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In un recente libro di Bruner (2004), contenente una raccolta di saggi sull’educazione, viene proposta una lettura dei motivi che hanno determinato la svolta culturalista in educazione. Ed è particolarmente significativo che sia uno degli artefici della svolta cognitivista e disciplinarista, seppure sotto la pressione della competizione con il sistema educativo sovietico nel clima della guerra fredda, a riconoscere oggi l’importanza di assunti che erano presenti nella stessa pedagogia deweyana a cui si contrappose. Il celebre congresso di Woods Hole del 1959, che spostò l’interesse della pedagogia nordamericana sull’istruzione, sui curricoli e sulle discipline scientifiche, presupponeva un controllo ed uno sviluppo asettico del processo formativo: “Si assumeva che gli studenti vivessero in una sorta di vuoto educativo, senza essere minimamente toccati dai problemi della cultura di cui facevano parte” (ibidem, p. 11). Erano soprattutto le premesse ad essere errate, ovvero l’idea che si potesse “fare scuola” a prescindere dall’esistenza di problemi sociale e culturale. Fenomeni come la povertà, il razzismo, l’emarginazione, ma anche le differenze minori, rappresentano infatti le condizioni all’interno delle quali le persone trovano o meno le motivazioni e le risorse per accedere all’apprendimento scolastico. Bruner ricorda in particolare gli incontri con Alexander Luria, vivace sostenitore delle teorie ‘storico-culturali’ di Lev Vygotskij sullo sviluppo: “I suoi entusiastici argomenti a favore del ruolo del linguaggio e della cultura nel funzionamento della mente finirono presto per far vacillare la mia fede nelle teorie più autonome e formalistiche del grande Jean Piaget, teorie che lasciavano pochissimo spazio al ruolo qualificante della cultura nello sviluppo mentale” (ibidem).

La prospettiva culturalista, pur non rinnegando livelli di elaborazione cognitiva impegnati su codici e sistemi simbolici, sposta l’attenzione sui contesti socio-culturali in cui si realizza lo sviluppo cognitivo. Questo approccio prende ispirazione da un dato evolutivo, il fatto cioè che la mente non potrebbe esistere senza la cultura. “La configurazione intellettuale umana – intesa come insieme articolato di funzioni mentali, viene perciò sempre più diffusamente interpretata come processo che si evolve nell’ambito delle relazioni prodotte in stretto rapporto con le configurazioni contestuali e gli elementi di mediazione culturale in esse presenti” (Santoianni, Striano, 2003, p.94). In questo senso è centrale il sistema simbolico condiviso dai membri di una comunità culturale. Tale sistema contribuisce sia all’organizzazione della società e dei suoi stili di vita, sia al passaggio longitudinale verso le generazioni successive. I sistemi simbolici, le trame di significato che vi si producono, “rappresentano un elemento essenziale e costitutivo nello sviluppo della mente umana. La crescita cognitiva individuale si determina, infatti, mediante l’uso e la condivisione di linguaggi e di strumenti intellettuali prodotti nell’ambito di una determinata cultura. E’ proprio attraverso questi linguaggi e strumenti, inoltre, che si realizzano l’apprendimento e la costruzione di strutture di conoscenza sempre più articolate e complesse” (ibidem). Da questo punto di vista “nessuna conoscenza sta in piedi da sola, indipendentemente da chi la produce”, ma la conoscenza cambia “se stessa e il mondo attorno con il cambiare degli uomini che la producono, la legittimano e se ne servono per formare se stessi e per costruire i loro sistemi di vita” (Orefice, 2001, p. 205).

