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L’EIAR folk

4.4 Il popolo in giacca e cravatta

Il materiale selezionato dall’EIAR nella maggior parte dei casi è sot- toposto a un profondo lavoro di revisione. In alcune sezioni l’Archi- vio Rai si limita a conservare partiture o raccolte edite. Molto più spesso i testi originali sono sottoposti ad arrangiamenti manoscritti,

che portano le firme più frequenti del periodo. E questi documenti denunciano la chiara volontà di snaturare la fisionomia della pro- duzione folklorica. Non che le antologie a stampa rivendichino par- ticolari pretese di autenticità; ma la trasformazione operata dagli arrangiatori EIAR conferma un sorta di inclinazione all’evoluzioni- smo, operata con la testa e gli strumenti della musica colta: come se quel patrimonio esigesse un intervento “migliorativo”, volto a dare una parvenza sinfonica alle melodie cresciute dalla voce del popolo o della lingua dialettale.

‘l Campanni ‘d la seira è un caso piuttosto rappresentativo. La canzone è ricca di stimoli uditivi, con tanto di suoni onomatopeici, tintinnii, scampanii sul far della sera. Le parole tentano di ricre- are l’effetto spazializzante di una sonorità che ondeggia attraverso l’atmosfera. Questa stessa caratteristica avvicina il brano alla pro- duzione della romanza da camera, molto più che della canzone popolare: c’è qualcosa di romantico infatti nel tema della sonorità en plein air, che raggiunge l’io lirico con la fragilità di un messaggio annebbiato. E l’arrangiamento raccoglie questo spunto cercando un contatto molto ravvicinato con la produzione ottocentesca di stampo naturalistico: musica da vedere ancor prima che da ascoltare. L’au- tore dell’adattamento per ampio organico (non firmato) ricorre al timbro del corno, per dare l’impressione di un ambiente nel quale si respira a pieni polmoni; un accorgimento tipico della produzione romantica e tardoromantica, da Schumann fino a Richard Strauss. In particolare la sovrapposizione per terze rimanda a uno stilema molto sfruttato dagli orchestratori romantici, proprio per cucire sul pezzo la dimensione extramusicale del mondo all’aria aperta.

Un’altra scelta timbrica ricorre spesso nella scrittura di questi rimaneggiamenti: il coro a bocca chiusa. Molti dei brani presenti nel fondo «Canzoni popolari» puntano su questa sonorità per dare forma alle melodie vocali. Ma la soluzione è tipica della produzione colta, e in particolare di quei compositori che tra Otto e Nove- cento avevano usato la massa corale come una parte dell’orchestra: quasi un effetto di coloratura, che in Italia aveva lasciato un segno memorabile nella Madama Butterfly. Difficile non pensare a quel modello, lavorando a contatto con un organico di tipo sinfonico o para-sinfonico.

Il Funiculì funiculà di Vincenzo Manno è un lavoro che esprime ambizioni sinfoniche molto elevate. Già il sottotitolo Fantasia sin- fonica sulla canzone popolare di Piedigrotta chiarisce il senso dell’o- perazione: non una semplice ripresa della nota melodia campana, ma un rifacimento originale, pensato per conquistare la sala da con- certo. Del resto Manno, come si diceva sopra, rappresentava il ver- sante più passatista dell’EIAR: il grosso del suo impegno era rivolto all’attività dell’Orchestra Classica. Questo arrangiamento testimo- nia un’apertura su altri fronti musicali, ma l’imprinting resta quello del musicista colto. Non a caso la stessa canzone domina l’ultimo movimento della Sinfonia Aus Italien di Richard Strauss: la pagina sconvolse gli ascoltatori del 1887 per la citazione un po’ grossolana del Funiculì Funiculà, ma la scrittura del ventiduenne Strauss in realtà è piena di raffinatezze, che descrivono con una tavolozza ster- minata di colori la vita chiassosa e passionale del popolo napoletano. Quasi cinquant’anni dopo Manno tentava di fare qualcosa di simile. Il suo organico non è squisitamente strumentale, perché prevede tenore, coro e orchestra; ma l’idea di fondo è la stessa: osservare la napoletanità con gli occhi del sinfonismo tradizionale, ricorrendo a masse orchestrali corpose, atteggiamenti rapsodici, interventi soli- stici di alcune parti, preludi e postludi articolati.

