IKEA E I SUOI AMBIENTI ORGANIZZATIVI NEL MONDO: IL CASO ITALIANO E NORVEGESE
III.4 I sistemi di Welfare State: uno sguardo all’Europa
Con Il termine welfare state si fa riferimento a un sistema politico, sociale ed economico ove lo stato assume la responsabilità della promozione e della sicurezza del benessere sociale ed economico dei suoi cittadini. Diversi studiosi ne danno una loro definizione, tra le tante il politologo Ferrara lo definisce come l‟insieme delle politiche pubbliche le quali, sono connesse al processo di modernizzazione (Ferrara:2012). Letteralmente, come scrivono Rancy e Pavolini (2015), l‟espressione identifica nel <<benessere>> dei cittadini, il fine ultimo del welfare state nonché proteggere i cittadini dai rischi sociali (malattia, povertà, assenza di lavoro etc.) e promuovere migliori condizioni di vita mediante: una riduzione delle disuguaglianze sociali attraverso sostegni economici; pari opportunità tra i cittadini attraverso servizi sociali, sanitari ed educativi. Tramite queste politiche lo stato è in grado di fornire ai cittadini protezione contro svariati rischi e bisogni che solitamente sfociano in assistenza, assicurazioni e
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sicurezza sociale. Dunque, gli interventi creano da un lato i diritti sociali, dall‟altro i doveri di contribuzione a livello finanziario (Ferrara:2012). La capacità di produrre benessere da parte dello stato non è data solo da scelte politiche, bensì anche economica. Dalle scelte economiche dipendono la qualità e la quantità delle risorse disponibili in una data popolazione e dalle modalità in cui la stessa società, contribuisce a garantire protezione e sicurezza. Secondo Ferrara, il benessere complessivo di una società è dato dalla co-partecipazione di più istituzioni, quali stato, famiglia mercato e associazioni intermedie, Infatti lo studioso parla proprio di diamante del welfare, in cui le diverse istituzioni concorrono insieme alla produzione di benessere (Ferrara:2012). Da un punto di vista storico si possono classificare cinque fasi che hanno segnato lo sviluppo del welfare state: la fase di sperimentazione (1870-1914), in cui emergono leggi nazionali finalizzate all‟avanzamento sociale; la fase di consolidamento, tra le due guerre (1914-1940), in cui si va sempre più definendo un insieme strutturato di politiche sociali (assicurazioni sociali, occupazione istruzione etc.,) che accettano i nuovi principi dell‟economia keynesiana; nella fase di espansione (1940-1980), si registra un aumento della spesa sociale e una crescita del deficit pubblico, tutto ciò è avvenuto nell‟Europa occidentale, un contesto di sviluppo economico senza precedenti; nella fase di istituzionalizzazione (1970-1980) vi è un‟enorme diffusione della copertura dei rischi, la donna si confronta con il doppio lavoro e la doppia presenza (lavoro-famiglia), si espande la dimensione del mercato. In questo periodo lo stato assume una posizione centrale, che vede la spesa sociale crescere e allo stesso tempo si gettano le condizioni per la crisi stessa dello stato sociale (già discussa nel corso del primo capitolo). Il problema è legato alla sostenibilità economico-finanziaria del welfare nei paesi europei; infine vi è la fase di rallentamento(1980-1990), in cui l‟obiettivo primario degli stati era il contenimento dei costi (Albert J.:1983).
Negli studi di social policy si possono distinguere tre modalità di classificazione rispetto ai modelli di stato sociale. Lo studioso Titmuss focalizza la sua classifica sul tipo di intervento e sul ruolo dello stato, in cui dunque si vanno a definire chi sono i soggetti che ne hanno diritto. Espin Anderson invece intende il welfare una <<costruzione storicamente definita>>, che ha lo scopo di strutturare il contratto sociale tra i cittadini e lo stato in una società che si presenta a economia di mercato. In sostanza secondo lo studioso il benessere sociale è dato dal modo in cui gli input stato, famiglia e mercato
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vengono combinati tra loro. Sempre lo studioso colse l‟importanza di studiare i principi regolativi con il fine ultimo di spiegare le differenze nei sistemi welfare state. Quest‟ultimo, da solo, non è nelle condizioni di garantire la totale realizzazione del benessere sociale nella società capitalista in quanto alla realizzazione di tale obiettivo concorrono anche il mercato e la famiglia. Le relazioni esistenti tra stato, famigli e mercato differiscono nei diversi paesi, costituendo appunto i <<regimi di welfare>>. I lavori di Anderson hanno rappresentato anche uno stimolo per l‟elaborazione di nuove classifiche da parte di altri studiosi.
