4. Assetto proprietario e strumenti di separazione tra proprietà e controllo
4.4 Separazione tra proprietà e controllo
4.4.3 Società italiane ed il ricorso effettivo ai principali strumenti di separazione tra proprietà e
4.4.3.1 Dual class shares
Le public companies italiane, nel periodo successivo all’introduzione della Riforma del 2003, hanno mostrato uno scarso interesse nei confronti dei meccanismi di assegnazione dei diritti di voto che deviano dal principio di proporzionalità. Esse hanno fatto un uso limitato delle azioni senza diritto di voto e di quelle a voto limitato, mentre non si sono mai mostrate inclini all’adozione degli strumenti partecipativi innovativi introdotti in seguito alla Riforma delle società di capitali del 2003, come le azioni di sviluppo (Sagliocca, 2014).
Quest’ultime non danno la facoltà di votare al loro titolare e possono essere emesse da tutte le società di capitali, a prescindere dall’effettivo ricorso al mercato borsistico, purché sussista la condizione che la maggioranza del capitale sociale sia detenuta da una persona fisica o da un gruppo di soggetti tra i quali intercorrano rapporti di natura familiare. Questa tipologia di titoli, inoltre, da diritto al godimento di un beneficio di natura patrimoniale, nella forma della corresponsione di un dividendo maggiorato, e sono convertite in azioni ordinarie qualora venga meno il presupposto della maggioranza di diritto in capo ai soggetti possessori. Una serie di problemi applicativi, tuttavia, hanno rappresentato un serio ostacolo all’adozione di questa categoria azionaria. Il primo è lo svantaggio arrecato alla società in termini di riduzione del valore di capitalizzazione del suo capitale sociale in seguito al meccanismo di conversione, in quanto rendono più oneroso il passaggio di proprietà che si verifica eventualmente in sede di offerta pubblica di acquisto. Lo scarso utilizzo di questa classe di titoli è dovuto anche alla loro peculiare attitudine a dare vita a dinamiche societarie non desiderabili e a comportamenti opportunistici di alcune categorie di soci nei confronti di altri, al punto da scoraggiarne quasi completamente l’utilizzo nelle società di capitali.
Un’ altra tendenza che ha caratterizzato le aziende italiane di questo periodo è stata la conversione dei titoli senza diritto di voto in azioni ordinarie, a causa di fenomeni quali fusioni e scissioni, oppure di situazioni di delisting, dovute a determinate scelte strategiche operate dall’impresa o all’intervento delle autorità di gestione del mercato. Il processo di integrazione economica e monetaria verificatosi tra i Paesi del contesto europeo, inoltre, ha prodotto una serie di effetti sul sistema economico tali per cui il meccanismo della conversione delle azioni a voto non pieno in azioni ordinarie rappresentò la soluzione ai problemi di natura finanziaria che affliggevano le società. Il drastico calo dei tassi di interesse che ha interessato il mercato creditizio europeo, ha portato le imprese operanti sul territorio italiano a ricorrere al finanziamento esterno piuttosto che continuare a concedere benefici patrimoniali, divenuti più onerosi. A ciò bisogna aggiungere l’insieme di regole introdotte con il TUF nel 1998, le quali modificarono la disciplina delle offerte pubbliche d’acquisto. Esse elevarono al trenta per cento la quota di capitale sociale necessario per promuovere in maniera obbligatoria l’OPA totalitaria11, e innalzarono il livello dei quorum richiesti per l’adozione delle deliberazioni nelle assemblee straordinarie alla misura dei due terzi dei soci partecipanti al capitale con diritto di voto. Tali modifiche hanno prodotto l’effetto di rendere meno contendibile il governo societario, che diventava ottenibile mediante quote di capitale più basse rispetto a quanto accadeva in precedenza, inducendo, di conseguenza, il socio di maggioranza ad una maggiore predisposizione all’entrata di nuovi soggetti nella società. Un altro motivo che ha spinto le public companies italiane a preferire la struttura 1S-1V è stato l’avvento degli investitori istituzionali, che hanno manifestato una netta avversione nei confronti dei criteri non proporzionali di attribuzione dei diritti di voto, a causa della percezione di maggior rischiosità e minore trasparenza degli assetti societari. Le pressioni da essi esercitati concorsero a delineare il ritorno verso l’utilizzo del principio di proporzionalità nella sua forma tradizionale e condussero all’abbandono di strumenti partecipativi non in linea con tale sistema. Il ricorso alle strutture duali, di conseguenza, è andato
11 Il TUF ha stabilito cinque casi in cui non scatta l'obbligo di OPA totalitaria: operazioni dirette al salvataggio di società in crisi, trasferimento di azioni ordinarie tra soggetti legati da rilevanti rapporti di partecipazione (operazioni
infragruppo), cause indipendenti dalla volontà dell'acquirente, operazioni di carattere temporaneo e operazioni di fusione o di scissione.