“La cultura in questo senso è superorganica. Ma modella anche la mente dei singoli individui. La sua espressione individuale è legata al fare significato, all’attribuzione di significati alle cose in situazioni diverse e in occasioni concrete. Fare significato implica situare gli incontri con il mondo nel loro contesto culturale appropriato, al fine di sapere ‘di cosa si tratta in definitiva’. Benché i significati siano ‘nella mente’, hanno origine e rilevanza nella cultura in cui sono stati creati. È questa collocazione culturale dei significati che ne garantisce la negoziabilità e, in ultima analisi, la comunicabilità. Il punto non è se esistano o meno dei ‘significati privati’; quello che conta è che i significati costituiscono la base dello scambio culturale. In quest’ottica il conoscere e il comunicare sono per loro stessa natura profondamente interdipendenti, direi anzi praticamente inseparabili. Infatti, per quanto possa

sembrare che l’individuo operi per proprio conto nella sua ricerca di significati, non lo può fare, e nessuno lo può fare, senza l’ausilio dei sistemi simbolici della propria cultura. È la cultura che ci fornisce gli strumenti per organizzare e per capire il nostro mondo in forme comunicabili. La caratteristica distintiva dell’evoluzione umana è legata alla particolare evoluzione della mente, che si è sviluppata in modo tale da consentire agli esseri umani di utilizzare gli strumenti della cultura. Senza questi strumenti, simbolici o materiali che siano, l’uomo non è una ‘scimmia nuda’, ma solo una vuota astrazione. La cultura dunque, pur essendo essa stessa una creazione dell’uomo, al tempo stesso plasma e rende possibile l’attività di una mente tipicamente umana” (Bruner, 2004, p.17).

La realtà esperienziale risulta quindi interpretata soggettivamente attraverso le coordinate messe a disposizione, implicitamente o esplicitamente, dai sistemi culturali di appartenenza. “I processi cognitivi vengono così a definirsi in prima istanza come processi ermeneutici più che come processi elaborativi in quanto interpretano e mettono in relazione esperienze e, attraverso il linguaggio, consentono di mettere a confronto e condividere le esperienze vissute da più soggetti allo scopo di costruire un adeguato e funzionale patrimonio di strumenti di decodifica della realtà; in tal modo il soggetto non si trova ogni volta ad elaborare ex novo i suoi strumenti interpretativi, ma può trovarli già disponibili in una cultura e, a sua volta, trasmetterli” (Santoianni, Striano, 2003, p.94).

In una prospettiva “macro”, il culturalismo guarda alla “cultura come sistema di valori, di diritti, di scambi, di obblighi, di opportunità, di potere. Sul versante “micro” esamina come le richieste di un sistema culturale influenzino coloro che devono operare al suo interno. In questo spirito, il culturalismo si concentra sul modo in cui gli individui costruiscono realtà e significati che permettono loro di adattarsi al sistema, con quali costi personali e con quali aspettative” (Bruner, 2004, p. 25). In entrambi casi risulta centrale il ruolo del linguaggio come sistema simbolico privilegiato per garantire la funzione principale che è quella del “fare significato”, cioè di attribuire significati alle cose in situazioni diverse e in occasioni concrete. Il linguaggio esprime in modo esplicito e direttamente rappresentabile i significati che costituiscono i nodi centrali di ogni cultura. L’idea principale di questo approccio è che le azioni culturalmente condivise sono un modo particolarmente efficace per rappresentare la cultura, anche se non la rappresentano esplicitamente; la rappresentazione è implicita (Moscardino, Axia, 2003, p.26). Gli aspetti impliciti della cultura possono, però, venire operazionalizzati, ossia formulati in termini operativi per poter essere misurati e indagati scientificamente. “Ogni essere umano di ogni cultura è in grado di narrare la propria routine quotidiana, che è conservata in forma schematica nella memoria a lungo termine sotto forma di script ben organizzati. Tali script o schemi sono delle strutture di conoscenza - spesso operanti al di fuori della consapevolezza - che aiutano le persone a orientarsi nella vita quotidiana, in quanto rappresentano la sequenza di eventi e azioni che generalmente si verificano in particolari situazioni sociali (andare al ristorante, fare la spesa al supermercato ecc.). L’indagine della routine si presenta come un mezzo ideale per la psicologia culturale, alla ricerca dei sistemi di significato tipici di una cultura, e anche per il confronto transculturale” (ibidem).