Ferrara, elabora nel 1993 i così detti <<modelli di solidarietà>> con i quali analizza le qualità dei sistemi di welfare. La domanda a cui vuole rispondere non è quanto si protegge, bensì chi è protetto. L‟autore, vede come storicamente si sono affermati due modelli di copertura: occupazionale (o Bismark) fondato sul sistema assicurativo che viene finanziato secondo il principio contributivo, e universalistico (o Beveridgiano) basato sul principio di protezione universale e finanziato dalla fiscalità generale. Nel corso del tempo i due modelli hanno incorporato aspetti l‟uno dell‟altro infatti, Ferrara all‟interno dei due modelli di copertura occupazionale e universalistica, distinguere altri due modelli, puri e misti. Quelli puri sono più fedeli agli originali, mentre quelli misti se ne distaccano. I quattro modelli proposti da Ferrara sono: occupazionali puri; occupazionali misti, di cui fa parte l‟Italia; universali misti; universali puri, di cui fa parte la Norvegia. Tutto ciò è stato causato da diversi fattori i quali, si sono presentati in maniera diversa nelle singole realtà territoriali, contribuendo a una diversificazione tra gli stati: globalizzazione economica; livello del debito pubblico; pressione fiscale; cambiamenti demografici; cambiamenti nei sistemi occupazionali e nei processi produttivi; individualismo e privatismo; aumento famiglie monogenitoriali con conseguente aumento dei divorzi; modifiche nel ruolo della rappresentanza sindacale; cambiamenti nel ruolo della donna e della sua presenza nel mercato del lavoro (Ferrara:1993).
L‟attuale fase di redifinizione dei sistemi di welfare ha evidenziato la necessità di ripensare alle tipologie utilizzate per classificarli. In questo processo si è tenuto conto della instabilità e rapidità dei cambiamenti in atto e delle profonde diversificazioni già presenti all‟interno dei singoli stati nazionali. Le diversità all‟interno dei singoli stati nazionali fanno riferimento alle diverse politiche di welfare e non possono essere
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ricondotti ai sistemi politici che caratterizzano i singoli paesi. L‟analisi delle differenze va ricondotta alle dinamiche degli attori in gioco e alla condivisione sulla rilevanza dei rischi sociali (Bertin:2012).
Alcuni contributi, scientifici, hanno cercato di individuare le tendenze in atto e ripensare alla classificazione dei sistemi di welfare. Calozzi (2012) nel rileggere le tipologie utilizzate dai diversi autori alla luce dei nuovi processi in atto, individua dei cambiamenti riconducibili a:
Un‟ impostazione neoliberale, in cui si punta sul mercato al fine di superare la crisi;
Un‟impostazione di tipo cooperativo, in cui vi è maggiore cooperazione fra gli attori (stato, associazioni, enti pubblici-privati e cittadini) sui processi di gestione del sistema di welfare;
Un‟impostazione di tipo societario, un terzo filone, in cui si sperimentano forme di riorganizzazione del sistema di welfare muovendo dalla teoria di welfare societario inteso come coinvolgimento delle comunità locali (istituzioni pubbliche e private, profit e no-profit, servizi relazionali).
