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Due contesti internazionali a confronto nell’analisi del mercato del lavoro Come si è già detto l‟analisi comparativa dei due contesti nazionali, verte su question

IKEA E I SUOI AMBIENTI ORGANIZZATIVI NEL MONDO: IL CASO ITALIANO E NORVEGESE

III.3 Due contesti internazionali a confronto nell’analisi del mercato del lavoro Come si è già detto l‟analisi comparativa dei due contesti nazionali, verte su question

istituzionali e socioeconomiche, che comprendono il mercato del lavoro, i sistemi di welfare e aspetti culturali.

Per quanto concerne il mercato del lavoro, Reyneri (2017) propone di analizzarlo non tanto per spiegare la struttura della società, bensì per costituire un punto di osservazione per mostrare il reimmergersi del sistema economico nei rapporti sociali il quale, sembra porre fine al paradigma evoluzionistico dello sviluppo come successione di formazioni economiche e sociali compatte e coerenti. Il processo di modernizzazione si sarebbe dovuto svolgere lungo la duplice linea della differenziazione dei sistemi economico- sociale-politico e del prevalere in quello economico di orientamenti razionali, strumentali ed elettivi contro quelli affettivi, paternalistici e prescrittivi dalla tradizionale vita comunitaria. Quella che si presenta oggi è invece una società eterogenea e segmentata ove al proprio interno convivono comportamenti, strutture sociali, relazioni e modi di produzione che avrebbero dovuto appartenere a diverse e successive fasi economico-sociali. Tutto ciò per dire che segmenti di imprese regolati dalla tradizione dei vincoli familistici e comunitari sono presenti nel cuore delle

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moderne attività produttive. In merito a ciò, le ricerche sul lavoro giovanile e femminile hanno rilevato l‟importanza dell‟identità, dell‟affettività e dell‟appartenenza per spiegare i comportamenti sul mercato del lavoro (Reyneri:2017). Di costruzione sociale del mercato del lavoro se ne può parlare anche in un‟ottica comparativa a livello internazionale al fine di accettare e rendere evidente l‟ipotesi secondo cui i comportamenti di chi domanda e di chi offre lavoro, sia i loro rapporti, sono profondamente influenzati da fattori sociali, culturali e istituzionali.

Il mercato del lavoro è costituito da occupati, disoccupati e inattivi: Un soggetto per essere definito occupato deve percepire reddito, produrre beni e servizi utili, avere riconoscimento sociale e personale. Le convenzioni internazionali definiscono occupate tutte quelle persone con un impiego salariato, sia quelle che svolgono un lavoro indipendente per loro e la loro famiglia, un limite di queste convenzioni internazionali è ritenere sufficiente aver lavorato un‟ora la settimana per essere considerati occupati; i disoccupati invece, sono coloro che non hanno un‟occupazione ma ne sono alla ricerca, sono disposti ad accettare un lavoro e sono registrati negli uffici pubblici per l‟impiego (quest‟ultimo aspetto non è tanto presente in Italia); l‟inattivo invece è colui che è escluso perché non è né occupato né disoccupato.

Sempre secondo Reyneri (2017), vi è <<un‟area grigia tra disoccupazione e occupazione>>, tale linea di demarcazione tra occupati e disoccupati scompare nel momento in cui si prende in considerazione il fatto che quasi tutti i lavoratori occupati vanno in contro a insoddisfazione che a volte sfocia nella ricerca di un nuovo lavoro. Tutto ciò ha delle conseguenze che si esplicano in assenteismo, passività e frustrazioni. Se si presenta l‟occupazione come una massa di persone male occupate cessa la distinzione tra occupati soddisfatti e disoccupati insoddisfatti. Quanto detto non solo è importante sul piano psicologico, bensì anche per gli equilibri del sistema socio- economico.

