3.3 Artefatti: ristrutturazioni cognitive e nuove pratiche sociali
3.3.1 Note di ergonomia didattica
Lo studio delle peculiari modalità umane di costruire strutture e schemi adeguati ad intrattenere relazioni adattive con il mondo offre l’occasione per porre una specifica attenzione nella progettazione delle azioni formative. L’esigenza di comprendere le interazioni tra gli strumenti e i contesti socio culturali all’interno dei quali si sviluppano i processi formativi ed apprenditivi diventa particolarmente urgente nel momento in cui se ne evidenziano le reciproche contaminazioni. Se l’ergonomia attraverso gli approcci di livello “micro” (cfr. § 3.1) e di livello “macro” (cfr. 3.2) si preoccupa di comprendere le interazioni tra strumenti, sistema cognitivo umano e contesto socio ambientale al fine di realizzare artefatti sempre più capaci di funzionare in maniera efficace e trasparente (Norman, 2000; Cooper, 2000), nell’ambito della pedagogia – laddove le tecnologie vengono, poi, impiegate (non necessariamente nella forma di strumenti informatici) – è necessario sviluppare riflessioni specifiche su quali siano gli apporti e quali siano gli ostacoli legati al loro utilizzo. Da questa prospettiva, infatti, è importante guardare al se, e come, gli artefatti (materiali o immateriali, naturali o artificiali) contribuiscano alla promozione dell’esperienza educativa. Si tratta cioè di comprendere quali fattori siano in gioco e di come ogni singolo strumento – visto come mediatore culturale – contribuisca a creare promuovere o ritardare il raggiungimento degli obiettivi formativi. Tali riflessioni possono essere fatte ad ogni livello, visto che nella loro accezione più ampia sono “tecnologie”, non solo i computer, ma anche i libri, le dispense, o le stesse metodologie didattiche. Da questo punto di vista gli insegnanti dovrebbero, ad esempio, domandarsi se il proprio lavoro sia o meno idoneo a canalizzare e ottimizzare gli sforzi richiesti agli studenti verso gli obiettivi e che tipo di impegno ermeneutico di decodifica e ristrutturazione in schemi cognitivi del complesso sistema dei simbolico è implicato nello specifico contesto di apprendimento. Allo stesso modo gli autori dei contenuti (dai testi tradizionali a quelli multimediali) dovrebbero riflettere su quali attenzioni abbiano veramente riservato al rispetto delle caratteristiche fisiologiche e psicologiche dei lettori attraverso un’idonea modulazione degli argomenti ed alla loro capacità di permanere efficacemente nel “fuoco dell’attenzione”. Queste considerazioni sono chiaramente centrali nell’ambito delle esperienze supportate da tecnologie elettroniche, come nel caso del CSCL. Ma il problema generale di comprendere la specificità dei singoli elementi intervenienti, magari attraverso un’analisi del setting da prospettive diverse, è cruciale se si desidera ottenere miglioramenti complessivi sui piani della qualità della comunicazione, dell’attenzione, delle risposte. Essere consapevoli dei meccanismi in atto (quale “modello concettuale” dell’evento complessivo viene fornito? Quali regole e ruoli esistono? Quali feed-back vengono dati? Quali “affordance del pensiero” sono offerte?) è necessario per un efficace sviluppo delle attività e poter comprendere, alla fine, la qualità dei risultati ottenuti. Il problema, bene evidenziato da Norman (1995), è relativo al fatto che il flusso di attenzione, ovvero l’assorbimento in un’attività cognitiva, come ad esempio nello studio, risulta essere ottimale quando il focus dell’attenzione viene a concentrarsi sul compito stesso, non sullo strumento: “gli strumenti dovrebbero restare sullo sfondo, diventando una parte naturale del compito” (Norman, 1995, p.47). Affinché questo possa realizzarsi è quindi necessario che la progettazione d’insieme non fornisca occasioni di distrazione, di divagazione o di sottrazione dell’attenzione: questo sia nel senso di inproduttive richieste di attenzione (sforzi) verso il controllo dei mediatori, quali gli artefatti
