• Non ci sono risultati.

Specialisti e collaboratori occasionali dell’Orchestra B

Trucco e parrucco del repertorio colto

3.4 Specialisti e collaboratori occasionali dell’Orchestra B

Tra i compositori coinvolti più frequentemente nell’attività dell’Or- chestra B figura Vincenzo Davico. Il nome è uno dei più internazio- nali tra quelli presenti nel fondo: un compositore nato nel Principato di Monaco (nel 1889), formatosi tra Torino e Lipsia, dove completò gli studi sotto la guida di un musicista illustre quale Max Reger, sele- zionato da Arturo Toscanini nel 1911 (nell’ambito di una competi- zione indetta dall’Augusteo di Roma) per una composizione densa di suggestioni impressioniste, autore di opere basate su liriche di Verlaine o Flaubert, nonché residente a Parigi per più di un ven- tennio (1918-1940). Senza dubbio la sua presenza in EIAR (poi alla

Rai), dove fu dirigente per alcuni anni a partire dal 1940, portava una ventata di aria europea ai musicisti al servizio dell’emittente. E la radio gli fu riconoscente, programmando spesso le sue compo- sizioni, e affidandogli spesso la bacchetta in occasioni importanti. Per l’organico dell’Orchestra B Davico arrangiò alcuni lavori tratti dal suo catalogo: due brani per quartetti d’archi intitolati rispettiva- mente Omaggio a Corelli e Omaggio a Schumann (gli originali risal- gono al 1908, ma le trascrizioni sono datate 1943), diverse liriche per voce e orchestra, e una breve suite intitolata Miniature romantiche. Quest’ultima è forse la pagina più curiosa. Risale al periodo della formazione a Lipsia sotto la guida di Max Reger (la data della prima stesura è ancora il 1908); mentre l’arrangiamento manoscritto, rea- lizzato dallo stesso autore, è senza dubbio nato per le esigenze della Rai. La conferma viene dallo spiritoso sottotitolo che compare sulla prima carta della partitura manoscritta: «Piccola suite apposita- mente ridotta per il “disorganico” dell’orchestra B della R.A.I.». Il riferimento al nuovo nome dell’ente radiofonico ci consente di asse- gnare una data post quem alla partitura: senza dubbio il 1944, anno di nascita della Rai. Mentre l’ironia della parola ‘disorganico’ non va certo legata a un’eventuale incompetenza dei musicisti, ma piuttosto a una creatura strumentale un po’ strana, soprattutto agli occhi di un compositore dalla formazione rigorosamente classica come Davico.

La suite si compone di dieci brani, che nelle intenzioni dell’autore dovrebbero alludere alla cultura musicale romantica. L’estrema sin- tesi delle varie pagine (l’intera composizione doveva durare meno di un quarto d’ora) sicuramente ci porta con il pensiero alla grande tradizione delle forme brevi, di cui Robert Schumann era stato un maestro assoluto (non a caso, Davico nello stesso anno aveva scritto il già citato Omaggio a Schumann). Inoltre l’Adagio molto espres- sivo deve molto alla tradizione tedesca della romanza senza parole, la Marcia religiosa è tutta basata sulla scrittura del corale (prediletta dalla generazione romantica), e il Waltzer riconduce allo stesso genere a cui Chopin e Weber avevano dedicato decine di pagine memorabili. Ma la scrittura sembra risentire già di quelle influenze francesi che avrebbero inserito Davico tra i grandi imitatori della scuola impressionista: soprattutto per l’attenzione alle nozioni di

movimento e di liquidità che contraddistinguono molti passaggi della suite.

Miniature romantiche va ricordato però soprattutto per l’ultima pagina, una fuga contrassegnata da un N.B. che permette – ancora una volta – di individuare nell’archivio della Rai un forziere di fonti preziose:

N. B. Questa fuga mi fu assegnata come “compito di orchestrazione” dal mio Maestro MAX REGER. La sola chiusa finale, colla ripetizione del “Preludio” è mia. V. Davico

Questa indicazione significa pertanto che il brano conclusivo della suite riporta una fuga inedita dello stesso Max Reger. Certo, si tratta di un lavoro scolastico, scritto con la chiara finalità di offrire a un allievo pane su cui farsi i denti dell’orchestratore. Ma è comunque un testo che mette in risalto tutta l’arte contrappuntistica del maestro tedesco, fatta di una straordinaria sintesi tra la rigorosa devozione nei confronti della lezione bachiana e il dinamismo emotivo tipico

del linguaggio tardo-romantico. Proprio quest’ultima caratteristica rende perfettamente consequenziale la scelta fatta da Davico di inse- rire, su un ‘ff grandioso’ la ripresa del Preludio iniziale: quel tipico procedimento ciclico che i compositori di fine Ottocento, a partire da César Franck, avevano sempre cercato di usare nella fuga, per trovare un punto di contatto con la fisionomia narrativa della forma sonata e del poema sinfonico. Nel 1908 quel pensiero non era ancora invecchiato e la scelta dell’arrangiatore testimonia un felice assorbi- mento di quella maniera, che a cavallo tra i due secoli, era diventata un’ultima chance per la forma barocca della fuga. Evidentemente la natura poliedrica e onnivora dell’Orchestra B, anche dopo la guerra, poteva ospitare lavori dichiaratamente rétro come questo.