La letteratura di social policy distingue quattro modelli attuali di stato sociale presenti in Europa:
Il Welfare liberale (di tradizione Beveridgiana), che comprende Regno unito e Irlanda, mira alla riduzione della diffusione povertà e dell‟esclusione sociale. Per raggiungere tale obiettivo adotta programmi di assistenza sociale e sussidi i quali vengono erogati solo dopo la prova dei mezzi. I programmi pubblici di assistenza sociale sono a carattere universale e l‟azione dello stato è residuale infatti, in molti casi gli interventi sono categoriali ovvero riferiti solo a specifici gruppi di rischio, con un forte dualismo tra cittadini bisognosi e non. Il sistema è caratterizzato dalla prevalenza del mercato come principale agente di socializzazione dei rischi, da un basso livello di demarcificazione15 e da
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Con questo termine, si fa riferimento al grado di dipendenza del cittadino dal marcato del lavoro, ovvero a quanto, entro un determinato regime di Welfare, per una persona la mancanza di lavoro si
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modalità di finanziamento miste. (tramite servizi o interventi monetari);
Il Welfare conservatore (di tradizione bismarckiana) è orientato alla protezione dei rischi di due categorie di persone quali, lavoratori e famiglia. I rischi fanno riferimento a malattia, invalidità, disoccupazione e vecchiaia. Tale modello si caratterizza per una maggiore attribuzione ai valori della famiglia, delle associazioni e del volontariato nei processi di socializzazione dei rischi, prevendo uno stretto collegamento tra le prestazioni sociali e la posizione lavorativa. È evidente notare come questo modello si ispiri al principio di sussidiarietà secondo il quale l‟intervento dello stato avviene solo nella situazione in cui viene meno la capacità della famiglia di provvedere ai bisogni dei suoi componenti. In questo modello di welfare, i sindacati partecipano in maniera attiva al governo. Il processo di demarcificazione è medio poiché, lo stato attenua ma non annulla la dipendenza dal mercato. A tale modello viene riconosciuta anche una destratificazione16 medio-bassa in quando si tende a
preservare le differenze di status, classe e genere;
Il welfare social-democratico, comprende i paesi Svezia, Danimarca e Norvegia (nonché i paesi nordici denominati scandinavi). Questo modello adotta come riferimento prevalente nella programmazione delle politiche sociali il principio dell‟universalismo, ponendosi come obiettivo la protezione non di una categoria di persone, come si è visto nei modelli di welfare precedente, bensì di tutti in modo indiscriminato, in base allo stato di bisogno individuale. Una peculiarità di questo modello risiede nello sforzo attivo a demercificare il benessere riducendolo al minimo la dipendenza dal mercato. Risulta anche molto alta la destratificazione, essendo riconosciuta l‟uguaglianza per tutti i cittadini;
Il Welfare familista, comprende i paesi dell‟Europa meridionale, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo. In questi paesi in cui vige il suddetto modello di welfare, si riscontra un assetto sociale e culturale, che intende la famiglia fornitrice di cura e assistenza ai propri componenti. Questo aspetto è molto interessante in quanto
traduca in perdita di reddito, che si traduce di conseguenza in perdita di benessere. (Emma Garavaglia, Invecchiamento demografico e organizzazione sociale del lavoro: percorsi individuali, policy pubbliche e processi manageriali, Franco Angeli, Milano, 2019 p.56).
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Il termine indica il grado di stratificazione sociale/ integrazione che determinate politiche tipiche di un dato Regime di Welfare generano (Emma Garavaglia, Invecchiamento demografico e organizzazione sociale del lavoro: percorsi individuali, policy pubbliche e processi manageriali, Franco Angeli, Milano, 2019 p.56)
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riemerge l‟aspetto culturale nello sviluppo di determinati modelli. Un contesto segnato dalla storia che influenza il modo in cui si sviluppano aspetti della società. Se ne era già discusso anche nell‟analisi del mercato del lavoro e più nello specifico sulla questione relativa alla donna e al proprio ruolo familiare e lavorativo. Chiudendo questa breve parentesi, in questo modello lo stato ha assunto un ruolo marginale agendo secondo i principi di sussidiarietà passiva, per cui viene riconosciuto socialmente e legalmente il ruolo regolativo delle reti sociali primarie, senza che lo stato lo sostenga in modo attivo tramite i sussidi o trasferimenti monetari. Da quanto detto emerge come l‟intervento pubblico è di tipo residuale per cui i meccanismi di protezione sociale si attivano solo dopo il fallimento o l‟impossibilità delle reti sociali di farvi fronte (fornire assistenza agli individui in condizione di bisogno manifesto). Un sistema del genere determina un ritardo nella creazione di sicurezza sociale. Risulta sbilanciata la demarcificazione in quanto è alta per alcune categorie e bassa per altre, la destratificazione invece, è bassa e presenta nuove differenze trasversali alla struttura delle classi sociali (Paci, Pugliese: 2011).
L‟analisi dei quattro attuali modelli di welfare, presenti in Europa, è utili in quanto ci permette di mettere fuoco il modello di welfare italiano e quello norvegese. I sistemi europei di protezione sociale, come si ha avuto modo di vedere, nascono nel corso della storia sulla base di differenti modelli i quali si ispirano a obiettivi e criteri differenti. È chiaro dunque che in Europa i sistemi di welfare presentano caratteristiche differenti che riflettono il diverso sviluppo e le differenti esperienze storiche, politiche ed economiche dei singoli paesi europei. Ogni singolo paese infatti, ha seguito traiettorie diverse. In sostanza i vari sistemi differiscono fra loro rispetto alla dimensione e alla composizione della spesa pubblica, agli aspetti istituzionali, alla tipologia di prestazioni erogate e ai meccanismi di finanziamento.