culturali presenti nel contesto, sia in senso ludico o in altra direzione. Per comprendere meglio come la progettazione di uno strumento, o di un contesto operativo, possa aiutare nello svolgimento di questo compito la psicologia cognitiva è solita distinguere tra due diverse modalità di esecuzione dei compiti mentali, e quindi anche di apprendere: la modalità “esperenziale” (percettivo-motoria) e quella “riflessiva” (o simbolico-ricostruttiva). La prima è più spontanea per gli esseri umani ed è legata al fare, all’apprendere agendo o giocando, mentre la seconda è più artificiosa, ma anche più efficace dal momento che consente l’accesso, tramite un faticoso lavoro mentale di decodifica e di significazione a grandi quantità di conoscenza strutturata e resa disponibile da altri. La modalità esperienziale comporta un’elaborazione percettiva ed ha un ruolo importante anche nei compiti riflessivi, ad esempio in alcune fasi dell’interazione con gli strumenti, come abbiamo visto parlando della teoria del controllo della azioni, il riconoscimento a livello percettivo della situazione può portare a una risposta esperta stimolata dal contesto, senza necessità di una profonda riflessione o pianificazione. La modalità riflessiva è invece “quella dei concetti, della pianificazione e della riconsiderazione. È lenta e laboriosa. La cognizione riflessiva tende a richiedere sia l’aiuto di supporti esterni - scrittura, lettura, strumenti di calcolo - sia l’aiuto di altre persone. Se si vuole che offrano il massimo supporto alla cognizione, le rappresentazioni esterne devono adattarsi con precisione al compito particolare. La riflessione avviene in modo ottimale in un ambiente tranquillo, privo di altri materiali oltre a quelli rilevanti per l’esecuzione del compito. Ambienti ricchi, dinamici, troppo presenti, possono interferire con la riflessione: essi guidano l’individuo verso la modalità esperienziale, attivando la cognizione attraverso le percezioni dell’elaborazione diretta dagli eventi, e quindi non lasciando sufficienti risorse mentali per la concentrazione richiesta dalla riflessione. In termini di scienza cognitiva, la cognizione riflessiva è una forma di elaborazione top-down, diretta concettualmente” (Norman, 1995, p.38). Il pensiero è naturalmente un’attività complessa che comporta un impegno articolato sotto diverse fattispecie. Per questo entrambe le modalità sono ugualmente utili e solitamente compresenti (o indistinguibili) nelle attività quotidiane. Ciò nonostante la distinzione fra pensiero esperienziale e riflessivo merita di essere presa in considerazione, sia perché molta della nostra tecnologia sembra costringerci verso un estremo o l’altro, sia perché tale classificazione consente di caratterizzare meglio la natura degli schemi mentali di cui abbiamo parlato. Gli “strumenti adatti alla cognizione esperenziale dovrebbero rendere disponibile un’ampia gamma di stimolazioni sensoriali, insieme a un’informazione sufficiente a minimizzare l’esigenza di deduzioni logiche. Analogamente, gli strumenti per la riflessione hanno il compito di facilitare l’esplorazione di concetti e idee. Essi dovrebbero rendere più semplice il confronto e la valutazione, nonché l’esplorazione di possibili alternative. Non dovrebbero limitare il comportamento alla modalità esperienziale. In entrambi i casi, riflessivo ed esperienziale, gli strumenti devono essere invisibili: non devono intralciare il cammino” (Norman, 1995, p.38). L’uso inappropriato di strumenti e metodi può portare ad utilizzare mezzi inappropriati per raggiungere le finalità prefissate (ad esempio sperimentare quando si dovrebbe riflettere) oppure imporre inutili sforzi mentali costringendo a perdite di tempo e di motivazione.
Nell’ambito della formazione è necessario partire dagli schemi forniti dagli studi sull’ergonomia (i principi generali che regolano le dinamiche di interazione tra individui e strumenti), come quelli fino a qui visti, ma occorre anche spingere la riflessione verso considerazioni di ordine superiore. Siamo nell’ambito di quelle indagini che Calvani (2001) ha chiamato di ergonomia didattica. “L’ergonomia didattica si colloca all’intersezione tra l’ergonomia e la tecnologia dell’educazione, differenziandosi tuttavia da entrambe. Essa si distingue dai compiti tradizionali dell’ergonomia, pur accogliendo da questa la sollecitazione ad un più attento esame del gioco dei carichi cognitivi; nell’ergonomia didattica non è l’alleggerimento del carico cognitivo in sé l’obiettivo da conseguire, bensì che il sistema uomo-macchina funzioni, garantendo un impegno cognitivo di buona qualità nei soggetti coinvolti” (Calvani, 2001, p. 83).
Gli obiettivi dell’ergonomia non sono necessariamente quelli della didattica. Se l’ergonomia mira, infatti, a semplificare, a rendere “meno faticoso” lo sforzo (in questo caso:) mentale, arrivando cioè ad alleggerire il compito dello studente, magari cercando di rendere l’oggetto di studio anche piacevole da utilizzare, gli obiettivi richiesti dalla formazione, ovvero quelli di un apprendimento efficace potrebbero venire disattesi.