Tito Petralia è un altro musicista ricorrente in questo fondo dell’Archivio Rai. Il suo nome difatti non è solo legato alla dire- zione dell’organico, come si diceva, ma anche a un ricco corpus di composizioni e trascrizioni nate appositamente per le esigenze dell’Orchestra B. Sono ben 151 i brani del fondo che documentano una qualche forma di responsabilità da parte di Petralia (come com- positore, arrangiatore o dedicatario). Le composizioni originali nella maggior parte dei casi appartengono al genere della canzone per voce e complesso strumentale. Molti lavori rientrano nel filone della suite sinfonica a partire da colonne sonore cinematografiche (Nebbia sul mare, Amicizia, Antonio Meucci, Al Gatto Bianco). L’e- sposizione di una fuga a quattro parti per coro misto denota una certa confidenza anche con la scrittura contrappuntistica, nono- stante il documento sia palesemente incompiuto e forse sia nato per le esercitazioni dell’organico corale dell’EIAR. Mentre gli arrangia- menti sono perlopiù applicati alla produzione dei compositori con- temporanei legati all’attività musicale dell’EIAR: Vincenzo Fiorillo, Domenico Savino, Annibale Bucchi, Amedeo Escobar, Bruno Was- sil. C’è solo un caso in cui la mano di Petralia finisce su un brano della grande tradizione colta: si tratta dell’Humoresque op. 101 n. 7 di Antonín Dvořák. La pagina, pur facendo parte di una raccolta pia- nistica, stimola da sempre arrangiamenti per altri organici: celebre in particolare quello firmato nel 1914 da Fritz Kreisler per violino e pianoforte. Petralia in questo caso realizza una trascrizione per ampio organico che coinvolge tutte le principali parti dell’Orchestra

B nella sua formazione-base: flauti, oboi, clarinetto, fagotto, corni, trombe, tromboni, percussioni, arpa, archi. La scrittura della rivi- sitazione si allinea agli standard che ormai abbiamo descritto più volte a proposito di questa produzione: Petralia svolge il suo com- pito di arrangiatore al servizio delle esigenze radiofoniche, affidando all’arpa – come al solito – l’ossatura del pezzo, lasciando in evidenza la melodia principale nei violini e nei legni, dando un certo peso alle percussioni, e cercando di rispettare nella maniera più fedele possibile la scrittura contrappuntistica di Dvořák. La sua tecnica di orchestratore è dunque ben subordinata alle esigenze dello stru- mento radiofonico, inteso come collettore di forze da offrire in pasto a un pubblico abituato a familiarizzare con il repertorio colto pas- sando attraverso alcune tinte prestabilite.

Anche Illuminato Culotta compare spesso nel catalogo del fondo «Orchestra B». Nel capitolo precedente abbiamo analizzato il suo apporto al repertorio dell’Orchestra Classica, in particolare a propo- sito degli arrangiamenti da Scarlatti. C’è però tanta musica passata sotto le sue cure anche in questa sezione dell’archivio. Diverse pagine sono direttamente tratte dal suo corpus di composizioni originali: Quadretti napoletani, Quadretti siciliani, Mattinata fiorentina, Boz- zetti montani, Castello medievale, Chitarrata alla luna, Festa di ven- demmia in Sicilia. Tutti brani da riferire alla tradizione del pezzo caratteristico, pensato per stimolare l’immaginazione visiva dell’a- scoltatore. Culotta negli anni Quaranta ripensava ancora alla lezione di Debussy e degli impressionisti: la sua musica è piena di elementi lessicali tipici di quella tradizione musicale, dalle scale modali alle pentatoniche, passando per gli accordi alterati e un abbondante uso delle settime maggiori. Del resto stiamo parlando di un musicista che aveva iniziato la sua carriera proprio nel nord dell’Europa. Ma ci metteva anche del suo, mescolando quel linguaggio alla schiet- tezza melodica della tradizione popolare, alternando momenti di notevole complessità armonica a movimenti di danza che sembrano appena usciti da una festa di paese.