È possibile dunque classificare le politiche sociali anche in base degli strumenti utilizzati, alle regole di accesso, alle modalità di finanziamento adottate e agli assetti organizzativi e gestionali. Il modo in cui si realizzano i singoli welfare e l‟insieme dei diritti sociali che garantiscono, plasmano non solo modelli di solidarietà tra famiglia, gruppi sociali e individui, ma creano anche differenti modelli di cittadinanza. I livelli di
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riduzione della povertà differiscono a seconda degli interventi e delle strade che vengono scelte per affrontarla. Inoltre, si strutturano in modo diverso le disuguaglianze all‟interno della famiglia. Per quanto riguarda questo ultimo aspetto, nonché le disuguaglianze all‟interno della famiglia, Reyneri (2017) si sofferma sugli aspetti culturali a monte di tale problema.
<<le italiane sono le donne che dedicano più tempo alle attività familiari in Europa (un‟ora e mezza in più delle svedesi), anche perché, nonostante significativi mutamenti tra i giovani, i maschi dedicano il minor tempo (un‟ora meno degli svedesi)>> (Reyneri:2017:47).
Stante a quanto affermato nel rapporto CNEL17 (del 2017) sul mercato del lavoro, al 2015 il tasso di occupazione femminile in Italia era di 20 punti inferiore rispetto a quello maschile. Inoltre, va ricordato che il tasso di occupazione femminile europeo è mediamente inferiore a quello maschile di circa dieci punti. Rispetto al passato, vi è stato un miglioramento, una rimonta del lavoro femminile avvenuto principalmente negli anni 80 e 90. Già dagli anni 80 lavoravano due terzi delle donne residenti nei paesi scandinavi, mentre un terzo scarso risiedevano nei paesi del sud Europa. Ma l‟aumento dell‟occupazione femminile, è avvenuta parallelamente a un altro cambiamento per la popolazione femminile, nonché la caduta dei tassi di natalità (Ranci, Pavolini: 2015). Non potendo in questa sede discutere dei cambiamenti e dell‟evoluzione del ruolo della donna nella società contemporanea ci limiteremo ad analizzare gli strumenti messi in atto dalle politiche di conciliazione cura-lavoro in un‟ottica comparata, riflettendo successivamente su ciò che potrebbe favorire un incremento dell‟occupazione femminile.
I padri Italiani svolgono meno compiti domestici, ma bisogna tenere in considerazione la loro alta propensione al doppio lavoro. Senza dubbio una equa ripartizione dei compiti relativa alla cura dei figli e della casa agevolerebbe l‟occupazione delle donne. Oltre a ciò un equilibro nella famiglia si può realizzare ricorrendo a un sostegno esterno il quale, può essere pagato o gratuito. A tal proposito tutte le analisi comparative rivelano quanto sia importante la disponibilità dei servizi pubblici di childcare e di congedi parentali, nel favorire l‟occupazione delle donne, maggiormente quelle poco
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https://www.cnel.it/Portals/0/CNEL/MercatoDelLavoro/Rapporti/Report_CNEL_mercato_lavoro_e_contr attazione_15-16_rev.pdf
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istruite, che non possono pagare servizi privati. Se si aggiunge che i paesi con maggiore copertura degli asili nido sono anche quelli con un‟elevata offerta di servizi di cura agli anziani e la spesa pubblica destinata in servizi assistenziali alle famiglie, si vede come il welfare state social democratico dei paesi nordici può favorire l‟occupazione femminile grazie al processo di defamilizzazione, cioè di trasferimento dalla famiglia alla collettività in generale, dei servizi per sopperire ai gravi carichi familiari. Quanto detto ha conseguenze anche nella domanda di lavoro in quanto, la crescita dei servizi sociali ha prodotto un elevata richiesta di occupazione femminile. In Italia, e negli altri paesi meridionali invece, vi è un regime conservatore di welfare state, che considera gli interventi pubblici soltanto sussidiari alla famiglia la quale, ricopre il ruolo centrale di assistere figli, anziani e disabili. Per contro, nei paesi nordici il sistema di assistenza ai bambini è stato creato per favorire la partecipazione delle donne al lavoro e queste ultime sono trattate dal sistema di welfare non tanto come spose, bensì come individui. Da questo punto di vista la posizione dell‟Italia non è brillante, essa presenta una carenza di servizi per i primi anni di vita dei bambini, con conseguente abbandono del lavoro da parte delle mamme le quali, dopo aver lasciato il lavoro hanno difficoltà a rientrare. Tuttavia, per quanto riguarda il congedo di maternità l‟Italia da un lato è abbastanza generosa, dall‟altro presenta dei limiti. Il congedo di maternità obbligatorio è tra i più lunghi e copre l‟80% della retribuzione, mentre il congedo facoltativo è tra i più brevi e copre solo il 30% della retribuzione, dunque l‟indice che misura l‟importanza del congedo di maternità colloca l‟Italia tra i paesi meno amichevoli nei confronti delle madri lavoratrici. Inoltre, solo un numero ristretto di padri, la maggior parte del pubblico impiego, e per brevi periodi utilizzano il congedo parentale, che non è obbligatorio rispetto ai paesi del nord Europa (Reyneri:2017).