Fu però soprattutto il repertorio alpino a stimolare la fantasia dei compositori radiofonici nella direzione della rivisitazione colta. Anche in questo caso il modello era senza dubbio Strauss: l’Alpen- symphonie, con il suo linguaggio cinematografico, all’inizio del Novecento aveva lasciato un po’ perplesso il pubblico, come se fosse la telecronaca di un’escursione con scarponi e piccozza. Ma negli anni della grande frattura tra musica e ascoltatori, quella scrittura così esplicita poteva senza dubbio giocarsi una seconda chance. Lo strumento radiofonico, per la sua naturale inclinazione a comuni- care con un ascoltatore in cerca di stimoli visivi, capaci di buttare giù le solite quattro pareti domestiche, era un canale da privilegiare. Ecco perché nell’Archivio Rai, e proprio nel fondo dedicato alla produzione popolare, compaiono diverse rielaborazioni ambiziose. Il canto della gente di montagna poteva essere un ottimo filo con cui cucire partiture di ampie proporzioni, elevando quelle melodie al rango del repertorio da concerto. Canti di montagna, nato dalla

penna di Vincenzo Fiorillo, è un brano che sfrutta tutte le pagine più caratteristiche della produzione alpina per creare una sinfonia monumentale: Quel mazzolin di fiori, Sul ponte di Bassano, Il venti- nove giugno e Mi sun alpin diventano i temi di altrettanti movimenti per orchestra e coro, che sfruttano tutta la potenza dinamica di una scrittura a pieno organico. Idem dicasi per Invito alla danza alpestre di Giulio Confalonieri, che si ispira allo stesso repertorio senza inse- rire alcuna citazioni testuale, e per un’altra composizione intitolata Canti di montagna (questa volta l’arrangiatore non è specificato) che mette insieme un medley delle solite melodie ricco delle sono- rità tradizionalmente associate al mondo pastorale (flauti, ottavini, tamburi e campane).

Si colloca in scia la Fantasia folkloristica di Giuseppe Chiri, un arrangiatore che ha dedicato gran parte della sua produzione al restyling della canzone piemontese (sua la firma sulle elaborazioni presenti in Rai di Ciao balôn e Lassme nen). Ma la Fantasia folklo- ristica è una pagina che supera le aspettative, perché non si limita a dare una forma orchestrale a due grandi melodie della tradizione locale (El piscinin è una canzone lombarda, mentre La violeta è di origine piemontese): preferisce utilizzarle come cellule generatrici di una monumentale composizione per voci e strumenti. Già l’orga- nico rende l’idea dell’operazione svolta: soprani, contralti, tenori I, tenori II, bassi, baritoni, flauto I, flauto II e ottavino, oboe I, oboe II, clarinetto I, clarinetto II, saxofono I, saxofono II, fagotto I, fagotto II, corno I, corno II, tromba I, tromba II, tromba III, trombone I, trombone II, trombone III e tuba, violini I, violini II, viole, violon- celli, contrabbassi, batteria, timpani, xilofono, mandolino I, man- dolino II, mandolino III, arpa, celesta, pianoforte. In pratica tutto l’organico completo dell’Orchestra B, con tanto di commistioni tra strumenti che di rado lavorano in tandem come mandolino e saxo- fono. L’insieme è piuttosto disorganico, ma quel mix di sinfonismo, ritmica in stile leggero e folklore evidentemente piaceva agli ascolta- tori, visto che la Fantasia di Chiri compare molto spesso nella pro- grammazione EIAR degli anni Trenta.

