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3.2 Limiti dell’approccio cognitivista e i contributi delle prospettive culturalista e

3.2.1 La teoria dell’azione e l’interazione umana con gli artefatti

Comparando questa visione a quella degli studi classici sull’interazione uomo-macchina si scoprono due importanti differenze (Bannon, Bødker, 1991): la prima è che lo studio degli artefatti non può essere fatto considerandoli solo degli oggetti, è piuttosto necessario guardare a come questi sono capaci di “mediare” l’uso. L’altra è che gli artefatti non hanno solo un significato individuale, ma piuttosto conducono a forme sociali di organizzazione, divisione e condivisione del lavoro. Gli artefatti non hanno, in altre parole, significato se considerati separatamente: acquistano senso solo all’interno di pratiche sociali. Finché questi non sono inseriti in una pratica, non possono essere presi come base per nessun tipo di analisi e riflessione. Per questo è necessario guardare, in primo luogo, all’aspetto collettivo dell’attività umana. Ogni attività è condotta attraverso azioni individuali dirette verso un obiettivo o un altro soggetto. […] Ogni azione che un essere umano compie è implementata attraverso una serie di operazioni. Mettere un chiodo richiede di tenere e dirigere il martello direttamente verso il chiodo, tenere il chiodo, conoscere la velocità e l’angolatura del martello quando colpisce il chiodo, ecc. Fare un’iniezione significa prestare attenzione al paziente, trovare la vena, ecc. Ogni operazione è connessa alle concrete condizioni fisiche e sociali necessarie per condurre l’azione, ed è condizionata dalle specifiche condizioni che sono presenti in quel momento” (ibidem). Se accettiamo questa prospettiva sulla natura degli artefatti, è allora necessario studiarli nel loro “contesto d’uso” e non isolati. Prendendo un esempio dall’ambito del HCI, è necessario studiare un programma di videoscrittura nelle mani degli utenti reali: siano essi una esperta segretaria, o un giovane studente: la pratica dell’utente è importante, come lo sono il suo ruolo, le sue condizioni di lavoro e i motivi per cui lo utilizza: questo è il significato reale dello slogan “user-centered system design”. La teoria dell’azione, in particolare nella prospettiva proposta da Engeström (cfr. § 2.5), costituisce un interessante modello per la descrizione e la spiegazione dell’attività umana con gli artefatti nei contesti sociali. Questo approccio permette di analizzare a più livelli l’attività umana, proponendo un insieme di concetti per descriverla nell’insieme, nonché nelle diverse componenti che la costituiscono. Tale approccio apporta alle ricerche in ambito HCI una serie di assunti fondamentali per la comprensione delle interazioni con le tecnologie in “situazione”. Sono ormai molti i lavori, anche nell’ambito del CSCL (Hyppönen, 1998; Fjuk, Ludvigsen, 2001; Fjuk, Smørdal, 2001; Romeo, Walker, 2002), che applicano il modello sistemico di Engeström (1997) per studiare i bisogni dell’utente e per sviluppare iterativamente dei sistemi di valutazione dello sviluppo delle tecnologie. Lo studio degli artefatti, in questa prospettiva, richiede di riflettere a partire da ogni lato del poliedro che rappresenta le componenti del sistema sociale delle attività. L’unità di analisi degli artefatti deve cioè includere le “prassi” correnti così come gli specifici materiali e il setting sociale e storico-culturale che caratterizzano tale uso. Engeström (1987) guarda in particolare ai processi di trasformazione in atto nei setting organizzativi. Il suo punto di partenza sono le situazioni problematiche, dove c’è una ragione per qualcuno per desiderare un cambiamento (in questo caso specifico potrebbe essere la richiesta di un software più adeguato). L’idea è quella di guardare alle contraddizioni presenti all’interno dell’attività e le attività circostanti dal momento che esse costituiscono la base per il cambiamento: egli guarda alle contraddizioni nel come gli strumenti, gli oggetti e i soggetti sono visti. Ogni oggetto può infatti essere visto da prospettive diverse. Nell’analisi sviluppata da Romeo e Walker (2002), ad esempio, viene analizzata l’introduzione delle ICT in una scuola primaria a partire dalle

riflessioni dei diversi attori: il principale (preside), il coordinatore delle analisi tecnologiche e due diversi insegnanti. Ogni attore viene intervistato circa gli elementi che compongono il poliedro: come valuta gli strumenti, come descrive se stesso, i ruoli, la comunità, la divisione del lavoro e gli obiettivi. La molteplicità delle prospettive evidenzia non solo le diverse modalità di cogliere la realtà, ma anche i nodi problematici che nascono a partire dal disallineamento nella visione e nelle aspettative nei diversi attori.

Figura 10. Come Kevin, il preside della scuola, descrive dal suo punto di vista

il processo di innovazione tecnologica nel lavoro di Romeo e Walker (2002, p.326).

