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L’EIAR occupata dai nazisti Un buco nero della storia

1.4 La musica trasmessa dal circuito Soldatensender Italien

1.4.4 Lo japonisme da alleanza

Alcuni brani del corpus accumulato all’EIAR negli anni dell’occu- pazione documentano uno spiccato interesse per la musica tradi- zionale giapponese. Il fatto, a prima vista, desta un po’ di sorpresa: che se ne facevano i soldati di un repertorio tutto intessuto di minia- ture visive e simbolismi ricercati? L’interesse per il folklore tanto incoraggiato da Goebbels andava tutto nella direzione del patrimo- nio tedesco: il profondo serbatoio a cui attingere per rintracciare le radici della razza ariana. «Un’arte che si separa dal popolo – disse Goebbels nel 1933 all’inaugurazione della Reichskulturkammer33

non ha diritto a lamentarsi se il popolo si separa da essa».34 Ogni

riferimento alle tradizioni musicali straniere andava valutato dun- que con estrema attenzione. Un’opera ricca di allusioni al mondo popolare ceco come Jenůfa di Leoš Janáček nello stesso anno ottenne un’autorizzazione stentata alla rappresentazione presso l’Opera di Dresda. Il commissario deputato a valutare il caso si espresse in maniera piuttosto esplicita in merito alla xenofobia congenita nel pensiero nazionalsocialista: «Non sussistono obiezioni contro la rappresentazione di Jenůfa, tuttavia si dovrebbe raccomandare di avere considerazione per l’estero solo nella misura in cui assuma

33. La Reichskulturkammer era un’organizzazione corporativa istituita dal Mini-

stero della Propaganda e della Cultura Popolare, con la finalità di assicurare la gestione, la direzione e il controllo delle professioni legate alle attività culturali (in seguito sarebbe nato un organo dedicato alla musica, di nome

Reichsmusikkammer).

34. Enzo Collotti, Musica e politica: l’organizzazione musicale del Reich nazista, in

un comportamento amichevole nei confronti della Germania, ciò che al momento attuale non si può affermare nei confronti della Cecoslovacchia».35

Con il Giappone, però, la simpatia c’era fin dal 1933, anno dell’uf- ficiale presa di posizione nei confronti di Stati Uniti e Regno Unito: l’uscita dalla Società delle Nazioni fu un esempio (seguito a distanza di poco tempo dalla Germania) per Hitler. L’Alleanza del 1940 sarebbe stata dunque solo un’ufficiale ratificazione di un’affinità evi- dente già dalla mortificazione successiva al trattato di Versailles. Per questo motivo la considerazione delle tradizioni giapponesi aveva un significato politico, molto prima che culturale, negli anni del Terzo Reich. La diretta partecipazione di Hitler e Goebbels nel 1940 alle celebrazioni per il 2600° anniversario dell’Impero Giapponese è la prova di un interesse esplicito nei confronti di quella tradizione millenaria.36

Ma oltre all’interesse c’era anche il desiderio di rendere omaggio: ci pensò Richard Strauss con la sua Japanische Festmusik, eseguita a Tokyo il 14 dicembre del 1940, a impacchettare il regalo più rappre- sentativo. L’opera è formata da cinque scene per grande orchestra, che alludono ad alcuni immagine simboliche della tradizione giap- ponese: la riva del mare, la festa dei ciliegi in fiore, l’eruzione del vulcano (verosimilmente il Fujiama), il combattimento tra samu- rai e l’inno imperiale. Nella scrittura di Strauss non c’è niente di etnologico, nel senso che Bartók e compagni stavano dando pro- prio negli stessi anni alla ricerca musicale sul campo delle tradi- zioni contadine. Non vi è traccia di materiale folklorico, ma solo un vago esotismo di facciata, che allude a stereotipi e stilizzazioni ormai entrate stabilmente a far parte della cultura occidentale: qual- che colpo di gong, un parco uso delle scale pentatoniche, una luce timbrica abbagliante che si specchia nell’immaginario che l’Europa si era fatta di un impero forte come una pianta secolare. Ma il grosso della partitura procede ricorrendo al linguaggio tedesco del poema sinfonico: corali di ottoni, fanfare, fugati, passaggi cromatici di ispi- razione wagneriana. Strauss fa il suo compitino: realizza una musica

35. Ivi, p. 44.

36. I diari di Goebbels, 1939-1941 cit., p. 217: «Colazione all’ambasciata giapponese per il 2600° anniversario. È presente anche il Führer che è di ottimo umore».

che esprime alla perfezione, a fiati sparati, l’intento di celebrare una potenza gloriosa; e nello stesso tempo allude velatamente al folklore di un paese alleato. Goebbels voleva proprio questo: un omaggio di facciata al Giappone, che tuttavia rimanesse allineato alle esigenze retoriche del regime nazionalsocialista.

