delle composizioni nate per l’Orchestra B (esplicita destinataria anche di questo brano).

Stesso discorso vale per un altro documento, dal titolo Canti negri, che rielabora un paio di spirituals (My Lord What a Morning e By and By) adattando la linearità del canto a un tessuto orchestrale piuttosto denso, quasi a deformare la semplicità immediata del testo originale (perfetto per le sole voci): l’arpa si fa notare con il suo ruolo di sostegno, violoncelli e contrabassi dialogando in contrap- punto, e in generale gli accompagnamenti sono articolati su molte note di valore breve, che alludono a uno stilema poco adeguato al respiro ampio dello spiritual. L’arrangiatore non si firma, ma il suo atteggiamento è simile a quello di Petralia, nel tentativo di rendere familiare anche agli ascoltatori dell’EIAR materiale giunto dall’altra parte dell’Oceano.

La pratica non è deprecabile in sé: in fondo rispecchia un pen- siero simile a quello di Soria, che – pur di appassionare la gente allo spiritual – si spingeva a celebrare la bellezza dell’uomo nero: come se la riforma di un canone estetico potesse incidere anche

sull’assimilazione di un repertorio musicale. Allo stesso modo gli arrangiatori dell’EIAR tentavano di rendere un po’ meno esotico il mondo musicale degli afroamericani, infarcendolo di elementi presi a prestito dalla tradizione che abitava le orecchie degli italiani. Certo, la purezza incontaminata di quei canti, che fanno breccia nel nostro cuore soprattutto quando sono eseguiti a cappella, sparisce dalle rielaborazioni del fondo «Canzoni popolari». Ma l’operazione merita di essere ricordata, proprio per sottolineare l’avanzamento culturale dell’ente radiofonico nazionale, che si dannava l’anima, magari anche a costo di deformare il senso profondo del corpus ori- ginale, pur di trasmettere alla gente l’interesse per un repertorio che i nazisti stavano buttando, senza avvertire alcun peso morale, nel cestino della carta straccia.