• Non ci sono risultati.

Trucco e parrucco del repertorio colto

3.1 Una formazione fantasma

Intorno alla metà del Novecento c’era un formazione, accanto alla Cetra, la Classica e la Radio Orchestra di Milano, che figurava fre- quentemente nei palinsesti del repertorio radiofonico. Nessuno la ricorda, neanche tra il personale Rai più anziano. Mazzoletti non la cita nel paragrafo dedicato alle orchestre dell’EIAR. Negli Annuari pubblicati dalla Rai l’organico non compare nella lista delle orche- stre, stabili o in collaborazione. E anche sul «Radiocorriere» è pres- soché impossibile reperire informazioni specifiche.

Eppure l’Orchestra B esisteva, eccome. A testimoniarlo restano circa ventimila documenti, a stampa e manoscritti, conservati nell’Archivio dell’Auditorium «A. Toscanini»: tutta musica che prova un’attività piuttosto intensa proprio nel periodo di maggiore esplosione degli arrangiamenti per organico ritmosinfonico. Le date, poche reperibili in maniera certa sui manoscritti, vanno dal 1932 al 1952. La prima informazione cronologica corrisponde pro- babilmente all’atto di nascita dell’Orchestra B. Del resto il dato è confermato anche dal volume sulla storia della Rai, firmato da Clau- dio Ferretti, Umberto Broccoli e Barbara Scaramucci.1 Quanto allo

scioglimento dell’organico, invece, non è da escludere che sia avve- nuto qualche anno dopo il 1952. Nel complesso, si tratta comunque di una formazione piuttosto longeva, che per almeno vent’anni ha

maneggiato molta musica passata, acquisita o commissionata ex novo dall’ente radiofonico; e che è stata anche in grado di passare immune al guado della Rai, quando la nuova politica successiva al fascismo imponeva sovente lo scioglimento delle vecchie formazioni (della Cetra ad esempio si perdono le tracce proprio nell’immediato dopoguerra). Senza dubbio, negli anni dell’occupazione nazista, fu un organico di riferimento per la diffusione del repertorio impo- sto dalla Wehrmacht. È quindi probabile che il grosso del materiale commentato nel primo capitolo sia da riferire proprio all’attività dell’Orchestra B (oltre che Cetra, come già sottolineato a proposito dell’impegno con Barzizza).

La copiosa quantità di partiture presenti nell’Auditorium «A. Toscanini» fa pensare a un’attività dislocata nelle sede piemontese dell’EIAR. La conferma viene dalla carta dei manoscritti, spesso tim- brata con marchi di negozianti locali. Di tanto in tanto qualche indi- cazione cronologica è accompagnata da un riferimento esplicito al luogo. E poi c’è una lettera, allegata al Fandango di Ludwig Müller, che prova in maniera inconfutabile la presenza della formazione a Torino: è datata 3 luglio 1952, viene dagli uffici di Roma, ed è rivolta a un responsabile (tale dott. Mantelli) della Direzione Comparti- mentale Rai di Via Montebello 12 (Torino). Il testo allude al plico di partiture in oggetto, e prega l’incaricato di includere il materiale «nei repertori dell’Orchestra B». A matita, in calce, è ben leggibile anche il promemoria che invita il personale a mostrare le partiture a Tito Petralia.

Non è un caso che nella lettera compaia proprio questo nome, perché Petralia fu il padre dell’Orchestra B; e la sua attività fu spesso legata alla sede radiofonica torinese. Tra il 1935 e il 1938 salì diverse volte sul podio dell’Orchestra Sinfonica di Torino, ma soprattutto rilevò l’incarico, dal presidente Francesco Cochetti, di formare le prime orchestre moderne dell’EIAR; e i primi frutti del suo lavoro furono proprio gli organici dell’Orchestra B e della Cetra (fondata nel 1933 e rilevata poi nel 1936 da Barzizza). Compositore e maestro concertatore, Petralia veniva da Firenze (vi era nato nel 1896), dove si era fatto notare fin da ragazzino, quando faceva impazzire chiun- que con il virtuosismo del suo mandolino. Fu proprio grazie a quello strumento che cominciò a scoprire i piaceri del lavoro strumentale

d’insieme: presto divenne infatti primo mandolino presso la più grande orchestra di plettri fiorentina. E di lì il passo fu breve per arrivare al podio, appena diciottenne, dell’Orchestra di Prato per un debutto con un titolo popolare quale La Traviata di Giuseppe Verdi.