Passando dai concetti alle rilevazioni statistiche, l‟Italia è tra i paesi in cui, rispetto agli altri paesi europei, a un minor tasso di occupazione si accompagna un‟elevata penalizzazione di genere. Il mercato del lavoro italiano presenta una debole o troppo recente presenza di donne in cerca di occupazione le quali, non sono considerate fonti di disagio rispetto all‟uomo, dato dal fatto che predominano gli orientamenti tradizionali verso le donne, per cui tra gli italiani si raggiunge le più alta percentuale di chi ritiene

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che gli uomini abbiano più diritto al lavoro delle donne e che quest‟ultima, debba assolvere i ruoli di madre piuttosto che quelli di lavoratrice per cui la disoccupazione femminile è percepita meno rilevante di quella maschile. Secondo un‟indagine dell‟eurobarometro del 2007 l‟Italia è il secondo paese europeo (dopo la Grecia) in cui è meno nota l‟esistenza di una legge contro le discriminazioni di genere nel momento dell‟assunzione12

. Nonostante le disoccupate italiane presentino un employment commitment uguale a quello degli uomini, come in tutti i paesi europei, le donne italiane sono soggette a una scarsa pressione sociale nel trovare un lavoro. Ancor più che per genere il tasso di disoccupazione varia per età. Tuttavia, nonostante i giovani siano solitamente i più colpiti dalla disoccupazione in quasi tutti i paesi europei, l‟impatto della disoccupazione per età è molto differente.

Reyneri (2017) per semplicità, considera i tassi di disoccupazione (maschi%) in alcuni paesi europei che fanno riferimento al 2015 e dai risultati identifica tre diversi modelli: nel primo rappresentato da Italia, Spagna, Grecia e Portogallo il tasso di disoccupazione raggiunge livelli altissimi per i più giovani, scende rapidamente sino a un minimo per i quarantenni e aumenta poco o nulla per gli ultracinquantenni; nel secondo modello, rappresentato da Norvegia, Danimarca, Svizzera, Austria, Olanda e Germania il tasso di disoccupazione dei giovani è poco superiore a quello degli adulti. La stabilità di questo modello si spiega con un fattore istituzionale che si esplica nel sistema di alternanza scuola/lavoro (in Itali è presente da due anni), i paesi che presentano questo modello non solo favoriscono un più rapido accesso dei giovani al lavoro, ma consentono anche di classificare come occupati, sia pure a tempo parziale, molti giovani che ancora studiano; il terzo modello, che comprende Francia, Gran Bretagna, Svezia, Finlandia e Irlanda si presenta invece come una via di mezzo rispetto agli altri due. L‟indice di penalizzazione dei giovani nei paesi europei pone agli estremi l‟Italia nonché il paese ove è maggiore e la Germania ove è minore.

Secondo un‟indagine europea sulle famiglie, avviata nel 2015, l‟80% dei giovani italiani da 20 a 29 anni viveva ancora con i genitori, situazione impensabile nei paesi dell‟Europa centro-settentrionale. La tendenza dei giovani italiani di uscire tardi dalla famiglia di origine si è accentuata maggiormente negli ultimi anni anche sé la distanza

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con gli altri paesi non si è allargata, poiché la percentuale di ventenni che vivono con i genitori è aumentata anche in molti paesi sviluppati, non solo europei. È importante comprendere se la prolungata convivenza della famiglia di origine sia la conseguenza della mancanza di lavoro o se sono i regimi familiari a determinare i diversi equilibri nella distribuzione dell‟occupazione. L‟esistenza di paesi critici in cui la fragilità dei legami familiari è accompagnata dalla scarsa protezione offerta dallo stato sociale per i giovani, portano a pensare a fenomeni indipendenti. I modelli di residenza familiare non sono del tutto determinati né da regimi di protezione sociale, né dalle opportunità di lavoro poiché i processi che interessano norme culturali e istituzioni politiche sono complessi e affondano le proprie radici nella storia di un paese. Per quanto riguarda l‟Italia, se dà un lato il prolungamento della convivenza nella famiglia di origine ha un‟antica tradizione confermata dal fatto che è il paese europeo in cui meno famiglie considerano l‟indipendenza dei figli una qualità importante, dall‟altro la permanenza in famiglia sembra sempre meno una scelta dei giovani e sempre più una costrizione economica. È possibile collegare la combinazione stato sociale e famiglia alla capacità di creare occupazione, la sequenza può essere così declinata: un forte familismo comporta una scarsa partecipazione delle donne al lavoro retribuito e quindi bassi livelli di occupazione totale che dipende essenzialmente da quelli femminili; poche occasioni di lavoro, da un lato generano scarse risorse per finanziare il welfare state e dall‟altro impongono che sia assicurata una maggiore sicurezza occupazionale al maschio adulto nonché il breadwinner, colui che guadagna per tutta la famiglia. Le grandi differenze dei modelli nazionali di disoccupazione secondo la posizione in seno alla famiglia sono confermate dalla composizione della disoccupazione che mostra una situazione consolidata nel tempo. In merito a quanto detto, in Italia il 40% delle persone in cerca di lavoro è costituita da figli che vivono con i genitori mentre i capifamiglia sono più del 30%, mentre la Norvegia si trova in una posizione intermedia rispetto agli altri paesi europei, con una quota dei disoccupati capifamiglia tra il 40-50% mentre quella dei figli si aggira sul 24-29%. In Italia neppure il 2% delle persone in cerca di lavoro vive da solo, per contro nei paesi nordici oltre la metà dei disoccupati vivono da soli. Queste differenze dipendono in larga misura dai modelli di vita familiare che a loro volta possono essere influenzati dal funzionamento dei sistemi di welfare e del mercato del lavoro. Per sintetizzare, i paesi in cui è maggiore la penalizzazione dei giovani sono