Anche negli arrangiamenti Culotta cercava i colori della produ- zione francese: quella predilezione per le mezze tinte, per la fram- mentazione timbrica e per l’orchestrazione per punti che Ravel e Debussy avevano insegnato a tutto il Novecento. Nella riduzione per

piccola orchestra del Carillon magico di Riccardo Pick-Mangiagalli, Culotta usa gli archi con sordina, proprio per dare l’impressione che la melodia filtri attraverso una specie di liquido amniotico che vibra continuamente in terzine, ricorre spesso alla celesta sfruttando i lampi di luce che lo strumento è sempre in grado di dare nelle par- titure dei compositori francesi, cerca di dare tanti colori diversi alla melodia principale, e alterna sovente accordi degli archi a impasti di legni rifiutando la nozione di continuità timbrica. Tutte scelte che avevano fatto scuola nella Parigi di inizio Novecento, e che negli anni Quaranta suonavano inevitabilmente sorpassate. La trascri- zione di Colore orientale di Giuseppe Martucci è poi molto attenta a cogliere tutte le suggestioni orchestrali contenute nella pagina pianistica: accenni di fanfara assegnati ai tromboni, scintille demo- niache lasciate agli striduli trilli dei legni acuti (proprio come nel finale della Sinfonia fantastica), e passaggi a quattro parti affidati alla scrittura del quartetto d’archi. Non sono rari poi i momenti in cui Culotta cerca anche di sperimentare: quando l’idea principale viene sporcata da un trillo degli ottoni, la pagina rileva lo stesso senso di confusione che gli impressionisti e i simbolisti privilegiavano nella loro musica. E anche una composizione così densa di suggestioni contadine e popolari come la Suite siciliana di Gino Marinuzzi nelle mani di Culotta sembra trasformarsi in un acquerello, che preferisce i colori sfumati alle tinte forti: dialoghi sottovoce tra ottoni castrati dalla sordina, continue vibrazioni negli archi che danno un alone riverberante a tutta la composizione e i colpi di bacchetta magica del sistro, di tanto in tanto, a conferire un aspetto onirico al mondo folk della Sicilia. Senza dubbio erano sonorità déja entendues nel mezzo del Novecento, ma in Italia forse dovevano ancora stufare le orec- chie degli ascoltatori: motivo per cui Illuminato Culotta divenne un punto di riferimento della produzione destinata all’Orchestra B, riuscendo a ritagliarsi un posto tutto suo nel panorama degli arran- giatori al servizio dell’EIAR. Il materiale su cui Culotta lavorava era lo stesso che passava nelle mani dei suoi colleghi, ma il taglio delle sue orchestrazioni era molto raffinato, e faceva leva su una serie di impasti timbrici che ormai avevano sfondato anche al di sotto delle Alpi: la conferma viene dall’incremento di esecuzioni tratte dal

repertorio di Debussy e Ravel, proprio nella cronologia delle orche- stre sinfoniche tra gli anni Trenta e Quaranta.

Accanto a questi habitués del genere ritmosinfonico, il fondo «Orchestra B» documenta anche alcune collaborazioni sorpren- denti. È il caso di Ruggero Maghini, docente storico del Conservato- rio di Torino per una materia severa come Armonia e Contrappunto, ma soprattutto direttore del coro Rai di Torino dal 1950 alla morte (1977). Il suo nome di solito si associa alla produzione dell’orche- stra sinfonica, e quindi alla concertazione corale del grande reperto- rio colto. Eppure Maghini aveva anche un debole per generi meno impegnati: alla SIAE risultano depositate 43 sue canzoni, una delle quali (Vecchio boxeur) è stata portata al successo da Fred Busca- glione nel 1958. E l’archivio Rai conserva ben due partiture mano- scritte destinate all’attività dell’Orchestra B: uno Scherzo sinfonico che ha tutta l’aria di essere il movimento di una sinfonia non com- pletata, e una Marcetta di tre pagine che probabilmente nacque per un’occasione specifica.

Fig. 20: Firma autografa di Ruggero Maghini su una partitura dell’archivio Rai

In entrambi i casi Maghini dimostra una certa distanza dagli arrangiatori doc del repertorio. Benché l’organico sia lo stesso (legni, ottoni, arpa, pianoforte e celesta), la scrittura orchestrale è molto vicina a quella del linguaggio sinfonico: la batteria è sostituita dal timpano, il pianoforte abbandona il ruolo di strumento conduttore per rimanere confinato in una posizione concertante, l’arpa non è affatto la spina dorsale della composizione, ma interviene solo per dare un po’ di colore ad alcune transizioni (in particolare con i tipici

‘glissando’ del suo spettro sonoro) e gli ottoni (sempre solo a due) evitano le sparate tipiche del genere ritmosinfonico. Le due pagine sembrano scritte per orchestra sinfonica, piuttosto che per il «disor- ganico» della formazione B.