Stesso discorso vale per la Rapsodia lombarda di Luigi Cerri. L’or- ganico è più ristretto: quasi una formazione da camera priva di ottoni (solo un trombone) e arricchita dal colore dell’armonium. Ma è il

linguaggio che è pieno di vocaboli presi in prestito dalla tradizione sinfonico-operistica. La materia prima è costituita da alcune melo- die lombarde di origine popolare («Se tu vedessi la mia ragazza», «Fa cald Ninetta», «Dammi un riccio dei tuoi capelli», «Varda là quella barchetta», «L’è sott’al pont a fa la legna»); eppure il modo in cui le canzoni vengono intrecciate o colorate ricorda precise mani della generazione romantica. Lo stesso titolo allude a una forma compo- sitiva che Franz Liszt portò alle sue massime conseguenze, proprio a contatto con melodie di origine folklorica (della sua Ungheria, natu- ralmente); l’introduzione, con quel pedale dei contrabassi, su cui si stagliano una serie di accordi alterati ricorda benissimo le aperture fumose di alcune Rapsodie ungheresi; e il legame è confermato da un riferimento quasi esplicito al tema nervoso e cromatico che avvia Après une lecture de Dante.

Fig. 22: L. Cerri, Rapsodia lombarda, bb. 11-14

Fig. 23: F. Liszt, Après une lecture de Dante, bb. 29-31

Ma non basta, perché la maggior parte delle melodie scorre ricordando la scrittura semplice e ternaria delle Mazurke di Cho- pin, qualche accompagnamento arpeggiato dei legni sembra venire

direttamente dalla opere di Bellini, e le continue fioriture dei temi, ricamate dai legni, devono molto alla scrittura dei Notturni. Stiamo dunque parlando di un’operazione nata su un tavolo di lavoro in cui si mescolavano materiale tratto da antologie popolari ed evergreen del pianismo ottocentesco. Erano passati cento anni, ma la fun- zione divulgativa dello strumento radiofonico annullava le distanze, consentendo di comporre con una mentalità ormai sorpassata da decenni, che faceva del repertorio folk un serbatoio a cui attingere per scrivere pezzi da concerto.

Sembra venire dai modi della tradizione colta anche una certa tendenza alla contaminazione, evidente in molti brani del fondo. L’usanza di cercare un cortocircuito tra generi e linguaggi differenti è tipica di un pensiero musicale fondato sul criterio della sperimen- tazione; vale a dire un percorso che punta al travestimento piuttosto che all’identificazione, abbattendo uno dei tipici dogmi della cul- tura popolare: fare del proprio canto un identikit inconfondibile. Succede ad esempio nella parafrasi firmata dalla premiata ditta Semprini-Bormioli di La biondina in gondoletta, altra canzone nata dalla mano di un noto operista quale Giovanni Simone Mayr. La pagina è sottoposta a ben tre arrangiamenti diversi: prima un tango molto vivace che allude alla cultura musicale argentina ricorrendo al timbro simbolico della fisarmonica (in raddoppio alla voce); poi l’orchestra scivola su un tempo di fox trot che fa l’occhiolino alla produzione americana con un assolo di clarinetto («con megafono e abile nel fare il glissando») alla Benny Goodman; quindi si torna indietro nel tempo con un «tempo di valzer» elegante come una sala da ballo asburgica; e c’è anche spazio per un bolero schitarrante, che ha tutta l’intensità del temperamento andaluso. La biondina in gondoletta, tra le eccitate braccia di un uomo che «col fogo da vicin non podeva riposar», fa così il giro del mondo perdendo ogni con- notazione locale. Proprio come succede alla Canzone del Valentino di Norberto Caviglia che colora gli amori nati nel parco torinese con le tinte passionali del tango: la fisarmonica (sostituibile anche con il mandolino) la fa da padrone, cercando un contatto con una dimen- sione folklorica che in realtà non condivide nulla con la tradizione piemontese.