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quelli dell‟Europa meridionale nonché quei paesi caratterizzati sia dalla lunga convivenza dei figli con i genitori, sia dalla scarsa generosità degli schemi di protezione del reddito per i disoccupati. Per contro, nei paesi nordici, di cui fa parte la Norvegia, i giovani escono presto dalla famiglia e i sussidi di disoccupazione sono abbastanza generosi e universalistici. Come affermato da Reyneri (2017) l‟Italia e gli altri paesi dell‟Europa meridionale che dispongono di uno stato sociale poco protettivo, sono riusciti a reggere un‟alta disoccupazione solo grazie al fatto che i disoccupati sono per lo più giovani mantenuti dalla famiglia di origine. Oltre alla penalizzazione per genere l‟Italia ha il primato della penalizzazione per età, infatti per quanto riguarda la posizione familiare, in quasi tutti i paesi europei i capifamiglia sono meno soggetti al rischio di disoccupazione, ma in Italia la loro protezione raggiunge livelli estremi <<Quella italiana viene definita disoccupazione di inserimento , poiché colpisce per lo più il momento di inserimento nel mercato del lavoro, mentre chi è riuscito finalmente a trovare lavoro il rischio di perderlo e non trovarne un altro è particolarmente modesto>> (Reyneri:2017). Nonostante la sua affermazione piuttosto ottimistica, le crisi cicliche e strutturali degli ultimi anni mostrano che anche in Italia è possibile perdere il lavoro (Reyneri:2017).

E la flexicurity?

Il grado di protezione dell‟occupazione nei diversi paesi europei rappresenta un altro contributo all‟analisi delle differenze tra i modelli di disoccupazione in Europa. Nel corso del primo capitolo, si ha avuto modo di analizzare il passaggio storico dal sistema di produzione fordista che premia la stabilità, a quello dell‟appropriatezza ove domina invece la capacità di essere flessibili per rispondere all‟incertezza. Ma quali sono state le conseguenze nel mercato del lavoro? Secondo le indagini sulle forze di lavoro l‟Italia risulta il paese europeo con la più alta percentuale di lavoratori con una lunga durata dell‟occupazione. Nonostante il paradigma della flessibilità abbia orientato molte analisi, ormai la conclusione è che le norme giuridiche o contrattuali a tutela dell‟occupazione hanno scarsi effetti sul livello generale della disoccupazione. Pertanto, l‟affermazione che la disoccupazione italiana è alta perché il mercato del lavoro è troppo rigido trova scarso fondamento, ma ciò non significa che una maggiore protezione dell‟occupazione non abbia conseguenze (Reyneri:2017).

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sostenere il reddito. Tali sussidi si fondano su due principi differenti, assicurativo e assistenziale. I primi vengono erogati per un risarcimento dei danni subiti a causa di una rottura del lavoro e sono proporzionati ai contributi versati e prescindono dalle condizioni economiche (sono vincolati a un comportamento di ricerca in una nuova occupazione da parte del lavoratore), i secondi invece sono finanziati dal sistema fiscale e sono erogati in base al bisogno il quale, deve essere verificato mediante la prova dei mezzi. In Italia, contrariamente a tutti i paesi europei, prima della riforma degli ammortizzatori sociali inclusa nel jobs act varato nel 201513, non esisteva un sistema universalistico di protezione del reddito per chi aveva perso il lavoro. Questa riforma modifica profondamente questo assetto, avvicinandolo a quello degli altri paesi europei infatti, la nuova indennità di disoccupazione è rivolta a tutti i dipendenti e non si escludono più, rispetto al passato, i lavoratori precari (Reyneri:2017).