La teoria dell’attività può quindi essere utilizzata come modello per guardare agli artefatti, alle pratiche ed alle aspettative da prospettive diverse. Engeström (1987) suggerisce di studiare le contraddizioni, ad esempio, tra lo strumento correntemente utilizzato e il risultato ottenuto, o le norme che fanno parte della prassi e della divisione del lavoro. Molte delle contraddizioni potrebbero non essere osservabili nello stesso momento, o non derivare da motivazioni razionali. Per questo motivo è necessario, in questa prospettiva, sviluppare analisi dettagliate delle attività umane e delle loro contraddizioni al fine di individuare le ragioni per cui gli artefatti potrebbero non funzionare. Senza un’indagine accurata, potremmo infatti non accorgerci che uno strumento perfettamente funzionante fuori dallo specifico contesto potrebbe non essere accettato o accolto in ambiti specifici. Fjuk e Smørdal (2001), utilizzando il modello sistemico di Engeström per l’analisi dei contesti di azione, ed in modo particolare per la comprensione dei processi di apprendimento collaborativo, individuano tre aspetti interconnessi: la costruzione della conoscenza e lo sviluppo dei significati (development of meaning and construction of knowledge), il processo di scambio (exchange process) e il processo di creazione dei ruoli (role-taking process).

Figura 11. Gli aspetti dell’attività collaborativa (Fjuk, Smørdal, 2001, p.4).

Il modello (Figura 11) mostra che lo studente non è isolato, ma fa parte di una comunità di apprendimento caratterizzata da processi di scambio e di attribuzione di ruoli. Il processo di

Divisione del lavoro Comunità Regole Artefatto di mediazione Oggetto Studente Sviluppo del significato Uso del significato Processo attribuzione ruoli Processi di scambio

scambio riguarda le azioni dello studente dirette verso la condivisione della conoscenza con la comunità, mediate dalle regole della comunità (leggi, tradizioni, distanze fisiche, ecc.). Il processo di attribuzione dei ruoli riguarda le azioni volte verso la creazione condivisa dalla comunità del sistema di ruoli, compiti e responsabilità. Al centro della figura si ritaglia uno spazio l’uso del significato (use of meaning) che riguarda le “azioni situate” di appropriazione del bagaglio di conoscenza disponibile. Aspetto questo che si colloca al centro di una serie di questioni tra cui lo studio dei processi di sviluppo dei cambiamenti duraturi che riguardano le capacità dell’individuo singolo una volta sottoposte all’arricchimento derivante dalla partecipazione ad una comunità di pratica. Una questione cruciale è rappresentata, in questo senso, dalla scelta di strumenti tecnologici capaci di mediare e facilitare i processi cognitivi. Molti strumenti infatti sono generici e il loro utilizzo è disegnato per motivi diversi da quelli di una comunità di pratica.

A partire da questa impostazione, applicando il diagramma di Engeström in un contesto di apprendimento collaborativo in rete al fine di individuare le contraddizioni e le debolezze interne al sistema, Fjuk e Ludvigsen (2001) mostrano (Figura 12) come la relazione tra studenti in una comunità di apprendimento distribuita è soggetta a molteplici influenze e mediazioni ad iniziare dai principi didattici e le tradizioni istituzionali esistenti, agli strumenti di lavoro (informatizzati) utilizzati. Inoltre, l’impegno della comunità è rivolto allo sviluppo dell’ambiente di apprendimento collaborativo e la conoscenza individuale è mediata dai ruoli incorporati nel processo di collaborazione (per esempio le responsabilità collettive o individuali nelle varie fasi). Quando l’unità di analisi si espande all’interazione tra differenti sistemi di attività, la complessità con la quale è necessario confrontarsi aumenta. La figura evidenzia, inoltre, le contraddizioni esistenti tra principi didattici e le soluzioni ICT che rispettivamente conducono alla produzione di nuovi principi didattici, ma anche di diverse soluzioni tecnologiche. Nel processo di analisi e di implementazione, inoltre, questa complessità può essere operazionalizzata in termini di domande: come gli artefatti svolgono il ruolo di mediatori verso lo sviluppo di modalità cognitive degli studenti?, e lo sviluppo e condivisione della comunità di apprendimento? Come i principi pedagogici mediano la collaborazione nella comunità in rete? Come le tradizionali istituzioni mediano la distribuzione e il progresso dei lavori nella comunità? (Fjuk, Ludvigsen, 2001).

