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4. Assetto proprietario e strumenti di separazione tra proprietà e controllo

4.5 Assetto proprietario delle imprese italiane: familiarismo e concentrazione della proprietà

4.5.3 Controllo Familiare

Il controllo familiare, caratteristica tipica delle imprese italiane, è riconducibile a tutti quei casi in cui il controllo è saldamente nelle mani di una singola persona o dei membri di una famiglia. L’unità dell’indirizzo di governo familiare è garantita o dalla presenza nel capitale di altri membri della famiglia, oppure

163 dall’esistenza di particolari vincoli o accordi sociali che assicurano la governance dell’impresa. La sovrapposizione famiglia-impresa che si crea può essere totale, nel caso in cui tutte le risorse umane e finanziarie vengono fornite dalla famiglia proprietaria, oppure parziale, nel caso vi siano risorse esterne o azionisti di minoranza non legati da vincoli di parentela con il gruppo di controllo. La simbiosi tra impresa e famiglia, negli anni, è risultata spesso vincente, generando delle realtà imprenditoriali che oggi sono leader mondiali in diversi settori economici. Il bilanciamento tra queste due componenti, data la loro natura ambivalente, può quindi dare origine a dei risultati positivi ma anche negativi, che scaturiscono dalla prevalenza di un sistema sull’altro (Reid et al., 1999). Le family firms sono caratterizzate dal fatto che il processo decisionale e di formulazione delle strategie è fortemente accentrato nelle mani dell’imprenditore, e gli obiettivi aziendali sono indirizzati dalle sue aspirazioni individuali. Gli organi di governo sono meramente formali, essendo composti esclusivamente o per maggioranza dai familiari del proprietario. La famiglia intende trasferire l’azienda di generazione in generazione e, in relazione a tale finalità, mantiene il controllo dell’impresa in maniera tale da non renderla contendibile. Le imprese familiari emergono come risposta razionale al contesto istituzionale e di mercato, pertanto sono più redditizie di quelle non familiari nei paesi con strutture giuridiche deboli, dove un membro della famiglia può sostituire la governance mancante e l'enforcement contrattuale. Un'altra fonte di vantaggio comparativo per le imprese familiari è il fatto che la trasmissione di conoscenze specifiche per le imprese è più facile tra un fondatore e i suoi eredi. La concentrazione della proprietà fornisce agli azionisti individuali e familiari gli incentivi per monitorare i manager, perché è in gioco la loro ricchezza, e di conseguenza il problema di agenzia è mitigato.

Le aziende familiari italiane comprendono non solo aziende di piccole dimensioni in cui i parenti appartenenti alla stessa famiglia collaborano tra di loro, ma anche multinazionali quotate sui mercati internazionali, come ad esempio Amplifon, Barilla, Brembo e Ima. Le società appena citate, oltre a rappresentare le realtà italiane più performanti in Europa (Credit Suisse Research, 2018), sono degli esempi di imprese familiari di medie dimensioni che, insieme a quelle aggregate in costellazioni e a quelle di piccole dimensioni (Tabella 28), rappresentano il modello di corporate governance più diffuso in Italia.

Tabella 40: Numero di imprese per classe di addetti nel 2016 (Valori assoluti e percentuali)

Fonte: Credit Suisse Research (2018)

La tabella sopra riportata permette di delineare l’aspetto strutturale dell’economia italiana: un tessuto imprenditoriale caratterizzato dalla presenza di imprese di piccola e piccolissima dimensione con una governance di tipo familiare. Il modello di governance aziendale tipico delle imprese italiane è quello padronale, in cui la struttura proprietaria è concentrata nelle mani della famiglia e in cui si assiste all’accentramento tra proprietà e controllo. La concentrazione dell’azionariato permette all’imprenditore che presiede l’assemblea dei soci di definire “le regole del gioco”, influenzando la nomina e la composizione dei membri del consiglio di amministrazione. L’impostazione del modello padronale prevede che il proprietario persegua i propri obiettivi imponendo azioni o decisioni al management, senza correre il rischio che i manager abbiano l’intenzione di appropriarsi dei benefici privati a danno degli azionisti. L’azionista di maggioranza potrebbe essere poco disposto al cambiamento e privo di competenze tali da poter intraprendere un qualsiasi processo di trasformazione dell’impresa (Zattoni, 2015). L’allineamento di proprietà e gestione nelle