Come evidenzia Pea (1993, p.242) molti strumenti, come ad esempio quelli elettronici altamente sofisticati – dai conta battiti per lo jogging, ai localizzatori di strade, o ai dizionari e calcolatori cambia-valute – sono stati progettati per risolvere problemi di interesse comune. Questi strumenti incorporano una grande quantità di conoscenze e abilità di ragionamento, ma possono benissimo essere usati anche senza alcuna consapevolezza della loro complessità implementativa. Gli artefatti in generale possono facilitare l’esecuzione degli aspetti cognitivi dei compiti per cui essi vengono impiegati e, del resto, gli ambienti in cui viviamo sono pieni di artefatti che, usati costantemente e di solito automaticamente, contribuiscono a ridurre l’ammontare dello sforzo mentale richiesto per perseguire specifici obiettivi. Le “attività mediate dagli artefatti”, come le chiamano Cole ed Engeström (1993), hanno quindi la caratteristica di “spostare” sullo strumento buona parte del carico cognitivo. L’apprendimento richiede invece, e soprattutto, un coinvolgimento attentivo e riflessivo che spesso comporta impegno e fatica mentale, ovvero – riprendendo Salomon (1992, p.62) – è necessario che si sviluppino conoscenze di alto livello nello specifico campo di studio, la cui cosa non è pensabile possa essere condivisa né con le tecnologie, ma neppure con altre persone. Per questo gli obiettivi dell’ergonomia si affiancano a quelli della didattica nell’alleggerimento del carico cognitivo in alcune specifiche fattispecie, divergendo invece sostanzialmente in altre. Naturalmente molto dipende anche dall’oggetto dell’apprendimento. Se ad esempio la conoscenza è finalizzata prevalentemente all’azione, come nel caso dell’imparare a fare qualcosa, più semplice è l’azione – ovvero maggiore è il compito incamerato dagli strumenti (svolto dalle macchine) e minore conoscenza sarà richiesta. Si tratti di guidare un veicolo, come un aeroplano, o di fare delle sofisticate ricerche di chimica farmaceutica, più sofisticati sono gli strumenti capaci di affiancare l’uomo nel suo lavoro e meno sforzo verrà richiesto nell’uso. Se l’apprendimento fosse infine finalizzato all’uso di questi strumenti, magari attraverso interfacce semplici, ancorché sofisticate, allora potremmo ritenere che l’aver spostato il compito sullo strumento, anche dal punto dell’apprendimento, non avrebbe danneggiato il soggetto. In questo caso il cerchio si chiuderebbe: strumenti più potenti (ovvero maggiori capacità incorporate) assieme ad una minore necessità di apprendimento per il loro uso equivarrebbero ad un minore sforzo generale richiesto durante l’apprendimento. Ma questo solo se lo strumento tecnologico utilizzato per apprendere contiene (incorpora) il fine. Se invece è un mezzo per raggiungere un diverso scopo, come nel caso dell’uso del computer per conoscere una nuova tecnica di vendita o imparare il tedesco, allora lo strumento nonostante possa essere semplificato, in quanto a specifiche modalità di utilizzo, non può contribuire più di tanto al semplificare l’apprendimento. L’equazione strumenti più efficaci uguale migliore apprendimento non è così diretta. Ed anzi, il rischio maggiore sta proprio nel primo caso in cui, come conseguenza indiretta del fatto che lo strumento abbia incorporare le parti complesse del compito, si assiste ad un corrispondente depauperando delle attività e delle capacità cognitive umane. Il problema di fondo, nel rapporto con gli artefatti tecnologici, è che la loro presenza ristruttura comunque il modo di eseguire i lavori e di risolvere i problemi. Pensiamo alla calcolatrice utilizzata in ambito scolastico: semplifica la modalità di svolgimento del compito, ma sottrae alla mente la possibilità e la flessibilità di raggiungere il risultato per altre strade. Il connubio tra mente e media pertanto deve essere adeguatamente gestito. Il fatto che uno strumento come la calcolatrice porti ad esempio uno sgravio nello svolgimento di determinate funzioni non è necessariamente controproducente. Perkins (1993), ad esempio, nell’ambito delle ricerche sulla “distributed cognition” insiste sull’esigenza di insegnare a sfruttare adeguatamente anche gli apporti del contesto ambientale alla risoluzione dei problemi. Il contesto esterno all’individuo (ambiente, strumenti, persone) può infatti fornire un completo supporto alla cognizione fornendo o aiutando a strutturare, rappresentare o recuperare in
vario modo la conoscenza. È bene però avere la consapevolezza che ciò che viene “esternalizzato”, ovvero spostato come carico di lavoro sullo strumento, alleggerisce il sistema interno, la mente. In alcuni casi questo è positivo perché è attraverso questa sinergia mente-strumento che si possono sviluppare le condizioni per attività diverse ed eventualmente più impegnative o significative. Sarebbe viceversa estremamente controproducente se questo “spostamento” significasse invece un alleggerimento fine a se stesso: in questo caso sarebbero presenti le premesse per un depauperamento delle capacità individuali.