Fig. 15: Tito Petralia accanto a un apparecchio Radio

Durante la Grande Guerra Petralia fu chiamato alle armi, dopo- diché partì per l’Oriente, con la speranza di fare fortuna come direttore d’orchestra. Fu in quegli anni che si fece le ossa, diri- gendo di tutto: opera, operetta, musica da ballo, sinfonico, reper- torio moderno. All’EIAR entrò nel 1932, ricevendo subito l’incarico di formare un’orchestra da contrapporre alla blasonate formazioni sinfoniche: una sorta di realtà complementare, magari alimentata anche dalle stesse forze, ma capace di affrontare un repertorio meno impegnativo sotto il profilo dell’ascolto quanto dell’esecuzione. È probabile che sia nata proprio in quel momento l’intitolazione «B»,

a indicare un complesso simile a quello sinfonico ma dall’identità completamente diversa: quasi un lato B della compagine impegnata nella consueta attività concertistica.

Il regista e conduttore radiofonico Silvio Gigli, nel necrologio apparso sul «Radiocorriere» nel 1982, non esitava a definire Petra- lia l’inventore in Italia del genere ritmosinfonico: un genere che esplose proprio con lui, trovando una straordinaria mediazione tra le esigenze del grande linguaggio colto e la forza sempre più incon- trollabile del ritmo ballabile. L’Orchestra B in fondo nacque proprio per soddisfare le ragioni di questo nuovo linguaggio, al passo con i tempi senza necessariamente voltare le spalle al passato. A Torino Petralia lasciò un segno indelebile. Il suo proverbiale caratteraccio, lo stesso che lo spinse nel 1941 a far licenziare Nilla Pizzi dall’EIAR per il suo timbro troppo esotico e insieme sensuale, fu trasformato in caricatura da diversi orchestrali del tempo:

I capelli arruffati, i denti che digrignano e il volto accigliato sem- brano la perfetta rappresentazione di quanto scriveva sempre Gigli nel 1982:

Tito Petralia non era un uomo facile, ma gli orchestrali che avevano fatto parte dei suoi complessi, pur trovandolo impetuoso, mordace e senza peli sulla lingua, si vantavano d’essere stati diretti da lui. «È un grande», finivano col dire. «È per quel suo caratteraccio fiorentino e sarcastico, aspro e pungente, che non figura fra i più eccelsi musicisti del nostro tempo». Lui lo sapeva ma non cambiava: «Ho sposato la musica, non il primo violino o il timpanista», diceva, e quando io, amico del cuore, gli suggerivo che bastava un sorriso anziché un ghi- gno per accattivarsi i collaboratori, mi rispondeva: «La musica sol- tanto è l’espressione della saggezza. Chi è bischero resta tale. lo non sarò saggio, ma sono un musicista».2

La sua popolarità divenne enorme nel giro di pochi anni, portan- dolo a meritarsi l’epiteto di «Babbo di tutte le orchestre Rai». Sotto la sua cura passarono, oltre alla B, anche la già citata Cetra, l’Orche- stra n. 4, la prima Orchestra ritmica (senza archi) di Roma, nonché molte altre compagini di caratura internazionale. Pippo Barzizza e Cesare Gallino ricevettero dalle sue mani musicisti pronti ad affron- tare il salto verso il nuovo repertorio “leggero”, come si diceva al tempo.

Spesso si usa schierare Petralia nel gruppo dei fieri oppositori del nuovo repertorio afroamericano. L’epiteto che lo accompagna più frequentemente è proprio questo. Mazzoletti parla di un «musicista alquanto ostile al jazz».3 Ma in realtà lo stesso concetto di ritmosin-

fonico deve qualcosa al jazz, visto che cerca di fare della pulsazione una prima donna in grado di lasciare dietro le quinte la melodia. Gigli, che senza dubbio era uno dei suoi collaboratori più fedeli, non parla minimamente di quest’avversione; anzi accenna proprio alla direzione di molte musiche americane, di chiara ispirazione jazzi- stica. Spesso Petralia collaborava con il duo pianistico formato da Enrico Bormioli e Alberto Semprini: un tandem che poteva certa- mente vantare qualche cromosoma jazz, vista anche la vicinanza

2. Silvio Gigli, Una vita per la musica, «Radiocorriere», 14 novembre 1982, p. 140. 3. Mazzoletti, Il jazz in Italia cit., p. 327.

con lo zoccolo duro dell’Orchestra Cetra. La presentazione di un concerto del 1936 legato alla collaborazione con il duo Bormioli- Semprini conferma questa impressione generale:

È risaputo che il jazz come complesso e come repertorio non è una forma d’arte trascurabile. La forma poi del jazz sinfonico (che com- prende composizioni più ampie le quali, pur sfruttando le risorse ritmiche, strumentali e folcloristiche del jazz, non abbandonano lo schema strumentale delle composizioni sinfoniche tradizionali romantiche) non solo ha trovato accesso nei programmi sinfonici, ma è tale per le sue caratteristiche e il suo strumentale da influenzare la produzione musicale moderna. Il jazz sinfonico insomma ha il suo capitolo nella storia della musica contemporanea. Di tale repertorio la seconda parte del Concerto Petralia presenta alcune composizioni di autori italiani e una americana. Ché si vuol dimostrare quanto in Italia si è fatto – con gusto tutto particolare – in un genere che si cre- deva in principio particolare della sensibilità nordamericana.4

Le composizioni a cui si riferisce l’estensore dell’articolo sono Rumba di Semprini, Rapsodia italiana di Bormioli, la Toccata ‘900 di Escobar, che abbiamo già citato tra i padri dell’importazione jazzistica in Italia, e una composizione di chiaro stampo gershwi- niano come la Blue Fantasy «Metropolis» di Ferde Grofé (si deve a lui l’arrangiamento per pianoforte e orchestra della Rapsodia in blu, che si sente abitualmente in sala da concerto). Tutta musica che certamente si può classificare in una zona espressiva molto vicina al jazz. Ma soprattutto la presenza di un simile panegirico del jazz pro- prio all’interno di un articolo dedicato a Petralia dimostra quanto il nome del direttore, nell’immaginario dei contemporanei, fosse vicino a quel repertorio. Del resto l’anno successivo lo stesso Petralia si sarebbe cimentato in un appuntamento altrettanto ricco di ritmi sincopati, vista la chiusura affidata al Concerto per orchestra jazz di Edward Künneke. Qualche gene jazzistico, dunque, era inevitabile che finisse anche nell’embrione dell’Orchestra B.

L’attività dell’Orchestra B non è però solo legata alla sede tori- nese dell’EIAR. A dimostrarlo restano diverse partiture, nel fondo dell’Auditorium «A. Toscanini», che precisano in Roma il loro luogo

di nascita. Del resto uno dei pochi riferimenti espliciti contenuti nel «Radiocorriere» allude proprio all’attività delle «Orchestre B», al plurale, come se fossero realtà simili articolate su differenti centri di produzione.5 Non si tratta certo di un refuso, perché, il numero

in questione è quello di inizio gennaio (il 1937), vale a dire l’uscita della pubblicazione che da sempre dedica molto spazio al consun- tivo dell’anno precedente. Tutta la «Musica varia o brillante» rela- tiva al 1936 viene genericamente attribuita all’attività delle Orchestre B, accanto ad alcune formazioni non dipendenti dall’EIAR. Senza dubbio l’altro polo, oltre a Torino, era Roma. In questo caso sono tornate comode alcune testimonianze dirette. Diversi responsabili dell’archivio romano, ormai in quiescenza, ricordano la formazione, e ne attribuiscono il nome allo storico Auditorium B di via Asiago. Il volume Mamma Rai considera l’Orchestra B una compagine nata e cresciuta nel cuore della sede centrale.6 Ma quanto detto sopra

dimostra una presenza continua a Torino per almeno un ventennio; e proprio questa presenza sembrerebbe scollegare la vita dell’orche- stra da un luogo particolarmente circoscritto come l’Auditorium B della sede romana. Difficile trovare prove di ulteriori sdoppiamenti: benché diverso materiale presente nell’Auditorium «A. Toscanini» venga da Milano, nessuno ricorda formazioni con un nome simile presso la sede di Corso Sempione. È molto probabile che dopo la guerra molte delle partiture nate a Torino e Roma abbiano preso anche altre vie, sfruttando la fioritura di orchestre ritmosinfoniche in tutte le sedi Rai. Così come non è da escludere che molto del mate- riale destinato all’Orchestra B fosse perfettamente utilizzabile anche dagli organici presenti a Milano. Inoltre stiamo parlando di parti- ture e parti che hanno viaggiato molto: il grosso è tornato a Roma negli anni Ottanta, per poi confluire nuovamente a Torino intorno al 1994, data della fondazione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale.

La carta di identità dell’Orchestra B non era un luogo, ma l’or- ganico, che nella sua combinazione-base si presentava così: due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti, due corni, tre trombe, due tromboni, violini I, violini II, viole, violoncelli, contrabbassi,

5. «Radiocorriere», 3 gennaio 1937, p. 5. 6. Mamma Rai cit., p. 20.