164 mani dei familiari potrebbe infatti rappresentare un limite alla crescita dimensionale dell’impresa per le seguenti ragioni:

• La scarsità di capitali: le imprese familiari fanno un elevato ricorso all’auto-finanziamento, preferendolo a modalità di entrata a elevato livello di commitment (quotazione in borsa e/o ricorso a soggetti estranei alla famiglia);

• L’insufficienza delle competenze: le imprese, talvolta, necessitano di assumere manager esterni, che le permettano di poter vantare nuove conoscenze e competenze. Alcuni membri della famiglia potrebbero non avere le opportune capacità imprenditoriali e gestionali, ed è indispensabile riconoscere l’esigenza di nuove professionalità che affianchino i membri della famiglia nelle posizioni manageriali chiave;

• L’incapacità di gestire situazioni complesse: l’evidenza empirica dimostra che nelle piccole imprese a proprietà concentrata il leader familiare realizza ottime performance (+1,4% ROI rispetto alle aziende controllate da non familiari), ma che nelle grandi società a proprietà allargata sono i professionisti esterni a garantire i risultati migliori (Corbetta, 2010).

Le family firms che rinunciano al controllo totalitario o di maggioranza sono proprio quelle che intendono perseguire l’obiettivo di sviluppo delle proprie realtà imprenditoriali. La volontà di mantenere la governance dell’impresa fa sì che la proprietà delle aziende familiari italiane tenda a rimanere chiusa, che la crescita dimensionale venga bloccata e che diventi sempre più difficile aprire il capitale di rischio a soggetti esterni. Il report dell’Associazione italiana delle aziende familiari14 conferma il forte l’interesse delle famiglie italiane al controllo delle proprie società (Tabella 29). I dati mostrano che, su un campione di 16.000 imprese, i 2/3 presentano un assetto proprietario familiare, la cui incidenza diventa sempre più marcata al diminuire della dimensione del fatturato prodotto. Tali imprese rappresentano numericamente quasi il 60% del mercato azionario italiano, pesando per oltre il 25% della sua capitalizzazione, mentre quelle con un fatturato superiore a 20 milioni di euro costituiscono il 65% del totale delle imprese italiane, consolidando un fatturato complessivo di oltre 730 miliardi. Esse hanno una crescita superiore rispetto alle altre tipologie di aziende (+47,2% negli ultimi dieci anni, contro il 37,8% delle altre imprese), registrano una redditività più alta (ROI del 2016 al 9,1% contro il 7,9% di altre forme societarie) e hanno un rapporto di indebitamento più basso. Le family companies italiane si distinguono anche per la longevità: 15 tra le prime 100 aziende più antiche al mondo sono italiane, e tra queste, cinque sono tra le dieci società più vecchie tuttora in esercizio.

14 L’Aidaf è un’associazione che raggruppa le principali aziende familiari italiane quotate in borsa e che monitora e analizza le performance economiche e finanziarie delle imprese familiari che hanno un fatturato superiore ai venti milioni di euro.