139 diminuendo nel tempo, a causa del concorrere di una serie di fattori che ne hanno fatto venire meno i vantaggi per i quali erano state concepite.
I primi anni Novanta del secolo scorso hanno fatto registrare un largo uso delle azioni di risparmio da parte delle imprese italiane, al punto da poterne rintracciare la presenza in un numero di società pari a circa la metà del totale di quelle quotate in borsa. Alvaro et. al. (2014) rilevano che 120 società, pari a circa il 43% di quelle quotate, ricorreva a tale tipologia di titoli, che avevano in media un peso pari al 14% del capitale sociale (Tabella 31). L’interesse manifestato dalle imprese nei confronti di tale strumento è andato scemando nel tempo, infatti alla fine del 2012 solo 32 società vi facevano ricorso, a fronte delle 104 del 1992. Questo lento declino ha coinvolto anche le azioni privilegiate, visto che il numero di aziende che le ha adoperate passa da 25 (1992) a 3 (2012).
Tabella 19: Utilizzo delle azioni prive del diritto di voto da parte delle società italiane quotate nell’intervallo 1992-2012. Confronto tra le azioni di risparmio e tra quelle privilegiate
Fonte: Report on corporate governance of Italian listed companies. Consob (2019)
Bianchi e Bianco (2006), a conferma dei risultati dello studio precedente, mostrano che nel 1990 le azioni con diritti di voto limitato o senza diritto di voto avevano una larga diffusione in Italia. Il 39% delle società quotate, infatti, emetteva azioni di risparmio o privilegiate, che avevano un peso sulla capitalizzazione di mercato del 14,4%. Gli anni successivi, tuttavia, sono stati testimoni di una sostanziale diminuzione di questo fenomeno, dovuto in parte ad uno scarso apprezzamento da parte degli investitori, causato da una povera tutela degli azionisti di minoranza. La percentuale di imprese che ha emesso azioni senza diritti di voto scende all’14%
nel 2005, mentre nel 2007, solo l’11% delle public companies presentava una struttura duale, con un peso sulla capitalizzazione pari al 36%. Rigamonti (2007) rileva che tra le società presenti in borsa nel ventennio 1985-2005, solo il 2% di tutte quelle presenti nel campione ha creato una struttura dual class negli anni successivi all'IPO.
Lo studio di Bigelli et al. (2011), che prende in considerazione il periodo 1974-2008, conferma il declino che la struttura duale ha avuto nel tempo. Le società quotate in Borsa con più di una classe di azioni, a fine 2008, erano solo 30 su 336 società (8,93%), contro le 94 su 266 del 1990 (35,34%). La capitalizzazione di mercato delle azioni senza diritto di voto come frazione del valore complessivo del capitale è diminuita ancora più bruscamente, passando dal 15% nel 1990 a solo il 2,5% del 2008. Una delle cause di questa diminuzione è da ricercare nell’ondata di “unificazioni” che si è verificata in Italia, ovvero nel ritorno delle imprese a una struttura proprietaria caratterizzata da un’unica tipologia di titoli. Parmalat, ad esempio, ha dovuto annullare un'emissione di azioni senza diritto di voto di 500 milioni di dollari destinata agli investitori statunitensi a causa di una reazione avversa degli investitori. La convinzione che il mercato azionario avrebbe reagito negativamente alla creazione di questa tipologia di titoli favorì la conversione di quelli esistenti. Gli autori prendono in considerazione tutti i tentativi di unificazione attuate dalle società italiane quotate, da quando le azioni senza diritto di voto furono introdotte nel 1974. Lo studio fece emergere che 41 società effettuarono 46 differenti tentativi, 32 dei quali avvenuti dopo il 1998, e la metà negli anni compresi tra il 1998 e il 2001.
