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una specialità di casa EIAR

2.3 L’eccezione diventa regola in EIAR

L’EIAR, soprattutto negli anni della Seconda Guerra Mondiale, fece della trascrizione dal pianoforte all’orchestra un bene di consumo. Il materiale presente nell’Archivio dell’Auditorium «A. Toscanini» è piuttosto copioso: circa 500 documenti inediti, appartenenti a un genere che nel corso del Novecento – come si diceva – è stato poco presente nei cataloghi degli editori. Le date vanno dal gennaio del 1942 al luglio del 1943. Ma sono pochi i manoscritti nei quali la pre- cisazione del dato cronologico trova spazio. Anche la sede di questi arrangiamenti non può essere identificata sempre in maniera certa: la maggior parte del materiale è legato a Torino (la carta e alcune indicazioni lasciate dagli arrangiatori lo confermano), ma molto potrebbe venire anche da Roma e Milano. Sicuramente la scarsa estensione dell’arco cronologico allude a una sorta di moda nata e morta nel giro di pochi anni. La prova viene anche dall’analisi del «Radiocorriere» che riporta indicazioni di questo repertorio solo in quel breve periodo storico. Dopo la guerra la produzione scomparve completamente dai palinsesti – e quindi dagli archivi – Rai.

A spiegare i motivi di questa nouvelle vague della trascrizione ci pensò l’EIAR stessa, pubblicando il 15 marzo del 1942 un articolo sul «Radiocorriere» intitolato Una nuova iniziativa dell’EIAR per migliorare le trasmissioni di musica varia: motivi e metodologia del progetto dedicato alla trascrizione del grande repertorio pianistico. La colpa, stando alle parole dell’estensore siglato ‘f.’, era tutta della cosiddetta «musica varia»: quel repertorio che non era lirico, non era operettistico, non era leggero e nemmeno sinfonico. In sostanza una musica figlia di un dio minore, impossibile da collocare in una pre- cisa gabbia stilistica. «Oggi essa era costituita – continua l’articolo – per la quasi totalità dal vecchio repertorio che serviva per commento al film muto».7 Materiale di servizio, dunque, che «musicisti medio-

cri avevano fatto scendere ad un livello artistico piuttosto basso». Qualcuno decise nel 1942 che quella produzione doveva sparire dai palinsesti EIAR per far posto a un nuovo repertorio:

7. Una nuova iniziativa dell’EIAR per migliorare le trasmissioni di musica varia, «Radiocorriere», 15 marzo 1942, p. 5.

Per eliminare dai repertori delle orchestre da camera di Roma e Torino quelle composizioni che comunemente vengono chiamate musica varia e che, purtroppo, a volte, hanno uno scarso valore arti- stico, si è pensato di trascrivere per le orchestre da camera musiche originali di autori classici italiani e stranieri, dal ‘700 a oggi, scritte originariamente per pianoforte, o per violino, o organo, o altri stru- menti solisti.8

Il tono era proprio quello di una riforma progettata nei minimi dettagli dall’alto. E c’era chiarezza anche sulle motivazioni alla base dell’iniziativa:

Viene in mente quel detto di Machiavelli che ai veri riformatori accade talvolta di fungere da conservatori, riconducendo le cose ai loro principi originari. Infatti questa della musica varia, che è veramente una grandiosa e quanto mai auspicata riforma, non è in sostanza che un riallacciare questo genere ormai inaridito alle fonti perenni della musica. […] L’iniziativa, oltre ai valori ricreativi, ha in sé un potere educativo e culturale che la vecchia musica varia era ben lungi dall’avere. È lecito quindi sperare che essa soddisferà il pubblico. Bach, Beethoven, Chopin, Liszt, Busoni, Martucci, e i modernissimi non saranno più riservati ai soli frequentatori delle accademie da concerto. In nome dell’arte che giustifica ogni eva- sione dai confini, l’universale e immortale mondo della musica stru- mentale trova una nuova, vigorosa espressione, capace di suscitare le stesse indimenticabili, generose emozioni che sa donare nella sua costruzione originale. 9

Tono e lessico erano indubbiamente quelli del Ministero della Cultura Popolare. Il sistema di forze tra intento educativo, conser- vazione e ricreazione era figlio del pensiero fascista. Ma l’operazione si appoggiava su un fondamento perfettamente condivisibile: il rin- novamento di un parco-musiche ormai caduto nel manierismo del manierismo, e quindi poco rappresentativo di una precisa identità culturale.