Figura 12. Analisi delle attività in un contesto di apprendimento collaborativo supportato

Dall’analisi di Fjuk e Ludvigsen emerge che collaborare in rete è un fenomeno complesso in cui i fattori sono altamente interconnessi tra loro. La comprensione dell’adeguata funzionalità degli strumenti richiede l’individuazione di risposte in ognuna delle dimensioni del rapporto triadico tra tecnologie, modelli pedagogici e sistemi di consegne. Il punto centrale fornito da questa prospettiva allo studio dell’ergonomia e del rapporto uomo- macchina è che la complessità deve essere studiata in maniera unitaria. La teoria dell’Attività consente infatti un approccio peculiare allo sviluppo di analisi su più fronti. Le tecnologie, come abbiamo visto, non sono un elemento avulso dal resto. Valutare l’efficacia delle tecnologie significa farlo nel contesto, analizzando il punto di vista di ogni attore e interrogandosi su come il sistema complessivo delle attività risulti integrato e funzionale al raggiungimento degli obiettivi.

Se l’interazione tra individuo e macchina, come abbiamo visto, è caratterizzata da complicate relazioni cognitive, dal punto di vista dell’interazione di più utenti attraverso le “macchine” – come di fatto avviene nell’apprendimento collaborativo in rete – comporta il dover ampliare (ed in parte spostare) il livello di riflessione alla capacità degli individui di negoziare significati, condividere regole, impostare strategie condivise di utilizzo. Non si tratta più, e solo, di un rapporto tra individuo e strumenti, ma tra comunità ed accettazione degli strumenti come mediatori relazionali. Subentra l’esigenza della negoziazione del quadro d’uso, ovvero delle modalità con cui gli individui utilizzeranno gli strumenti. Il singolo, quando solo, può anche usare uno strumento in maniera impropria, ma con la presenza di altri è necessaria una condivisione profonda, anche se non necessariamente esplicita, degli obiettivi e delle valenze ad essi associate (affettive, simboliche, magiche, ecc.). Ma la negoziazione fino a che punto sgombra il campo da possibili malintesi? È pur sempre possibile che ognuno continui ad utilizzare ogni strumento in maniera propria e stereotipata presupponendo che gli altri agiscano analogamente e fraintendendo quindi il significato del lavoro altrui. Lavorando in rete, ad esempio, esiste la possibilità di comunicare attraverso una varietà di mezzi (cfr. 4.4.1). Cosa succede se una parte del gruppo decide di utilizzare strumenti diversi? Cosa succede se gli studenti iniziano ad utilizzare strumenti non previsti da chi ha organizzato il corso?

Analizzare gli strumenti sulla base della loro idoneità a risolvere i problemi per i quali i progettisti li avevano ideati non è sufficiente. Come non è sufficiente limitarsi ad un esame, pur necessario, dei vincoli e delle opportunità offerte. Lo strumento, infatti, nel contesto d’uso reale potrebbe trovare applicazioni completamente diversa o non essere utilizzato affatto.

Brown e Duguid (1994) sostengono che l’uso comune dei manufatti è sostenuto dalle risorse latenti ai bordi (latent border resources) che si trovano oltre la superficie del manufatto stesso. È cioè necessario capire, in particolare per coloro che sono impegnati nella progettazione, che le risorse marginali giocano un ruolo centrale nello sviluppo delle reali pratiche d’uso. Più che le funzioni esplicite, quelle per intendersi che regolano l’accesso alle funzioni, per gli utenti sono importanti la valenza simbolica, le potenzialità economiche, le opportunità concrete legate alle specifiche attività. Per questo non di rado avviene che gli utenti determinino un utilizzo completamente diverso rispetto a quello delle originali intenzioni degli sviluppatori (Perriault, 1989; Bannon, Bødker, 1991; Docq, Daele, 2001). A maggior ragione, nell’ambito delle esperienze di apprendimento collaborativi in rete, dove l’autonomia del gruppo viene incentivata quale presupposto per lo sviluppo di capacità partecipative e negoziali necessarie per il raggiungimento degli obiettivi prefissi, non è pensabile ignorare la “forza” dello stesso nel ridefinire il significato e le prassi di uso degli strumenti.

Guardare agli artefatti come a strumenti di mediazione inseriti all’interno delle pratiche sociali consente di interrogarsi in maniera appropriata sulle modalità con cui, all’interno della comunità e del suo sistema di regole e di modalità operative, gli strumenti verranno

impiegati. Per questo nell’ambito dell’HCI si sono fatti strada metodi di lavoro finalizzati alla comprensione degli utenti: i loro bisogni, desideri e approcci al lavoro.

L’indagine contestuale (Beyer, Holtzblatt, 1998) è una delle metodologie che meglio raggiungono questo scopo, adattandosi all’analisi di qualsiasi attività. L’obiettivo primario di questa, come di quelle ricerche sviluppate a partire dal modello proposto da Engeström, è la raccolta di dati attraverso tecniche di osservazioni simili a quelle utilizzate da antropologi ed etnografi nel loro lavoro. È infatti evidente che l’adattamento delle tecnologie nel contesto segue regole comprensibili solo all’interno dello stesso. Cercheremo di comprendere meglio questo aspetto nella terza ed ultima parte di questo lavoro, grazie all’osservazione, ad all’analisi delle informazioni raccolte direttamente dallo specifico contesto di uso del CSCL.