Nel 2007 la commissione europea ha aderito ai principi della flexicurity14, già formalizzati dall‟OCSE (organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e li ha proposti come linee guida, per le politiche del lavoro, ai paesi europei. Questo approccio, che mira a combinare i vantaggi della flessibilità per le imprese e la sicurezza per i lavoratori, si articola in tre principi:

1. Grande flessibilità nel mercato del lavoro: pochi vincoli e bassi costi da parte delle imprese per licenziare i lavoratori; alta mobilità dei lavoratori in entrata e in uscita dall‟occupazione; elevata flessibilità degli orari di lavoro giornalieri e settimanali;

2. Solido e protettivo sistema di sicurezza sociale: indennità di disoccupazione generose e di lunga durata; sussidi assistenziali meno generosi e senza scadenza per coloro che sono privi di mezzi;

3. Pervasivo ed efficiente sistema di politiche attive del lavoro e della formazione: diffusi ed efficienti servizi pubblici per l‟impiego; vasta gamma di misure per il reinserimento di soggetti che hanno perso il lavoro (Reyneri:2017).

Grazie a questi tre principi (triangolo flexicurity) dovrebbe innescarsi un circolo virtuoso in cui grazie alla flessibilità della forza lavoro, anche molto qualificata, le

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imprese sono più produttive e dunque più nelle condizioni di sostenere sia un forte prelievo fiscale sia costose misure di formazione le quali, consentono di tenere i lavoratori aggiornati professionalmente e di reinserirli rapidamente qualora perdano il lavoro.

Il modello di riferimento della flexicurity si afferma in Danimarca, consentendo di raggiungere in questo paese una bassa disoccupazione accompagnata da un alto tasso di occupazione e un forte turnover della forza lavoro. Tra le condizioni che ne hanno favorito il funzionamento è possibile riscontrare l‟elevata qualità professionale della domanda di lavoro, la presenza di famiglie a doppio reddito che contribuiscono a rendere poco traumatica la perdita di lavoro, il diffuso spirito civico che ha impedito comportamenti opportunistici da parte dei disoccupati (come ad esempio lavorare a nero). Va precisato però che la colpa o il merito non è solo dei disoccupati poiché contano anche i comportamenti delle imprese e delle istituzioni nonché le condizioni di sicurezza sociale e il clima di fiducia che ne derivano. Per misurare quanto l‟Italia dista dal modello della flexicurity, la commissione europea in una sua pubblicazione mette in luce come in Italia prevale una domanda di lavoro poco qualificata e poco retribuita e le famiglie con un solo precettore di reddito sono ben un terzo, mentre per quanto riguarda il rispetto delle regole quasi tutte le indagini pongono l‟Italia al livello più basso. Da ciò si evince come in Italia, il cammino verso la flexicurity sia lungo e pieno di ostacoli. La sicurezza dell‟occupazione è un obiettivo politico sempre più importante in Europa infatti nella comunicazione della commissione europea sulla flessibilità l‟accento è dare più sicurezza al lavoro (Reyneri:2017).

I profeti della società del rischio, discussi da Robert Castel (2011) ne l‟insicurezza sociale, hanno enfatizzato una drammatica diffusione del sentimento di insicurezza al lavoro che molte volte viene associata alla flessibilità. Questo ultimo aspetto è stato anche discusso nel primo capitolo facendo emergere i pensieri di autori con visioni positive e negative sul tanto discusso e attuale tema della flessibilità dell‟occupazione. A tal proposito, è opportuno distinguere tre termini, molte volte utilizzati come sinonimi, che descrivono situazioni diverse quali, instabilità, precarietà e insicurezza. Con il primo termine ci si riferisce all‟aspetto giuridico dell‟occupazione, per cui sono instabili i lavori a termine, quelli pienamente dipendenti e quelli dipendenti solo economicamente, con il secondo si fa riferimento ai rapporti di lavoro che nonostante

