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Capitolo III – Le implicazioni giuridiche delle attività di marketing: evidenze dall’esperienza

2. La scelta dell’approccio teorico: il riferimento all’esperienza diretta nell’impresa e

3.1. Il contesto giuridico di riferimento

Sotto il profilo giuridico, nell’ordinamento giuridico nazionale la comunicazione commerciale si caratterizza per una notevole complessità di fonti di interesse, alla quale corrisponde una grande eterogeneità di interessi rilevanti15.

Tra le fonti interne rilevano in primis quelle di rango costituzionale. Lo scopo imprenditoriale che necessariamente caratterizza questa forma di comunicazione ha spinto gli interpreti ad interrogarsi circa il suo corretto inquadramento costituzionale, in quanto essa è stata ora considerata come una particolare forma di manifestazione del pensiero ai sensi dell’art. 21 Cost., ora come strumento di un’attività commerciale, e come tale da valutare nella prospettiva dell’art. 41 Cost16. Sulla questione molto dibattuta in

12 W. M. PRIDE, O. C. FERRELL, Marketing, Egea, 2009.

13 P.R. CATEORA, J. L. GRAHAM, Marketing internazionale. Imprese italiane e mercati mondiali, Hoepli Editore, 2008; W. M. PRIDE, O. C. FERRELL, Marketing, cit.

14 M. Maggiolino, M. Lillà Montagnani (a cura di), Marketing e Diritto, Egea, 2009.

15 In generale, sui rapporti tra le diverse fonti cfr. F. GHEZZI, Codici di condotta, autodisciplina, pratiche commerciali scorrette: Un rapporto difficile, in Rivista delle società, n. 4, 2011, E. BATTELLI, Codice del consumo, codice civile e codici di settore: un rapporto non meramente di specialità, in Europa e diritto privato, n. 2, 2016. Per una panoramica completa sulle implicazioni giuridiche della pubblicità cfr. M. FUSI, P. TESTA, Diritto e pubblicità. Lupetti & Company, 2006.

16 Sul punto tra gli altri cfr. A. FRIGNANI, W. CARRARO, G. D’AMICO, La comunicazione pubblicitaria d’impresa, Manuale giuridico teorico e pratico, Giuffrè, 2009.

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dottrina, si è pronunciata anche la Corte Costituzionale in due sentenze17, nelle quali

considera la pubblicità come «svolgimento di attività economica» disciplinata dall’art. 41 Cost. e non come manifestazione del pensiero. Nella sentenza n. 68 del 1965 la Corte valuta l’interesse perseguito come elemento caratterizzante l’attività informativa, giungendo quindi alla conclusione, criticata da parte della dottrina18, che l’informazione

avente fini economici (pubblicità di attività economiche, nella fattispecie in questione si trattava di “alberghi, pensioni e locande”) non possa essere inclusa tra le garanzie poste dall’art. 21 Cost. La stessa impostazione è stata ribadita nella sentenza n. 231 del 1985, in cui la pubblicità commerciale viene definita «una componente dell’attività delle imprese, come tale assistita dalle garanzie di cui all’art. 41 Cost., e assoggettabile, in ipotesi, alle limitazioni ivi previste al secondo e terzo comma». La riconduzione della comunicazione pubblicitaria al campo di applicazione dell’art. 41 Cost. motiva inoltre i numerosi limiti cui soggiace questa attività che non troverebbero invece giustificazione sul terreno della libertà di manifestazione del pensiero19. Tale impostazione tuttavia non

incontra i favori di gran parte degli studiosi, che ritengono che proprio la lettera della disposizione costituzionale, consentendo la "diffusione con ogni mezzo", «non ha inteso discriminare fra i vari scopi cui essa può rivolgersi»20 e che quindi qualsiasi tipo di

informazione, anche quella commerciale, può essere ricompresa nell’alveo dell’art. 21 Cost. Anche adottando questa impostazione, e nonostante che l’art. 21 Cost. preveda espressamente solo il limite del buon costume, l’incontestabile attinenza all’iniziativa economica privata sottopone comunque la comunicazione commerciale a limiti più stringenti21. Tali limitazioni presentano un fondamento costituzionale, ovvero sono

dirette a tutelare i diritti garantiti dalla Costituzione e dalle altre norme costituzionali22:

17 Sent. 68/1965 e sent. 231/1985.

18 S. FOIS, Censura e pubblicità economica, in Giur. Cost. 1965

19 G. CHIAPPETTA, La pubblicità commerciale, in V. BUONOCORE (a cura di), Iniziativa Economica e Impresa nella Giurisprudenza Costituzionale, Edizioni Scientifiche Italiane, 2006.

20 G. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, 1969.

21 Sul tema cfr. L. PRINCIPATO, Il fondamento costituzionale della libertà di comunicazione pubblicitaria, in Giurisprudenza Costituzionale, n. 1, 2003, il quale offre una ricognizione delle posizioni espresse da dottrina e giurisprudenza in merito alla qualificazione della pubblicità come atto di manifestazione del pensiero tutelato dall’art. 21 Cost. e strumento di iniziativa economica riconducibile nell’alveo dell’art. 41, riconoscendo la molteplicità di aspetti giuridici rilevanti nella comunicazione: «La pubblicità commerciale è una comunicazione, oggetto della libertà di manifestazione del pensiero, che può anche rilevare come strumento essenziale dell'attività economica - come tale ponendosene un problema di conformazione ex art. 41 comma 2 Cost. - ma questa non è l'unica rilevanza giuridica della fattispecie». 22 Sull’argomento cfr. tra gli altri P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Giappichelli, 2002.

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gli interessi salvaguardati sono dunque quelli costituzionalmente rilevanti, come quelli relativi alla protezione dei minori, della salute, dei consumatori e della concorrenza23.

Al fine di orientarsi nel groviglio di fonti legislative interne esistenti, è interessante l’adozione del criterio che distingue le norme tra quelle che si rivolgono al destinatario- consumatore e quelle dedicate al destinatario-cittadino24.

Relativamente al destinatario-cittadino, va citato il d. lgs. 31 luglio 2005, n. 177 (cd. Testo unico della radiotelevisione), che all’art. 4 definisce il diritto del telespettatore- cittadino a diffusioni di pubblicità e televendite leali ed oneste, «che rispettino la dignità della persona, non evochino discriminazioni di razza, sesso e nazionalità, e non offendano convinzioni religiose o ideali».

Le disposizioni del d. lgs. 2 agosto 2007, n. 145, che ha recepito nel nostro ordinamento la direttiva sulla pubblicità ingannevole 2006/114/CE, oltre a reprimere la pubblicità ingannevole di prodotti potenzialmente dannosi per la salute e sicurezza dei cittadini, si rivolgono anche ai minori, una particolare categoria di fruitori della comunicazione commerciale. La «naturale credulità e mancanza di esperienza»25 dei bambini meritano

infatti una protezione rafforzata dalla pubblicità che potrebbe minacciare la loro sicurezza.

Le principali disposizioni a tutela degli interessi del consumatore sono raccolte nel d. lgs. 6 settembre 2005, n. 20 (cd. Codice del Consumo); in particolare il titolo III definisce e reprime le pratiche commerciali scorrette, ingannevoli e aggressive, che si concretano in ogni azione contraria alla diligenza professionale che sia «idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore»26, ad indurlo in errore

riguardo alle caratteristiche del prodotto27, o che limita considerevolmente la sua libertà

di scelta o di comportamento28. Dello stesso tenore sono le disposizioni del citato d. lgs

145/2007 e del d. lgs. 146/2007, che, recependo le direttive europee sulla pubblicità ingannevole e comparativa, ovvero le direttive 2006/114/CE e 2005/29/CE (quest’ultima

23 Ai limiti della comunicazione pubblicitaria è particolarmente dedicato lo scritto di W. CARRARO, in A. FRIGNANI, W. CARRARO, G. D’AMICO, La comunicazione pubblicitaria d’impresa, Manuale giuridico teorico e pratico, Giuffrè, 2009.