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Tabella 41: Assetto proprietario delle imprese italiane, suddivise per tipologia di azionista di maggioranza (2014)

Fonte: Rapporto finale Osservatorio AUB, 2017

Rondi & Abrardi (2020) esaminano l'evoluzione dell'assetto proprietario e del governo societario delle aziende a conduzione familiare quotate nel periodo 2000-2017, focalizzandosi, in particolare, sul rapporto tra proprietà familiare e performance aziendale. L’analisi mostra che le quote di proprietà nelle family companies sono elevate e stabili per tutto l’arco di tempo considerato, con gli azionisti che riescono a trarre elevati benefici monetari sotto forma di dividendi. Il 50% delle imprese facenti parte del campione opera in settori ad alta intensità di R&S, mentre la proprietà familiare è più probabile in quelle attività caratterizzate da alti tassi di importazioni e nelle industrie meno concentrate. Il numero di imprese private, durante tale decennio, è aumentato più rapidamente rispetto a quello delle aziende familiari, che nel 52,7% dei casi hanno un amministratore delegato appartenente alla famiglia. Il numero di aziende con un CEO di famiglia ha manifestato una tendenza al ribasso, in quanto tale valore, che nel 2000 era pari al 70%, ha subito un calo marcato dopo la crisi del 2008. Il confronto tra queste due tipologie di imprese, in termini di performance, ha messo in luce che le aziende a conduzione familiare hanno prestazioni migliori (ROA) rispetto a quelle non familiari prima del 2008, mentre il contrario è vero dopo la crisi deflagrata in quell’anno. La quota di controllo, all'interno delle aziende familiari, è inferiore quando l'amministratore delegato è un membro della famiglia. Ciò indica un compromesso tra proprietà e controllo, in base al quale il proprietario della famiglia detiene una quota azionaria maggiore quando l'impresa è gestita da un estraneo. Gli autori si focalizzano anche sui risultati delle aziende per tipologia di CEO, al fine di capire se il diverso comportamento delle due classi di aziende studiate sia dovuto al diverso livello di concentrazione della proprietà o sia piuttosto una conseguenza della differente tipologia di controllo. Le aziende familiari con un CEO di famiglia presentano un ROA costantemente inferiore a quello delle imprese con un CEO esterno, anche se non ci sono marcate differenze in termini di volatilità. Questo suggerisce che i risultati volatili delle imprese non familiari potrebbero essere causati dalla loro struttura proprietaria diversa, piuttosto che dalla loro gestione professionale esterna. Gli studiosi trovano che il rapporto tra proprietà familiare e redditività dell'azienda è positivo, però le imprese familiari evidenziano un market to book inferiore. Ciò implica che il mercato azionario valuta la proprietà familiare con uno "sconto", che è più alto quando l'amministratore delegato della famiglia è anche presidente del consiglio. Il CEO di questa tipologia di società, infatti, riesce a estrarre maggiori benefici privati quando è in grado di dominare il CdA.

La governance delle family companies italiane, in generale, tende a presentarsi semplice ed informale e la gestione dell’impresa si traduce in una traslazione della gerarchia familiare, in quanto l’attività aziendale viene vista come un affare di famiglia (Zattoni, 2015). Gli organi di governo sono costituiti solo per gli adempimenti burocratici, infatti i Consigli di Amministrazione si riuniscono una o due volte l’anno al solo fine di approvare i bilanci e deliberare la distribuzione di dividendi. Essi risultano composti esclusivamente da

166 familiari, che assumono simultaneamente i ruoli di manager, presidenti e soci. Una parte della letteratura percepisce in modo positivo la composizione degli organi di governo con i soli membri della famiglia, in quanto la sovrapposizione delle funzioni dirigenziali e manageriali garantisce l’allineamento degli interessi della famiglia con quelli dell’impresa (Gersick et al., 1997). Ciò è valido per la prima generazione, ossia fin quando l’impresa risulta ancora piccola e la struttura organizzativa è poco complessa, poiché la famiglia, in questa fase, è spinta a non costituire o non formalizzare i sistemi di governance, in quanto ritenuti ininfluenti alla gestione degli assetti organizzativi.