La riscoperta del valore della comunicazione (nella duplice accezione di argomentazione e narrazione) nei processi di costruzione delle conoscenze sociali - che è anche alla base dello sviluppo di molte delle pratiche messe in atto nel CSCL – ha quindi anche una valenza metodologica. La routine può infatti essere indagata attraverso il colloquio, la conversazione, l’intervista, ma può anche essere studiata attraverso l’osservazione diretta e partecipante. La psicologia popolare o psicologia ingenua (folk psycology), spesso contrapposta alla scienza cognitiva (Bruner, 1995, p.46), è una fonte preziosa per comprendere quale ricchezza di capacità e di comportamenti caratterizzino le persone nel loro agire ed interagire nell’ambiente in cui sono inserite. Pensare, apprendere, costruire conoscenze sono processi che nella gran parte dei casi passano attraverso la forma di dialoghi, di “resoconti” o storie, ovvero vengono inscritti in un tessuto di codici interpretativi socio-culturalmente definiti che

vengono spesso considerati come “scontati” dagli appartenenti a quel contesto culturale, ma che non lo sono affatto. I processi “narrativi” assieme ai processi “argomentativi” (Bruner, 1988, p.15) rappresentano le modalità prevalenti di cui l’uomo si avvale per lo sviluppo delle relazioni sociali, e al contempo rappresentano due diversi tipi di funzionamento cognitivo o due modi di pensare. Attraverso il dialogo, soprattutto nell’accezione della narrazione, si produce cultura attraverso la comunicazione di esperienze, eventi ed azioni. Lo sviluppo di trame narrative, oltre al raccontare fatti, consente di condividere valori, sentimenti ed emozioni e, di conseguenza, negoziare significati. La narrazione rappresenta dunque una modalità fondamentale per accedere all’universo simbolico-culturale. Gli individui, nel raccontare, si misurano con il problema di costruire un proprio rapporto con il mondo esterno, tra la propria mente e quella degli altri dando luogo a processi interattivo-culturali, ovvero a modalità di creazione di significato e di attribuzione di senso. Mediante comunicazioni conversazionali, i soggetti imparano ad interpretare l’esperienza e a negoziare i significati di eventi, situazioni, compiti condividendo così il sistema di regole proprie della cultura di appartenenza (Scaratti, Grazzani Gavazzi, 1998, p.317).

La prospettiva culturalista, come la costruttivista e la culturalista, risponde ai problemi dell’apprendimento attraverso la metafora della “partecipazione”, in contrapposizione ai modelli che prevedono l’accesso al sapere come problemi di “travaso o di acquisizione”. Secondo la Sfard (1998) la metafora della participazione guarda all’apprendimento come ad un processo di partecipazione alle diverse pratiche culturali ed alla condivisione di attività cognitive. La conoscenza non esiste in un mondo a sé, ma si realizza nei vari aspetti in cui le menti individuali partecipano alle pratiche culturali (Brown, Collins, Duguid, 1989; Lave, 1988; Lave, Wenger, 1991). Secondo la prospettiva culturalista non c’è quindi distinzione tra azione e apprendimento (Zucchermaglio, 1996), ovvero si tratta di una distinzione fittizia visto che, in questa prospettiva, l’apprendimento è in buona sostanza un processo di partecipazione al processo sociale di costruzione della conoscenza (Greeno, 1998; Vygotsky, 1978) di “acculturazione” (Brown, Collins, Duguid, 1989), di partecipazione guidata (Rogoff, 1990) o di partecipazione periferica legittimata (Lave, Wenger, 1991). Le ricerche nell’ambito del CSCL si ispirano a questo modello, mediante l’attivazione di comunità on line (McConnell, 2000) le cui pratiche sono, in larga parte, “pratiche di discorso” (Pontecorvo, 1993; Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995; 2004; Talamo, Zucchermaglio, 2003). Le attività on-line mostrano infatti le proprie potenzialità soprattutto per l’ampia attenzione che viene riservata ai processi dialogici ed ermeneutici ed allo sviluppo di pratiche condivise tra i partecipanti.