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La musica popolare sul «Radiocorriere»

L’EIAR folk

4.2 La musica popolare sul «Radiocorriere»

Fin dalle origini della radiofonia italiana il «Radiocorriere» e il suo predecessore «Radio Orario» dedicarono molto spazio alla tra- smissione del repertorio popolare. La dimostrazione viene dalla citazione riportata sopra, tratta dalla «Rassegna musicale italiana»: quella lamentela, sbottata dal cuore di una testata nutrita di idea- lismo, sottintendeva una presenza molto frequente nei palinsesti dell’EIAR. Dal 1925 al 1936 le ricorrenze che si possono reperire con- sultando i programmi pubblicati sul «Radiocorriere» sono davvero considerevoli; e le informazioni contemplano tanto esempi tratti dalla produzione nostrana, quanto brani estrapolati dal folklore straniero (russo, scandinavo e spagnolo in particolare). General- mente si trattava di esecuzioni incastonate nel bel mezzo di pro- grammi colti: facile trovare in quegli anni qualche melodia popolare inserita nei recital solistici di cantanti a loro agio con una Ninna nanna abruzzese tanto quanto con Mascagni o Massenet. In alcuni casi l’impegno era affidato a cori operai (diretti anche da interpreti destinati a carriere luminose, quali il giovane Mario Rossi). Ma nella maggior parte delle circostanze quella musica finiva sui leggii delle Orchestre B, subendo le trasformazioni più imprevedibili alla luce dell’organico ritmosinfonico. Quanto all’etichetta «canzone popo- lare», si applicava a un contenitore generico nel quale entravano a forza esperienze molto diverse, capaci di spaziare da brani entrati stabilmente in sala da concerto, come Torna a Surriento o Funiculì Funiculà, alle raccolte di melodie sarde curate da un pioniere dell’et- nomusicologia come Giulio Fara.

Non sono moltissimi i contributi di taglio musicologico che si possono trovare nella testata pubblicata dall’EIAR. C’è però un lungo saggio, firmato da Arnaldo Bonaventura sul «Radio Orario», che testimonia un notevole interesse per l’argomento: si tratta infatti

di un testo, talmente lungo da meritare uno spazio “a puntate” per ben quattro numeri consecutivi tra il novembre del 1929 e il gen- naio del 1930. La data è significativa: stiamo parlando proprio dei mesi in cui lo studio delle tradizioni popolari veniva riconosciuto dall’ente fascista come strumento in grado di aggregare le masse sotto una sola identità nazionale. Il ciclo di contributi venne pale- semente pensato in funzione dell’imminente congresso del Comi- tato per le Tradizioni Popolari a Firenze. La scelta dell’autore, un musicologo della vecchia scuola (nato a Livorno nel 1862) che si era distinto soprattutto per i suoi studi nell’ambito del repertorio operistico e sinfonico, senza dubbio confermava quella vocazione a parlare di folklore, senza necessariamente coinvolgere i folkloristi, che in quegli anni era diventata una costante. Difatti la riflessione di Bonaventura parte proprio da lì, da quel confronto immediato con le consuetudini della produzione colta, contro cui avrebbero lottato accanitamente i primi custodi della disciplina etnomusicolo- gica. Tanto per cominciare cerca di applicare anche a quel reperto- rio la nozione di autorialità, tributando sempre a un solo individuo il merito della creazione artistica; quando il canto popolare è frutto di una complessa stratificazione di competenze collettive, che non sempre può essere ricondotta a una sola testa. E poi lo spunto – quasi una giustificazione a una riflessione musicologica tanto estesa – è proprio il legame genetico con la «musica dotta», stando alle parole dello stesso Bonaventura: scambi di idee in un senso e nell’altro, tali da lasciare in Fenesta ca iucive echi della Preghiera dal Mosé di Ros- sini. La citazione tratta da Alessandro D’Ancona su cui si chiude la premessa chiarisce il quadro ideologico di partenza:

Il canto popolare si è continuamente congiunto, mescolato, interse- cato colla poesia artistica e studiata: e i poeti colti, dal canto loro, più di una volta, si sono posti ad imitare la maniera poetica dei volghi. Le due forme fino dai tempi più antichi sono come due fiumi che pro- cedono paralleli e spesso confondono le loro acque, per poi mirarsi di nuovo; ma all’uno rimane sempre qualche cosa del sapore e del colore dell’altro.17

17. Arnaldo Bonaventura, La canzone popolare italiana, «Radiorario», 24 novem- bre 1929, p. 13.

La separazione delle due correnti, fondamentale proprio per la ricostruzione dell’autentico popolare, non era ancora contemplata da questa fetta di studiosi.