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siano a tempo indeterminato hanno breve durata. Ad esempio, può accadere che una persona non lavori continuamente, alternando brevi rapporti di lavori, anche tutti stabili, a periodi di disoccupazione. Infine, va distinta la dimensione soggettiva, poiché il sentimento di insicurezza del proprio lavoro può non essere strettamente connesso, né all‟instabilità né alla precarietà. Ovviamente questa percezione può dipendere dalla generale sensazione di insicurezza che pervade la società, tuttavia le stime della percezione dell‟insicurezza del lavoro da parte degli occupati forniscono un quadro più articolato (Reyneri:2017).

Per quanto riguarda i determinanti dell‟insicurezza soggettiva gli studiosi Ervasti, Andersen, Friedberg, Ringdal (2012), nei loro studi condotti, avanzano varie ipotesi su detti determinanti. Gli studiosi parlano proprio di insicurezza cognitiva relativa alla perdita di lavoro, quest‟ultima sarebbe influenzata da due generali ordini di fattori: l‟insicurezza oggettiva, nonché l‟effettiva possibilità di perdere il lavoro e rimanere senza reddito; l‟insicurezza effettiva, nonché le ripercussioni della perdita di lavoro, che nella maggior parte dei casi si ripercuotono nella famiglia e sulla vita personale in generale. Tutto questo secondo gli studi rafforza la consapevolezza del rischio. Gli studiosi inoltre si chiedono se le indennità di disoccupazione esercitano una certa influenza nella maggiore o minore percezione del rischio (perdita del lavoro). Quanto detto è stato valutato empiricamente. Dalle statistiche emerge che: l‟Europa presenta rilevanti differenze nazionali in cui è possibile identificare il gruppo costituito dall‟Europa meridionale, che presenta un‟elevata percentuale di chi ritiene probabile perdere il lavoro e una bassa percentuale di chi pensa che potrebbe facilmente ritrovarne uno simile a quello perso, e il gruppo comprendente gli altri paesi europei i quali, presentano una bassa percentuale di chi ritiene probabile perdere il lavoro, e un alta percentuale di chi pensa che potrebbe facilmente ritrovarne uno simile (Ervasti, Andersen, Friedberg, Ringdal: 2012).

Inoltre, poiché il sistema delle indennità di disoccupazione determina le condizioni di vita dei disoccupati, gli individui temeranno la disoccupazione di più se vivono in un paese con un regime di indennità di disoccupazione basso, invece coloro che vivono in paesi in cui vi sono generosi regimi di indennità di disoccupazione non temono tanto la perdita di posti di lavoro. Molti studiosi, hanno esaminato questa relazione empiricamente. Bockerman (2004) esaminando i dati Eurobarometro per il 1998 e

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Pacelli (2008) utilizzando i dati in tutta Europa per l'anno 2005, hanno scoperto che le generose indennità di disoccupazione sono positivamente correlate con percezioni dei lavoratori sull'occupazione e la sicurezza del lavoro. Inoltre anche andearson e Pontusson (2007) hanno dimostrato che nei paesi con generose indennità di disoccupazione, gli individui temono meno la perdita di posti di lavoro.

In Norvegia al 2008 il tasso di disoccupazione rispetto agli altri paesi Europei si presenta relativamente basso (3%) (Ervasti, Andersen, Friedberg, Ringdal: 2012).

Gli aspetti appena discussi sul mercato del lavoro in Italia e Norvegia sono utili in quanto consentono di far luce sulla relazione tra questi e il benessere organizzativo che si andrà ad analizzare. Come si ha già avuto modo di notare i modelli di disoccupazione variano nei differenti contesti europei. l‟Italia rispetto alla Norvegia presenta un alto tasso di disoccupazione e quest‟ultimo è ancora più alto per i giovani. Inoltre le istituzioni preposte per l‟inserimento al lavoro (centri per l‟impiego) in Italia non si presentano brillanti, per cui non vi è un‟adeguata mediazione tra chi domanda e chi offre lavoro. Ciò che si vuole dire è che tutto questo potrebbe influenzare il grado di percezione di sicurezza e insicurezza dei lavoratori Ikea in Italia e Norvegia, avendo conseguenze sul proprio benessere.