batteria, timpani, arpa e pianoforte. In pratica la formazione usava come superficie d’appoggio gli strumenti della scrittura sinfonica tradizionale, ma ricorreva sistematicamente anche alla batteria (da intendere come sezione ritmica variabile, spesso del tutto assimi- labile all’omonima parte di un complesso jazz), all’arpa, che come abbiamo visto era diventata una sorta di continuo del nuovo lin- guaggio ritmosinfonico, e al pianoforte. Quest’ultimo era il vero elemento discriminante delle orchestre “leggere”, vale a dire una parte-giuda, che poteva anche non essere suonata (spesso nella parte compare l’indicazione «pianoforte ad libitum»), ma che faceva da surrogato alla partitura del direttore d’orchestra: l’indicazione piut- tosto minuziosa dei vari timbri e delle relative entrate lo conferma. Chi si sedeva al pianoforte, di fatto, rilevava il ruolo del maestro concertatore, dettando i tempi e i modi espressivi dell’intera esecu- zione. A seconda dei repertori, poi, potevano verificarsi modifiche all’organico: un irrobustimento dei fiati con l’intervento dei saxo- foni (soprattutto nelle pagine più vicine al mondo jazzistico, come quelle scritte da Escobar); spesso anche la chitarra interveniva a dare corpo alla sezione degli strumenti a pizzico (implementabile anche con banjo o mandolini a seconda della produzione scelta); e molto del repertorio tedesco, o ispirato al tango, arricchiva l’organico con il timbro esotico del bandoneon. Erano tutti inserti che senza dub- bio avrebbero stonato in un impianto rigorosamente sinfonico, ma che potevano essere del tutto tollerati, se non incoraggiati, in una formazione nata per alimentare la moda dei nuovi arrangiamenti ritmosinfonici.

Viene da chiedersi come mai a Torino siano nate pressoché in simultanea l’Orchestra B e la Cetra: a occhio sembravano due com- plessi votati all’esecuzione di un repertorio simile. Ma anche qui la spiegazione viene in primis dall’analisi dell’organico: la Cetra aveva un taglio decisamente più vicino a quello delle big band, con una struttura timbrica che ricorreva il meno possibile ai colori più caratteristici del linguaggio colto. Nella sua articolazione essenziale si componeva di tre clarinetti, saxofono, tre trombe, tre tromboni, quattro parti di violini, contrabbasso, batteria, pianoforte, chitarra. Combinazioni come queste erano le stesse dei complessi ameri- cani specializzati nell’esecuzione del repertorio jazzistico: venivano

salvati solo i clarinetti dalla sezione dei legni, gli ottoni erano prota- gonisti, il quartetto d’archi tradizionale era sistematicamente elimi- nato per lasciare solo ai violini il compito di sostenere le altre parti, il pianoforte conduttore era sempre sovrapponibile alla chitarra e le percussioni in evidenza dalla prima all’ultima nota. Approfondi- remo in seguito la questione del repertorio: per ora basti notare quale differenza radicale emerga dall’analisi dei due organici. L’Orchestra B era nata per cercare una mediazione tra le esigenze ritmosinfo- niche e la tutela del grande repertorio colto: per questo il suo orga- nico mescolava le ragioni della big band a quelle della formazione sinfonica. La Cetra invece era nata per dare voce esclusivamente al nuovo, al repertorio che veniva dall’altra parte dell’oceano, e che si nutriva di un lessico strumentale sconosciuto alle vecchie genera- zioni. Per questo le due formazioni dovevano crescere in parallelo: i loro obiettivi, proprio come i loro organici e con tutta probabilità i loro musicisti, erano differenti fin dall’origine.

Naturalmente tutta questa vivacità non era solo una prerogativa dell’EIAR. La diffusione delle conductorless orchestras, come dicono gli americani, era piuttosto abituale in quegli anni, un po’ in tutti i paesi d’Europa. La conferma viene dalla già citata lettera arrivata da Roma al Centro di Produzione di Torino, assieme alla partitura Fan- dango di Ludwig Müller. L’autore stesso cita nella corrispondenza tutte le orchestre radiofoniche che avevano già messo in reperto- rio quel brano, inviato in quella circostanza all’organico della B: «RIAS di Berlino, Radio di Brema, Radio della Germania Centrale di Dresda, Radio di Assia di Francoforte sul Meno, Gruppo delle Radiotrasmittenti Alpenland di Graz, Unione Radiofonica Olan- dese di Hilversum, Radio delle Germania NordWest di Colonia sul Reno, Radio Bavarese di Monaco, Radio Bavarese Studio di Norim- berga, Società delle Radiotrasmittenti Norvegesi di Oslo, Radio di Saarbrücken, Radio di Strasburgo».7 È una prova di quanto inte-

resse ruotasse attorno al nuovo repertorio ritmosinfonico, soprat- tutto in Germania: musica che piaceva agli ascoltatori, e che favoriva

7. L’elenco è estrapolato dalla lettera già citata del 3 luglio 1952, conservata nell’Archivio storico dell’Auditorium «A. Toscanini» di Torino.

continuamente la nascita di complessi strumentali del tutto analo- ghi all’Orchestra B dell’EIAR.