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una specialità di casa EIAR

2.7 Il repertorio romantico

Il fondo delle trascrizioni conservato presso l’Auditorium Rai «A. Toscanini» contiene soprattutto opere appartenenti al repertorio romantico. La scelta non stupisce, visto che stiamo parlando della stagione aurea del pianismo. Chopin è il nome che compare con maggiore frequenza. In alcuni casi l’arrangiamento dà l’impres- sione di integrare piuttosto che trascrivere: succede con la Polacca op. 40 n. 1 e con la Polacca op. 26 (negli arrangiamenti di Vincenzo Fiorillo). Entrambe le composizioni mantengono molta della scrit- tura originale nella parte del pianoforte. Ma non si può parlare di semplice accompagnamento aggiunto alla parte solistica, perché il dialogo è molto fitto, l’intreccio denso, e una grossa parte del testo originale viene integralmente tradotta in orchestra. Gli interventi pianistici servono più che altro a mettere in piedi un confronto diretto tra modello e rivisitazione: ogni tanto l’impressione è quella di ascoltare il pezzo così come lo aveva scritto Chopin, e ogni tanto lo stesso pezzo si trasforma in qualcos’altro, prendendo il tipico sound del repertorio in questione. Ne risulta un curioso effetto di commistione tra due pensieri differenti: quello della scrittura soli- stica e quello della rivisitazione concertante. Nessun caso tuttavia si allinea a quanto fatto dallo stesso Chopin sulla sua Grande Polacca brillante op. 22, quando il pianoforte rimane intatto, ricevendo sem- plicemente un sostegno orchestrale da lasciare sul fondo della scena. Mario Fighera è uno degli arrangiatori più coinvolti nella tra- scrizione dell’opera chopiniana. Sono ben sei i brani tratti dalla rac- colta degli Studi a essere passati sotto le sue cure; e anche in questo caso il compositore in forze all’EIAR manifesta una buona sensi- bilità nel cogliere gli spunti orchestrali già presenti nella scrittura originale. Chopin non era un abile orchestratore (la scarsa elabora- zione dei suoi due Concerti lo dimostra), ma sapeva mettere tanti colori diversi dentro al suo pianoforte; un buon musicista deve solo fare un piccolo sforzo per immaginare quella stessa scrittura impastata con altri timbri. Lo Studio op. 25 n. 3, ad esempio, col- pisce per due aspetti: la luce e la volatilità quasi pizzicata dei suoi disegni. E Fighera restituisce bene queste caratteristiche facendo un uso piuttosto intenso dell’arpa, probabile fonte dell’immaginazione

chopiniana per la stesura di questo brano, e del triangolo: entrambi strumenti dalla sonorità lucente, che inondano di chiarezza e di leg- gerezza la partitura. Allo stesso modo la sofferenza contratta della melodia che identifica lo Studio op. 10 n. 6 sembra scritta per il suono nasale e dolente del corno inglese: condivisibile dunque la scelta fatta da Fighera di assegnare un ruolo protagonista a questo strumento, mentre una coppia di clarinetti rileva il groviglio melo- dico del restante materiale.

A Vincenzo Manno spettò il compito di fare una «libera trascri- zione» (questo il sottotitolo nel manoscritto) del Grande Valzer brillante op. 18: ancora una volta un lavoro efficace, che riesce bene a rendere l’euforia della pagina chopiniana, ricorrendo spesso alle scivolate in ‘glissando’ dell’arpa. Ma la vera gatta da pelare finì nelle mani di Carlo Brunetti, che ricevette l’incarico davvero impegnativo di orchestrare lo Scherzo op. 31, con la sua scrittura ricca di spunti polifonici, di virtuosismi, di rovesciamenti espressivi e di gradazioni sonore in rapido divenire. Il risultato è difficile da intuire alla sem- plice lettura della partitura, ma Brunetti dà l’impressione di sfruttare a pieno le risorse timbriche dell’organico ricorrendo anche a strata- gemmi poco ortodossi in ambito classico, pur di raggiungere l’inten- sità emotiva dello Scherzo. Basti pensare alla scelta di raddoppiare la parte dell’arpa con quella del pianoforte nei momenti di irrobu- stimento dei disegni rapidi in giro per la tastiera: un’opzione poco usata in ambito sinfonico, mentre molto più tipica delle formazioni ritmosinfoniche o da ballo, quando il pianoforte diventa una sorta di jolly a cui affidare il “ritocco” di molte sonorità orchestrali.

Meno raro è sicuramente il caso dell’Ave Maria di Schubert: tra Otto e Novecento sono nate decine di trascrizioni della pagina ispi- rata alla Donna del lago di Walter Scott. Il primo della lista è stato Franz Liszt, con le sue tre rielaborazioni pianistiche realizzate tra il 1846 e il 1883. Ma in seguito molti altri compositori si sono dedicati alla stessa operazione: Anton Diabelli (pianoforte a quattro mani), August Reinhard (pianoforte e harmonium), Charles Vogel e Georg Goltermann (violoncello e pianoforte), Hans Sitt, August Wilhelmj e Miska Hauser (violino e pianoforte), Giuseppe Gariboldi (flauto e pianoforte). Prima del 1942, anno a cui risale la «libera trascrizione» di Vincenzo Manno, era nata solo una versione per piccola orchestra

da camera: quella realizzata da Carl Reiner alla fine dell’Ottocento. Ma la partitura è molto difficile da reperire, e in Italia è collocata solo in forma incompleta (solo partitura, senza parti). Ecco perché il documento in possesso della Rai, che invece conserva con precisione tutto il materiale, merita di essere citato: nonostante la celebrità della pagina e le relative trascrizioni sparse in giro per il mondo, resta un lavoro che potrebbe tornare utile anche in ambito esecutivo. Manno, secondo la consuetudine che abbiamo già citato più volte in questo repertorio, sceglie di affidare la spina dorsale dell’Ave Maria all’arpa, impegnata dalla prima all’ultima battuta nell’esecuzione dell’accom- pagnamento in terzine; gli archi rilevano la parte cantabile; mentre i fiati si limitano a irrobustire l’ossatura della trascrizione. Anche in questo caso, come nel precedente Scherzo di Chopin, i momenti di maggiore intensità prevedono il raddoppio di arpa e pianoforte.