L’ergonomia didattica ha quindi due scopi: uno conservativo, volto ad impedire che l’impiego della macchina si accompagni ad una riduzione dell’attività cognitiva di buona qualità, ed uno propositivo, ciò volto a suggerire eventuali riconfigurazioni del contesto didattico. Possiamo sostenere che in ogni situazione di apprendimento sostenuta da tecnologia avremo bisogno di controllare che:
“Il problema da risolvere sia esso stesso di qualità tale che garantisca un buon livello di attività cognitiva e che giustifichi l’impiego del mezzo per la sua risoluzione; il rapporto con l’interfaccia non sia tale per cui la tecnologia assorba di per sé troppa energia a scapito della soluzione del problema; l’atteggiamento del soggetto non sia tale da delegare le funzioni interne allo strumento; l’integrazione mente-medium agisca piuttosto in sinergia in vista della soluzione del problema; il contesto didattico circostante sia esso stesso adeguatamente orientato, evitando fattori di dispersione che possono interferire con la soluzione del problema” (Calvani, 2001, p. 84).
Come regola generale, in un dominio che per definizione non ne ha, potremmo quindi dire che gli strumenti, visti come mediatori della conoscenza, devono collocarsi in maniera adeguata tra gli individui e gli obiettivi del loro apprendimento. Le tecnologie, da sole, non hanno la facoltà di migliorare i processi di apprendimento e di insegnamento ed anzi una conseguenza del loro cattivo uso è la paradossale trasformazione in distrattori e sottrattori di attenzione33. Come è semplicistico ritenere sufficiente il loro utilizzo per avvantaggiarsi appieno delle loro potenzialità (Perkins, 1993, p.95 chiama “fingertip effect” questi effetti). Gli strumenti devono trovare un’equilibrata collocazione all’interno del processo formativo: la loro collocazione deve adeguarsi agli scopi specifici dell’apprendimento senza semplificare eccessivamente le modalità di accesso, né - viceversa – rendere troppo complesso il compito; in entrambi i casi infatti viene favorito l’allontanamento dell’attenzione e dello sforzo di chi apprende dal problema da risolvere. L’obiettivo prefissato è quello di ottenere una valida sinergia tra la mente e l’oggetto, affinché entrambi possono contribuire a sviluppare e potenziare le possibilità della mente.
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Salomon (2000) chiama questo fenomeno focus tecnocentrico: “non la conoscenza, ma il computer diventa l’oggetto centrale. […] Il computer, come la mela biblica, attira più attenzione, è un oggetto di tentazione molto più che i nuovi approcci all’insegnamento”.
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Ambienti CSCL e apprendimento in rete
Non vi sono dubbi circa l’influenza dell’architettura e della struttura sul carattere e sulle azioni umane. Prima noi plasmiamo i nostri edifici, poi i nostri edifici plasmano noi. Winston Churchill 34
Il presente capitolo, dopo che i precedenti si sono occupati di mettere a fuoco i rapporti esistenti tra uomo e tecnologie dal punto di vista cognitivo e apprenditivo (capitolo secondo) e da quello dei meccanismi intervenienti nell’interazione e nell’uso (capitolo terzo), si prefigge l’obiettivo di guardare alle specifiche tecnologie della rete assumendo come primaria la metafora del “luogo”. È infatti ormai luogo comune guardare ad Internet attraverso le categorie lessicali dello spazio e del movimento a partire dal nominare i server su cui risiedono le informazioni come “siti” o dal definire l’atto di passare da un server all’altro con il concetto di “navigazione”. A partire da una riflessione sulle caratteristiche degli ambienti (fisici) e sulle implicazioni e relazioni che esistono tra allestimento degli spazi e lo svolgimento delle azioni, verranno più specificamente analizzate le problematiche relative alla creazione ed al mantenimento dello spazio virtuale, che è uno spazio eminentemente sociale, attraverso uno dei suoi principali meccanismi di reificazione che è quello della comunicazione basata sulla scrittura. La comunicazione mediata dal computer (CMC) è la modalità con la quale questi spazi vengono “frequentati”: per questo una parte centrale di questo capitolo se ne occuperà specificamente. Nella parte finale del capitolo verranno quindi passati in rassegna gli specifici ambienti per la comunicazione e l’apprendimento in rete. Non si tratta però dello sviluppo di una rassegna tecnica, quanto di un tentativo di analizzare le caratteristiche, i vincoli e le potenzialità che ogni specifico strumento mette a disposizione. Riprendendo l’assunto di fondo di questo lavoro, ovvero che gli strumenti (in questo caso costitutivi di “ambienti”) contribuiscono a strutturare dinamiche operative (e quindi processi cognitivi ed apprenditive), si tratterà di avviare una riflessione sulle caratteristiche specifiche in grado di facilitare o precludere le possibilità di incontro, di riflessione e di socializzazione.