Queste operazioni sono caratterizzate dalla presenza di un azionista di maggioranza che possiede più del 50%
140 dei voti e che tipicamente è una famiglia. La decisione di unificare le classi di azioni deriva da fattori unici e territoriali, come il forte calo del tasso di interesse ed il corrispondente innalzamento del rendimento minimo delle azioni senza diritto di voto che ha caratterizzato l’Italia in questo periodo. Essa rappresenta, inoltre, un’opportunità per gli insider di appropriarsi dei voti degli azionisti di minoranza. I block shareholders riescono a trarre vantaggio da questa unificazione o comprando pacchetti rilevanti di azioni senza diritto di voto o approvando piani di stock option pochi mesi prima dell’annuncio. Lo studio dell’autore, pertanto, evidenzia che tale fenomeno è un’ulteriore forma utile per espropriare gli azionisti di minoranza.
Intrisano (2009) esamina le imprese che hanno adottato due classi di azioni nell’intervallo di tempo che va dal 1999 al 2007 (tabella 32). I dati mostrano che il numero di società passa da 75 con un’incidenza del 21,74%
sul totale di mercato a 37 con un’incidenza del 10,76% nel periodo considerato. La capitalizzazione di mercato subisce una diminuzione di tredici punti percentuali, attestandosi al 35,96% nel 2007. L’autore, analizzando anche le tipologie di azioni presenti all’interno di questa struttura, mostra che la flessione ha interessato maggiormente le società che hanno emesso azioni di risparmio, che hanno dimezzano la loro numerosità, passando da 63 a 31. Questo avviene anche per le public companies che presentano azioni di risparmio e privilegiate, la cui incidenza, in termini di capitalizzazione, si attesta al 2,97% nel 2007. Il numero delle imprese che ha adottato titoli privilegiati, invece, rimane pressoché costante durante gli anni, infatti tale valore, tra il 2002 e il 2007, resta fermo a tre. L’autore ritiene che la costante diminuzione che ha colpito il fenomeno delle dual class sia dovuta prevalentemente ad operazioni societarie estranee alla struttura azionaria, come ad esempio i processi di merger and acquisition e di destiling.
Tabella 20: Numero di società e relativa capitalizzazione delle società che hanno adoperato la struttura Dual Class negli anni 1999-2007
Fonte: Intrisano (2009). Proprietà e controllo: dual class, patti parasociali e gruppi piramidali.
Le società di capitale chiuse, invece, fino al momento dell’introduzione dei provvedimenti normativi dettati dalla Riforma delle società di capitali, non hanno mai manifestato particolare interesse all’adozione di strumenti partecipativi diversi dalle azioni ordinarie. La creazione di azioni totalmente prive del diritto di voto fu una svolta per questo tipo di imprese, che iniziarono a sfruttare la possibilità di utilizzare i meccanismi di deviazione dal principio di proporzionalità nel periodo successivo all’intervento della legge sul diritto societario. Le private firms cominciarono a ricorrere all’emissione di azioni che si differenziano dalle azioni ordinarie per una serie di caratteristiche, rintracciabili nel conferimento di benefici di natura patrimoniale o amministrativa ai loro titolari, oppure nella postergazione della partecipazione alle perdite che intaccano il capitale sociale. Il voto scaglionato fu una delle pratiche più utilizzate, in quanto consentiva di assegnare un numero di voti crescente in maniera non proporzionale all’aumentare del numero di azioni in possesso, e di applicare un limite massimo al possesso azionario, oltrepassato il quale il numero di voti esercitabili in assemblea si stabilizzava al livello determinato nello statuto. Le categorie azionarie speciali che ottennero maggior successo furono quelle a voto limitato e condizionato al verificarsi di condizioni prestabilite dall’autonomia statutaria. Esse permettevano di operare una selezione all’ingresso tra i soggetti destinati ad
141 esercitare un potere sociale in merito a determinati ambiti di interesse della vita societaria, rendendo più omogenea e compatta la compagine degli individui detentori della maggioranza (Leone, 2015). Molte delle società chiuse che hanno adottato la struttura dual class, tuttavia, hanno anche inserito nei loro statuti una serie di clausole o disposizioni che pregiudicano gli interessi di alcune categorie di soggetti legati all’attività dell’impresa. Tali pratiche attribuivano poteri di veto o subordinavano l’esercizio del diritto di voto di una categoria di azionisti al voto favorevole di un’altra, istituendo così una condizione puramente potestativa.