Per quanto concerne gli assegni familiari per i figli, l‟Italia presenta una peculiarità non tanto nel loro ammontare, che è nella media dei paesi europei, ma nel fatto che non sono universali: neppure il 20% dei bambini sotto i 12 anni lo percepisce; i limiti di reddito familiare possono disincentivare l‟occupazione delle donne delle famiglie a basso reddito, in particolare nel sud Italia ove i redditi sono più basi e le difficoltà di trovare lavoro sono maggiori (Reyneri:2017).
In Italia coloro che contribuiscono maggiormente all‟ aiuto per la cura dei figli, sono le reti parentali, in particolare i nonni che vivono solitamente vicino ai figli, infatti quasi il
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30% delle madri ricorre a loro per la cura dei figli da 0 a 3. Le donne che dopo la maternità non possono contare su questo aiuto, in alcuni casi abbandonano il lavoro. A sostegno di quanto detto, molti studi mostrano l‟effetto positivo della disponibilità dei nonni, oltre che nel lavoro anche nella natalità delle donne. Per quanto riguarda questo ultimo aspetto In Italia, dal 1970 al 2015 il tasso di natalità si è abbassato da 2,4 figli a 1,35, l‟età del matrimonio si è spostata in avanti, oltre i trent‟anni. La relazione tra numero di figli e partecipazione al lavoro consente di distinguere tre diversi modelli: nei paesi nordici il tasso occupazione rimane invariato anche con 2 o più figli; in quelli anglosassoni il secondo figlio segna una caduta dell‟occupazione della madre; in Italia invece l‟occupazione delle donne non registra un‟alta riduzione per la presenza di figli piccoli poiché il tasso di occupazione in assenza di figli, è già basso. Tra i demografici prevale l‟ipotesi che la caduta della natalità sia l‟effetto della diffusione di valori postmaterialisti, individualistici ed edonistici, che avrebbero investito le giovani coppie. Anche la ricerca di un lavoro (da parte delle donne) sarebbe dovuta a questa rivoluzione culturale. Tuttavia, siccome i tassi di natalità sono rimasti alti nei paesi sviluppati in cui un‟elevata proposizione di nascite avviene fuori dal matrimonio e la loro caduta è stata maggiore nei paesi dell‟Europa meridionali, Reyneri (2017) avanza un‟altra ipotesi: <<paradossalmente il familismo è una potente spinta a ridurre il numero di figli, poiché frena le nascite fuori dal matrimonio, provoca una ritardata uscita dei giovani dalla famiglia di origine e una più elevata età dal matrimonio, che dissuade dall‟avere più di un figlio, e infine esaspera la ricerca della qualità a scapito della quantità>> (Reyneri:2017: 52).
Si aggiunge, il fatto che << un regime di welfare fondato sulla coesione della famiglia riduce la propensione a fare figli, poiché carica la famiglia di troppi compiti e riduce le occasioni di lavoro per le donne>> (Reyneri:2017: 52).
Aumentare l‟occupazione delle donne senza ridurne la natalità è fondamentale sia per soddisfare le loro esigenze personali, sia per andare in contro ai bisogni del sistema economico il quale, richiede di contrastare la caduta demografica della forza lavoro. Ma dato che agire sui valori non è semplice, l‟altra strada da percorrere sembrerebbe quella di cambiare il sistema di welfare e l‟organizzazione del lavoro. Ne è un esempio l‟ingente sforzo finanziario che ha permesso alle donne svedesi di occuparsi dei propri figli senza perdere una stabile occupazione, assistendo alla più rapida crescita del tasso
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di natalità dei paesi sviluppati. Svezia e Danimarca (paesi nordici), registrano i più elevati valori dell‟indicatore di conciliazione lavoro/famiglia e del tasso di occupazione per le donne da 30 a 34 anni. La relazione fra tasso di occupazione delle donne (da 30 a