Altra preoccupazione ricorrente di Bonaventura è quella di leg- gere il popolare alla luce delle categorie estetiche cucite attorno al repertorio colto:

Quali sono pertanto i caratteri fondamentali, essenziali della musica popolare? Innanzi tutto la semplicità dei motivi onde accade che que- sti sieno di vario valore estetico. Non si può negare che molti se ne incontrino di dozzinali e comuni; ma ve ne sono anche di originali e bellissimi. […] Gli elementi che al canto popolare imprimono un particolare sigillo e che sono perciò più interessanti a considerarsi sono quelli che si riferiscono ai ritmi, alle tonalità e ai modi.18

Ritmi, tonalità, modi sono gli elementi-base dell’indagine dedi- cata alla musica d’arte. Ma lo studioso non prende minimamente in considerazione l’opportunità di ragionare utilizzando criteri diversi da quelli abituali, motivandosi al confronto con un oggetto culturale impossibile da paragonare agli altri. Preferisce piuttosto mettere in evidenza i temi più significativi del repertorio in questione, sottoli- neando la presenza massiccia di canti ispirati a temi religiosi e guer- rieri: entrambi in cima alle preferenze di un regime alla continua ricerca di elementi aggreganti.

Anche riguardo ai testi la riflessione di Bonaventura passa attra- verso il filtro della letteratura colta: accenni, trascrizioni e allusioni alla melodia popolare contenute nelle opere di Boccaccio, Sacchetti o Giovanni Fiorentino. Tipica di un intellettuale colto in cerca di speculazioni letterarie prive di alcun fondamento scientifico è poi la riflessione “iconografica” sulla curva delle melodie: canti di pianura organizzati attorno a linee piatte, canti di collina con lievi ondu- lazioni e poche modulazioni «quasi a indicare il dolce pendio dei floridi colli», e brani di montagna dotati di forti dislivelli negli inter- valli, «curve ascendenti e discendenti che sembrano quasi ritrarre l’immagine e la figura dei monti». Così come sembra forzato il desi- derio di reperire nelle manifestazioni del popolare, pescate a spasso

per le varie regioni dell’Italia, lo spirito unitario di una cultura nazionale: inequivocabile – stando alle parole di Bonaventura – per la sua capacità di fotografare l’identikit di un popolo, la «genuina espressione dell’anima musicale italiana». Il tutto, senza dubbio, con il chiaro obiettivo di fare squadra, alzando un muro culturale nei confronti dello straniero, un potenziale nemico:

E i forestieri (che fanno tanto spesso falsi giudizi) ammirerebbero non solo il genio musicale del nostro popolo, ma anche la sua intima e profonda bontà: perché chi crea tali poesie e tali musiche, chi ha così vivo il senso della bellezza, non può non avere cuore gentile.19

Il modello di questo pensiero è dichiarato: Francesco Balilla Pra- tella e i suoi studi in merito alle affinità tra repertori nati in aree geografiche vicine. L’idea di fondo è quella di osservare sempre la stessa anima popolare, passando attraverso punti di vista differenti; come se quel patrimonio culturale fosse un tesoro comune, la cui chiave sarebbe riservata agli italiani. Ecco perché dentro a quel forziere ci doveva solo essere il meglio del repertorio folklorico, o piuttosto quello che faceva più comodo al regime: il patriottismo muscolare della Bella gigogin, i canti di area laziale radicati nei Car- mina triumphalia della Roma caput mundi, la produzione ispirata al misticismo cristiano, la passionalità profondamente maschia della canzone napoletana, e l’ellenismo inteso come gene culturale pri- vilegiato della musica siciliana (confuso con sapienza tra Cavalleria rusticana e le Siciliane di barocca ascendenza). La chiosa sottoline- ava ancora una volta l’esigenza di tornare alla purezza del pensiero popolare, scacciando anche dalla produzione colta ogni deprecabile interferenza di origine straniera:

Quanti tesori di poesia e di ispirazioni melodiche si racchiudono nel cuore del nostro popolo, in ogni regione d’Italia! Speriamo ch’esso continui a cantare o meglio riprenda a cantare come una volta. Chi canta è buono e il canto dispone l’animo al bene. E speriamo che i nostri compositori riprendano a tender l’orecchio ai canti del popolo perché in essi è la sincerità, perché in essi è la verità e forse l’avvenire 19. Arnaldo Bonaventura, La canzone popolare italiana, «Radiorario», 1 dicembre

dell’arte. Questa dovrà pur liberarsi, una volta o l’altra, dalle artifi- ciosità cerebrali e risalire alla fonte della musica popolare ove è la semplicità: dovrà poi liberarsi dagli influssi stranieri e risalire a quella fonte ove è il carattere nazionale. Quasi tutti i nostri grandi musici- sti sono nati dal popolo ed hanno ascoltato la voce del popolo. Così sia anche in avvenire, a maggior gloria del popolo nostro e dell’arte musicale italiana.20

Tutto il discorso di Bonaventura testimonia quindi la presenza di un acceso dibattito, anche negli organi legati alla radiofonia, in merito al tema del popolare. Quel repertorio costituiva un’occasione da non perdere alla luce del pensiero fascista, e poteva essere uno strumento ideale per coagulare tante identità culturali attorno a valori comuni, radicati nel terreno condiviso della campagna e delle tradizioni contadine. Non deve stupire dunque la parzialità di una riflessione, che per forza di cose doveva indirizzarsi verso la sele- zione, non verso lo studio, del canto folklorico.

Sorprende piuttosto la presenza di alcuni accenni a pratiche meto- dologiche ancora in corso di formazione, e che avrebbero favorito la nascita di un’indagine scientifica sul popolare. Bonaventura in par- ticolare auspica l’ingresso sistematico del fonografo nelle pratiche di raccolta del materiale etnico, scongiurando l’inevitabile deforma- zione che deriva dalla trascrizione sul pentagramma colto: terreno minato per la corretta identificazione di rapporti tra altezze spesso inferiori all’intervallo, minimo nella musica d’arte, del semitono.

Quanto alle tonalità, talora sono difficili a determinarsi, data anche la breve estensione di certe melodie: e quanto ai modi, se talvolta sono regolarmente quello maggiore o quello minore (con prevalenza di quello minore) in molti casi si ricongiungono a quelli antichi, Greci e Gregoriani, dei quali spesso sono una derivazione. Dipiù, i canti popolari non si ritraggono dall’adottare le scale naturali, uscendo dal nostro sistema temperato, con note calanti o crescenti di tipo enar- monico, cioè con quegli intervalli minori del semitono che alcuni popoli antichi usarono, e poi furono abbandonati, e che oggi si tenta di ricondurre in onore e di utilizzare. Da ciò deriva la grande diffi- coltà del trascrivere esattamente certe canzoni nel popolo, mancando 20. Arnaldo Bonaventura, La canzone popolare italiana, «Radiorario», 15 dicem-

perfino, per quegli intervalli, nella nostra notazione i segni corri- spondenti. Onde sempre più appare evidente la necessità (se voglia farsi una raccolta veramente seria e attendibile dei canti del popolo) di valersi del fonografo, che solo potrebbe registrarli con tutta esattezza.21

Questo estratto testimonia una certa sensibilità, da parte di Bona- ventura, nei confronti della peculiarità tecnica del canto popolare, giustamente considerato un oggetto da analizzare con strumenti differenti, proprio perché basato su criteri lessicali impossibili da ingabbiare all’interno della prigione del sistema temperato. La sua capacità di cogliere l’utilità del fonografo in questo settore della ricerca musicologica documenta pertanto una posizione anomala, particolarmente attenta a considerare l’attendibilità del testo orale, privilegiando un criterio poco valutato in quegli anni.