24 Cfr. V. GUCCINO, Dalla pubblicità alla comunicazione commerciale. Le definizioni rilevanti, in A. FRIGNANI et al., La comunicazione pubblicitaria d’impresa, cit.

25 Art. 7, d. lgs. 147/2007. 26 Art. 20, Codice del Consumo.

27 Pratiche commerciali ingannevoli, artt. 21-23 Codice del Consumo. 28 Pratiche commerciali aggressive, artt. 2426 Codice del consumo.

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che modifica la direttiva 84/450/CE), fissano i criteri per determinare l’ingannevolezza della comunicazione commerciale e le condizioni che devono essere soddisfatte per ritenere lecita la pubblicità comparativa, intesa come quella che confronta oggettivamente diversi prodotti o servizi esistenti (o solo alcuni elementi di essi) senza con ciò ingenerare confusione sul mercato, denigrare i concorrenti o trarre vantaggi dai pregi altrui29.

Sul rapporto tra fonti interne ed esterne è interessante riportare una pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Il recepimento delle direttive infatti può generare più o meno sottili divergenze tra la normativa nazionale e i dettami europei; così è stato nel caso della pubblicità ingannevole e comparativa, atteso che nella normativa europea ingannevolezza e illiceità nella comparazione costituiscono due fattispecie distinte, mentre in quella italiana sembra esserci un rapporto quasi di dipendenza dell’un concetto rispetto all’altro. Sul punto è intervenuta la Corte, che imputando la divergenza principalmente ad un problema di traduzione, ha ribadito come le due infrazioni siano da considerare in modo autonomo l’una dall’altra, e che quindi «al fine di vietare e di sanzionare una pubblicità ingannevole, non è necessario che quest’ultima costituisca al contempo una pubblicità illegittimamente comparativa»30. Dunque è questa

l’interpretazione corrente della disciplina31.

Tra le altre fonti legislative interne gioca un ruolo di particolare rilievo la disciplina della concorrenza sleale contenuta negli artt. 2598 e ss. del Codice Civile, dal momento che la pubblicità rappresenta ad oggi uno dei più importanti strumenti della lotta concorrenziale tra imprese. Da giurisprudenza consolidata32, è pacifico che essa si

applichi nei casi in cui siano presenti due imprenditori (lato passivo e lato attivo) che stiano tra loro in un rapporto di concorrenza economica. Proprio a tutela del buon funzionamento del mercato e della concorrenza, l’art. 2598 c.c. vieta una serie di atti

29 Per approfondimenti sul tema cfr. P. AUTERI, La disciplina della pubblicità, in M. RICOLFI, et al. Diritto industriale, Giappichelli, 2016.

30 Punto, Causa C-52/13. La Corte era stata sollecitata a seguito di rinvio pregiudiziale formulato dal Consiglio di Stato. Questo perché un soggetto economico sanzionato dall’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato per aver diffuso una pubblicità ingannevole, aveva impugnato la condanna inflittagli prima dinanzi al TAR e poi dinanzi al Consiglio di Stato, sostenendo che la direttiva 2006/114 fosse finalizzata a sanzionare unicamente i fatti che integrano al contempo una pubblicità ingannevole e una pubblicità illegittimamente comparativa e che il decreto legislativo n. 145/2007 dovesse quindi essere interpretato in tal senso. Dunque, secondo la prospettazione in parola, non esisterebbe pubblicità ingannevole al di fuori della pubblicità comparativa illecita, essendo la prima una sorta di “aggettivazione” della seconda. Ma la Corte ha ribaltato questa impostazione.

31Come dimostrano casi anche piuttosto recenti, Consiglio di Stato, sez. VI, 04/09/2015, n. 4111.