Tali conclusioni non possono essere tratte per il medio-lungo periodo, dato che la sovrapposizione tra i subsistemi famiglia-impresa rende indispensabile un allargamento degli assetti direzionali, in particolar modo se si pensa che prima o poi l’impresa sarà costretta a dover crescere per restare competitiva e a dover gestire il passaggio generazionale. Le stesse considerazioni valgono per tutte quelle situazioni in cui si verifica la commistione di ruoli in capo ad uno o pochi familiari. Tale sovrapposizione di cariche, infatti, può essere fonte di conflitti, inefficienze nella supervisione della società e nell’identificazione delle azioni strategiche. L’Aidaf rileva che in Italia il 66% delle imprese familiari possiede un management composto interamente da componenti della famiglia. Questa situazione in Spagna si riscontra nel 33% delle family firms, in Francia nel 26% ed in UK solo nel 10%. Il dato trova conferma anche nell’analisi condotta nel 2018 dall’Osservatorio AUB, che analizza la presenza dei familiari nel Consiglio di Amministrazione (Figura 24). I dati mettono in luce che il 72,8% delle aziende italiane presenta un CdA formato quasi esclusivamente da membri della famiglia.

L’indagine condotta dall’Aidaf mostra, inoltre, che le family firms con almeno un consigliere esterno crescono di più e registrano una redditività superiore rispetto alle imprese con un consiglio composto da soli membri della famiglia.

Figura 15: Percentuali relative alla presenza dei membri della famiglia nel CdA delle società quotate a controllo familiare (2018)

Fonte: Rapporto finale Osservatorio AUB, 2018

Il Report dell’AUB mette in evidenza che le imprese quotate, nel decennio 2007-2017, hanno mostrato una maggiore apertura verso una leadership non familiare, la cui incidenza sul totale delle aziende è passata dal 52,7% di inizio periodo al 40,2% di fine periodo (tabella 30). Esse hanno anche fatto registrare un aumento della presenza delle donne nel CdA (26,2%) e un progressivo invecchiamento dei proprietari. Il sistema economico italiano, in definitiva, è caratterizzato da un gap culturale legato alla combinazione di proprietà, gestione e dimensione dell’impresa. La concentrazione totalitaria della proprietà e della gestione nelle mani dei familiari fa sì che lo sviluppo delle imprese venga limitato e che quest’ultime, per inerzia dei familiari, vengano condannate a rimanere piccole. Il processo di sviluppo di questa tipologia di aziende richiede la costituzione degli organi di governo e l’allargamento del team direzionale agli outsider o ai non-family manager. La crescita dimensionale è fonte di discontinuità nel ciclo di vita di queste organizzazioni e incide sulla modalità di gestione delle stesse. Il processo di sviluppo dimensionale, infatti, è accompagnato dalla

167 sfamiliarizzazione, ossia dal trasferimento, anche se parziale, della leadership a professionisti esterni che apportano competenze e risorse finanziarie decisive per il successo. Tale crescita, tuttavia, è limitata dalla marcata riluttanza all’apertura della compagine societaria da parte delle società italiane, che sono guidate da un eccessivo conservatorismo e dall’avversione al rischio15. L’autofinanziamento, che da sempre caratterizza le piccole imprese familiari italiane, non può continuare a rappresentare un porto sicuro per evitare l’ingresso di nuovi soggetti negli assetti governativi. Ciò perché le risorse possedute dalla famiglia potrebbero essere insufficienti a sostenere adeguati processi disviluppo e inoltre perché le nuove sfide competitive richiedono ingenti investimenti in R&S, un grado di globalizzazione non indifferente ed imprese capaci di effettuare il salto dimensionale quotandosi in borsa.

Tabella 42: Leadership familiare e tipologia di consiglieri presenti nel CdA delle family companies quotate negli anni 2007 e 2017

Fonte: Rapporto finale Osservatorio AUB, 2017

15 Il rifiuto di aprire a soci terzi investitori il capitale sociale aziendale può limitare fortemente il tasso di crescita dell'impresa familiare. È un problema di mentalità frequente nel proprietario fondatore ed inoltre possono essere presenti limiti oggettivi e di non facile superamento nel breve periodo: stili di governo personalizzati, mancanza di adeguati strumenti di controllo e carenti sistemi direzionali nel governare a distanza l'azienda.

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