Il materiale conservato nell’archivio storico dell’Auditorium «A. Toscanini» riflette in maniera piuttosto fedele questa direttiva. È tutto riservato all’organico ritmosinfonico dell’Orchestra B, ma senza dubbio si riferisce alla programmazione del periodo nazista: lo dimostrano le date e l’origine delle edizioni. La Japanische Suite è un esempio calzante. Lo stesso autore sembra personificare il discorso storico appena fatto: un compositore tedesco, Karl Zimmer, che aveva scelto di farsi chiamare Yoshitomo. In questo modo poteva dare libero sfogo alla sua vocazione esotica, scrivendo pagine ispi- rate, perlomeno sulla carta, al folklore nipponico. Il suo periodo di attività si concluse proprio a ridosso della crescita di Hitler (morì nel 1935 a Berlino), ma fornì un repertorio bell’e pronto per le esigenze della nuova politica estera. La Japanische Suite fu pubblicata nel 1923 per le edizioni Hans Verlag di Berlino; e il materiale conservato a Torino (spartito per pianoforte conduttore e parti staccate) riporta il timbro di un collezionista privato berlinese (Franco Fedeli – Berlin). Il documento dunque giunse all’EIAR direttamente dalla Germania, dove evidentemente aveva ancora una discreta diffusione negli anni Quaranta.

La scrittura della composizione è perfettamente rappresentativa di quell’esotismo appena abbozzato che il regime nazista sfruttava come una carta di alleanza. Il primo brano (Nella casa del tè) parte con una figura all’unisono rigorosamente pentatonica: da sempre la scala più (ab)usata per alludere in maniera stilizzata alla cultura musicale orientale (giapponese, come cinese). Dopodiché si gon- fia di melodia in un episodio Moderato che sembra tratto da una miniatura di Schumann o da una Romanza senza parole di Men- delssohn. Stessa cosa succede nel successivo Mezzanotte sulla riva del fiume Sumida, che si apre con un disegno in modalità miso- lidia (altro stilema con cui l’Occidente per decenni ha amato eti- chettare l’Oriente), per poi aprirsi a uno sfogo lirico che deve senza dubbio qualcosa al linguaggio di Franz Liszt. La Geisha e la farfalla

Fig. 7: Copertina della Japanische Suite di Yoshitomo

continua a mescolare scale pentatoniche e suggestioni romantiche. Mentre il finale, Festa a Tokyo, anticipa quei toni celebrativi un po’ sovrabbondanti che nel 1940 sarebbero stati raccolti ufficialmente da Strauss. Tutto il brano riflette bene l’idea del contenitore folklo- rico, da riempire di oggetti familiari. Succedeva così dai tempi della Madama Butterfly di Puccini, in fondo; ma in questo caso l’esotismo da cartolina non è solo figlio di un pensiero musicale incapace di

andare oltre gli stereotipi assimilati dall’Occidente, è anche figlio di una precisa propaganda politica, interessata a omaggiare un alleato prezioso, senza tuttavia venir meno alle nuove convenzioni imposte dalla Reichsmusikkammer.

Il caso di Die Vision vom Fuji-San è del tutto analogo. Anche qui il compositore è un tedesco (Wilhelm August Lautenschläger) nasco- sto sotto a uno pseudonimo esotico (Albert Ketèlby). E anche qui il folklore di maniera passa attraverso il filtro del linguaggio sinfonico tardo-ottocentesco. La visione del monte Fuji suscita colori e sono- rità abbaglianti, che si concludono in una vera e propria apoteosi a pieno organico. Le pentatoniche e gli unisoni tra numerose parti in spinta rientrano nei cliché del mondo giapponese, osservato con gli occhi dell’artista europeo: qualcosa che ricorda la forza sonora delle orchestre di percussioni diffuse in Oriente. Ma l’armonia è tutta figlia del Novecento europeo, in particolare di quella scrittura da orchestra di cabaret, che arricchisce di none e di tredicesime le consuete concatenazioni della grande tradizione colta. Il nazismo incoraggiava lo sviluppo di questo linguaggio, moderno ma nello stesso tempo incorniciato dal classicismo; a patto che i compositori rimanessero dentro i confini di un’armonia, intesa – per usare le parole di Hans Severus Ziegler (il sovrintendente del Nationalthea- ter di Weimar) – come emblema dell’«ordine tonale ariano».37

Resta poi un piccolo corpus di brani italiani ispirati alla cultura giapponese. Come si diceva sopra, i delegati nazisti cercavano di lasciare spazio alla produzione di casa, a condizione di verificare un allineamento con gli schemi estetici imposti dal regime. L’occupa- zione doveva comunque dare l’impressione – perlomeno sulla carta – di non schiacciare la cultura musicale locale. In questo caso il rife- rimento al folklore giapponese era sufficiente per stabilire un legame esplicito con una direttiva tedesca; anzi, il reperimento di questo materiale anche al di sotto delle Alpi non faceva che rafforzare il valore dell’alleanza tra i paesi opposti alle forze anglo-americane. Ecco perché il fondo in questione comprende anche Giapponese di Aldo Cantarini (1939), Poemetto sinfonico giapponese di Umberto

37. E. Collotti, Musica e politica: l’organizzazione musicale del Reich nazista cit., p. 56.

Candiolo (1929) e la Gran Marcia Giapponese “Nel Giappone” di Luigi Ganne per banda (1910). Tutta musica nata nella prima metà del Novecento, sulla scia di un interesse modaiolo per la cultura orientale, ma che in quel periodo divenne un ottimo strumento poli- tico nelle mani dei nuovi leader.