32 Cfr. L. UBERTAZZI, P. MARCHETTI, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Cedam, 2007.

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idonei a ledere la concorrenza, determinando confusione sul mercato in ordine a prodotti o attività di un imprenditore; la norma delinea diverse ipotesi di comportamenti illeciti, scanditi nei tre paragrafi dell’articolo. Il primo di essi riguarda tutti gli atti confusori, ossia quelle azioni che possono far sorgere in concreto una confondibilità tra i prodotti di diversi imprenditori33, come l’uso di nomi e segni distintivi di altri o l’imitazione servile

dei prodotti e delle attività del concorrente. La norma mira a vietare le condotte poste in essere dall’impresa suscettibili di incidere sulle scelte dei consumatori, in modo tale da indurli a ricondurre determinati prodotti o attività ad un altro imprenditore: si salvaguarda quindi la libertà di scelta del consumatore e la sua fiducia nei confronti dell’impresa34.

I numeri 2 e 3 dell’art. 2598 c.c. reprimono le attività contrarie alla correttezza professionale, quali la denigrazione e l’appropriazione di pregi altrui, che possono condurre ad un illecito sviamento di clientela non già per la confusione sui prodotti, ma per la loro idoneità ad ingenerare nel pubblico dei consumatori la convinzione che il prodotto di un’impresa abbia le stesse qualità di quello di un’altra35. L’ultima parte

dell’art. 2598 (numero 3) contiene una clausola generale per definire la slealtà concorrenziale dei comportamenti non tipizzati nella norma, che in questo modo «consente di adeguare la disciplina della concorrenza all’evoluzione della vita economica»36.

In particolare, i principi della correttezza professionale hanno una portata molto ampia: essi implicano l’osservanza delle norme di legge che regolano il comportamento delle imprese sul mercato nell’interesse della generalità, delle imprese e dei consumatori. Rilevano quindi in modo determinante anche con rispetto alla pubblicità ingannevole, poiché, come già accennato, il divieto è stato stabilito nella direttiva 2006/114/CE e nel d.lgs. n. 145/2007 che la ha recepita nel nostro ordinamento, allo scopo di tutelare le imprese «dalle conseguenze sleali» e perché la direttiva 2005/29/CE, e di riflesso il d.lgs. n. 146/2007 di recepimento, «tutela indirettamente le attività legittime da quelle dei rispettivi concorrenti che non rispettano le regole previste dalla presente direttiva»37.

33 A. VANZETTI, V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, 2009, secondo cui la possibilità di confusione deve essere concreta e conseguentemente è necessaria la contemporanea presenza sul mercato delle imprese in conflitto.

34 Così G. GHIDINI, La concorrenza sleale, UTET, 2001, L. UBERTAZZI, P. MARCHETTI, Commentario breve, cit.

35 L. UBERTAZZI, P. MARCHETTI, Commentario breve, cit. 36 L. UBERTAZZI, P. MARCHETTI, Commentario breve, cit. 37 Considerando 8, direttiva 2005/29/CE.

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Dunque, alla luce di questa impostazione, è stato affermato in dottrina che «il d.lgs. n. 145/2007 e il Codice del consumo, vietando la pubblicità ingannevole, hanno introdotto una fattispecie tipica di concorrenza sleale che si affianca a quelle previste dai nn. 1 e 2 dell’art. 2598 c.c.»38.

Riuscire a delineare un quadro completo ed esaustivo delle fonti e del rapporto fra esse è complesso: esiste infatti un fitto sistema di discipline speciali che regolano la pubblicità nei vari settori. La ricognizione delle principali fonti legislative fatta in questa sede cerca di porre in evidenza lo scopo della disciplina esistente: le normative sono poste a tutela di interessi prevalentemente economici, anche se la diffusione ed in qualche modo l’esposizione inevitabile della comunicazione pubblicitaria rischia di porla in contrasto con interessi individuali e pubblici di carattere non economico; dunque le normative vigenti oltre a garantire il corretto funzionamento del mercato e della concorrenza, mirano a tutelare gli interessi dei consumatori e dei concorrenti39.

3.2. La disciplina del diritto d’autore a tutela della creatività dell’ideazione

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