Le pagine di Liszt, come si diceva, passarono quasi tutte dalle mani di Giuseppe Piccioli. Sono trascrizioni molto curate, nelle quali si avverte tutta la volontà di dare al repertorio una forma orche- strale, connaturata alla stessa scrittura pianistica di quegli anni. La Bénédiction de Dieu dans la solitude cerca la stessa leggerezza tim- brica dell’originale: musica che dà l’impressione di sollevarci verso l’alto, rendendoci sempre più vicini alla dimensione trascendente. Liszt ottiene questo effetto lavorando su una serie di disegni tremo- lanti (nel registro medio e acuto della tastiera) che lasciano filtrare alcune melodie di una bellezza accecante: proprio come se attra- verso il fluido dell’atmosfera passassero raggi di un’entità superiore e consolatrice. E Piccioli si allinea a questa concezione, realizzando un’orchestrazione che predilige le sonorità soffici: arpa sempre pre- sente, violini con la sordina in continua vibrazione, legni e piano- forte spostati nel registro acuto, ottoni che si limitano a sostenere l’ossatura armonica evitando di prendersi il centro della scena. Tutta la strumentazione deve qualcosa all’orchestra di Ravel (Une barque sur l’océan), con i suoi colori tinta pastello che non perdono mai la loro trasparenza.

La leggerezza di Piccioli nell’elaborazione della scrittura orche- strale si nota anche negli altri brani, che non a caso sono tutti tratti dalla parte più spirituale della produzione lisztiana: Hymne de l’en- fant à son réveil ricorre continuamente allo strumento degli archi

divisi per cercare la massima esilità sonora, Sposalizio privilegia il registro acuto dell’orchestra, spingendosi a utilizzare anche l’otta- vino nei passaggi più eterei, e il Sonetto n. 47 del Petrarca cerca di restituire tutta la bellezza della scrittura traforata, sempre in equi- librio tra pieno e vuoto come se fosse un tessuto di pizzo, che Liszt elabora per il suo pianoforte.

Curioso infine il caso della Danza ungherese n. 12. Brahms scrisse l’intera raccolta per pianoforte a quattro mani nel 1852, vale a dire in un periodo ancora dominato dalla sensibilità romantica: l’interesse per la cultura popolare, sebbene sottoposta al filtro della lente colta, ne è la prova. Il ciclo viene comunemente eseguito per orchestra, vista la presenza di varie orchestrazioni, nate tutte nel corso dell’Ot- tocento. Brahms rimaneggiò solo la prima, la terza e la decima danza della raccolta. Ma esistono trascrizioni ormai frequenti in sala da concerto di tutte le altre pagine. La Danza ungherese n. 12 è stata strumentata da Albert Parlow, un compositore tedesco vissuto tra il 1824 e il 1888 e passato alla storia soprattutto per il suo impegno alla testa della Cappella Militare di Berlino. Le sue rielaborazioni dalla raccolta di Brahms (anche le n. 5, 6, 11, 13, 14, 15, 16 sono pas- sate sotto alle sue cure) stimolarono l’apprezzamento dello stesso autore; e oggi sono entrate stabilmente in repertorio. Viene da chie- dersi dunque quale bisogno ci fosse nel 1942 di commissionare una nuova trascrizione di quella pagina ormai nota in una valida ver- sione orchestrale. Problemi di organico? No di certo, visto che l’e- lenco delle parti in Parlow incolonna tutti strumenti in forze presso l’Orchestra Classica: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti in sib, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 2 tromboni, timpani, archi. Con qualche riduzione, magari nel numero degli archi, la partitura sarebbe stata perfettamente eseguibile anche dalla formazione EIAR. Il punto è che l’ente radiofonico aveva idee precise in merito al suono da attribuire al repertorio tradizionale; e in questa prospettiva l’arpa (assente in Parlow) era diventata una presenza ineliminabile, capace di dare un tocco di luce a qualsiasi massa orchestrale. Ci pensò dun- que Guido Gaidano, un arrangiatore consulente della sede torinese che compare come trascrittore di circa dieci pagine appartenenti al repertorio romantico. La sua versione ricalca piuttosto fedelmente (gli archi rilevano la figurazione strisciante, mentre ai fiati spetta il

compito di sottolineare le melodia danzante), anche se con qual- che semplificazione, quella di Parlow, ma attribuisce all’arpa quella continuità, che rese lo strumento a corde pizzicate un protagonista assoluto del fondo «Trascrizioni». L’uso che i vari compositori ne fecero in questi anni ricorda l’antica pratica del continuo: una sorta di colonna ritmico-armonica su cui si appoggiano tutte le altre parti. È certamente questa presenza ricorrente, unita a un curioso raddop- pio del pianoforte nei passaggi più robusti, la tinta più caratteristica del repertorio in questione.

L’Orchestra B.

Trucco e parrucco del repertorio