E allora l’idea di base era quella di innovare rifugiandosi nei clas- sici, spazzando con la forza dei giganti un’intera generazione di pic- coli compositori rimasti troppo legati al linguaggio musicale di una

8. Ibid. 9. Ibid.

Fig. 10: Il manifesto del progetto sulle trascrizioni pubblicato dal «Radiocor- riere» del 15 marzo 1942

creatura estinta, come quella del cinema muto. Naturalmente anche l’EIAR si rendeva conto dei pericoli correlati al nuovo progetto:

Qualcuno obietterà che la originale concezione di queste musiche, sentite e scritte per strumento solista, non consenta di trasferirle su altri piani sonori. Data in senso assoluto questa espressione non è esatta. Lo è invece per alcune eccezioni, ma l’EIAR ha tenuto conto di queste, operando come abbiamo detto una prima accurata selezione delle innumerevoli composizioni.10

L’excusatio non petita testimonia la consapevolezza di chi sta met- tendo le mani su materiale apparentemente intoccabile. La spiega- zione in realtà non è troppo convincente: viene spontaneo chiedersi quali siano queste «eccezioni» che renderebbero meno rischiosa la rivisitazione di un patrimonio consolidato. Ma il fine dell’iniziativa è ben chiarito da questo testo programmatico, che allude anche a una selezione molto accurata di musiche da sottoporre al trattamento dei vari arrangiatori coinvolti: educare ai classici il pubblico radio- fonico, con arrangiamenti da camera apprezzabili anche da orecchie non avvezze al linguaggio colto.

A queste giustificazioni ufficiali, se ne possono aggiungere altre di tipo pratico. Il genere non era molto familiare al pubblico, e questa scarsa consuetudine si doveva anche a un fattore banalmente econo- mico: far suonare a un’intera orchestra un brano che è stato scritto per un solo esecutore non è certo conveniente. L’EIAR, in quanto fab- brica della musica, aveva i mezzi stabili per favorire una sperimenta- zione che nessun altro ente poteva permettersi. Tutto il materiale in questione finiva sui leggii delle orchestre radiofoniche. Quei musici- sti erano lì per suonare tutto ciò che la direzione riteneva opportuno trasmettere via etere. Tanto valeva impegnare l’organico in produ- zioni ambiziose, che sfruttassero – e insieme ostentassero – tutti gli strumenti in possesso dell’EIAR. Il risultato è un corpus ampio, che traduce in un linguaggio accuratamente sinfonico il dettato piani- stico di molte pagine celebri. In un certo senso, per i centri di produ- zione radiofonica, era meno costoso ingaggiare un arrangiatore per la trascrizione della Sonata «Patetica», piuttosto che scritturare un

pianista degno di figurare nella programmazione nazionale a con- fronto con una pietra miliare della produzione beethoveniana. Era meno impegnativo, meno rischioso e – tutto sommato – più con- forme a una fascia di trasmissioni destinata all’intrattenimento più che alla interpretazione ricercata della musica colta.

L’organico generalmente si allinea alle scelte “classiche” del reper- torio. Le rivisitazioni di rado prendono un taglio ritmosinfonico, per privilegiare un organico rétro, in cui compaiono solo gli strumenti tipici della tradizione colta: orchestre d’archi e piccoli complessi da camera. Il manifesto pubblicato sul «Radiocorriere» allude anche alla formazione di riferimento: un’orchestra da camera ribattezzata «Classica» proprio alla luce di questo progetto passatista. Si trattava di una formazione ridotta (soprattutto nel numero degli archi), con sede a Torino, che faceva da alter ego cameristico alla produzione dei complessi sinfonici. Sul suo podio salivano solo i direttori che lavoravano a stretto contatto con i centri di produzione radiofonici, prestando servizio soprattutto nella veste di arrangiatori.

I vantaggi di questa scrittura erano senza dubbio numerosi. Tanto per incominciare si poteva mettere in maggiore evidenza il dettato polifonico originale: più strumenti sono sempre meglio di uno solo per sottolineare una tessitura contrappuntistica. L’arran- giamento di Weingartner dell’op. 106 lo dimostra in ogni passag- gio: del resto stiamo parlando di un’opera che contiene una delle più monumentali fughe mai scritte per il pianoforte. Ma anche la produzione targata EIAR sfrutta abbondantemente questa risorsa. Inoltre si verifica anche il caso opposto: vale a dire la scomposizione di una stessa melodia in più timbri differenti, ottenendo effetti dia- loganti che forse non erano nemmeno previsti dal compositore. La scrittura pianistica in questo modo si arricchisce di soluzioni nuove, trasformandosi in una creatura dai mille colori differenti. E anche le dinamiche possono assumere una tridimensionalità sconosciuta al dettato originale. Spesso una stessa sezione (quella dei fiati, ad esempio) può permettersi di variare i piani sonori: legni in ‘forte’ e ottoni in ‘piano’. La soluzione compare spesso, dando una sorta di figurazione prospettica al materiale di base. Per non parlare della possibilità di ingigantire la portata dei ‘crescendo’, lavorando non solo sull’intensità del suono ma anche sull’accumulo progressivo di

masse strumentali; o dei contrasti improvvisi che si possono otte- nere affiancando sezioni di carattere sinfonico a passaggi di stampo cameristico. Tutte soluzioni ben note alla lunga generazione degli orchestratori, ma che solo eccezionalmente si trovavano applicate al canone del repertorio pianistico.

Il fondo in questione invece affronta senza timori reverenziali tutto il pane quotidiano dei grandi pianisti: quelle opere che oggi sembrano intoccabili per qualsiasi compositore. I classici sono in testa alle statistiche: tanto Beethoven, Chopin, Liszt, Schubert, Schu- mann, e qualcosa tratto dai cataloghi di Bach, Händel e Couperin. Normale che un’operazione del genere si rivolgesse soprattutto a quelle opere che tutti gli ascoltatori potevano avere nelle orecchie: altrimenti che gusto ci sarebbe stato a proporre orchestrazioni così impegnative. Il modello doveva essere ben chiaro, proprio per met- tere in risalto lo sforzo compiuto dall’ente, e soprattutto l’origina- lità – e in alcuni casi la raffinatezza – dell’operazione proposta. Ma c’è anche una fetta piuttosto ampia di arrangiamenti che testimonia un forte interesse per la musica strumentale di produzione italiana. La cosa non stupisce più di tanto, visto che negli anni Quaranta, come dimostra la cronologia dell’Orchestra Sinfonica di Torino, i programmi erano pieni zeppi di opere nate al di sotto delle Alpi.11

Autori come Mario Fighera, Alceo Toni, Riccardo Pick-Mangiagalli, Alfredo Casella, Giovanni Sgambati, Giuseppe Martucci, Alfredo Catalani erano all’ordine del giorno nelle stagioni programmate al Teatro «Scribe» di Torino. Del resto quel periodo del Novecento testimonia una recezione piuttosto diversa del repertorio stru- mentale, rispetto alle consuetudini che si sono poi instaurate nella seconda metà del secolo. Inoltre il fondo di trascrizioni conservate nell’Auditorium «A. Toscanini» dedica ampio spazio ad autori, oggi raramente eseguiti, che però all’epoca avevano raccolto una fama tale da giustificare lo stesso trattamento riservato a Beethoven e Chopin: Mattia Vento o Pietro Nardini; tutti musicisti attivi nel Settecento, quando il vuoto lasciato da Vivaldi e Domenico Scarlatti finiva per inghiottire molte delle esperienze strumentali nate in Italia. E c’è

11. Giorgio Pugliaro, Cronologia dei concerti, in L’Orchestra Sinfonica e il Coro di

anche un discreto corpus di trascrizioni basate sulle opere di autori pressoché ineseguiti oggi, quali Claude Daquin, Genari Karganov o Josef Zygmunt Szulc.

Sono infine presenti diversi brani di Hans von Bülow (i Valzer tratti dal Carnevale di Milano op. 21), che certamente destano un po’ di sorpresa. Stiamo parlando di un musicista che ha lasciato un segno profondo come direttore d’orchestra: stupisce la sua presenza come compositore in un fondo dedicato principalmente ai massimi padri del repertorio pianistico. Ma la raccolta di danze intitolata Il Carnevale di Milano era piuttosto presente nel repertorio dell’Or- chestra Classica: la formazione più coinvolta, in particolare sotto la direzione di Vincenzo Manno, nell’esecuzione delle trascrizioni di materiale pianistico. Lo dimostrano molti programmi registrati dal «Radiocorriere» tra il 9 giugno del 1942 e il 7 agosto del 1943: almeno nove esecuzioni comprese in questo breve arco temporale (nemmeno un anno). Evidentemente la raccolta si era imposta nel gusto dei contemporanei, e riscuoteva il favore di un direttore molto impegnato nella divulgazione del repertorio specifico, come Vincenzo Manno: la pagina era diventata una specie di “firma” nei programmi affidati alla sua bacchetta. Gran parte di questa visibi- lità si deve forse anche a un arrangiamento, che spicca per il suo colore brillante e festoso: un abbondante uso dei pizzicati negli archi favorisce in particolare l’incontro-scontro tra masse sonore molto differenti.