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3.1 Approccio cognitivista all’interazione umana con gli artefatti

3.1.2 La teoria del controllo della azioni

Un modello particolarmente fecondo per comprendere l’insieme dei passaggi necessari all’interazione tra uomo e artefatti deriva dalla teoria del controllo delle azioni di Hutchins, Hollan e Norman (1985). Questo modello prevede l’interazione continua tra mente e corpo, tra percezione e azione, tenendo conto sia delle fasi di svolgimento del compito, sia delle possibili difficoltà (distanze) di passaggio da una fase all’altra nel corso dello svolgimento. Il modello, per affermazione degli stessi autori, non rappresenta una teoria psicologica completa, né si presenterà sempre nello stesso modo o richiederà il passaggio di tutti gli stadi o nello stesso ordine. C’è infatti un continuo anello di retroazione tale per cui i risultati di un’attività possono essere usati per indirizzarne altre, oppure per condurre a obiettivi collaterali e sussidiari in una complessa fenomenologia in cui si intrecciano variamente intenzioni consce e inconsce, come pure attività in cui gli scopi vengono scartati, dimenticati, riformulati. Il merito di questo modello è senz’altro quello di essere una guida efficace nell’analisi delle difficoltà d’uso di strumenti, e di fornire un framework entro il quale collocare molte delle conoscenze della psicologia cognitiva (Rizzo, Marti, Bagnara, 2001). Le fasi del modello sono sette, una per gli obiettivi (1. Formazione dello scopo), tre per l’esecuzione (2. Formazione dell’intenzione, 3. Specificazione dell’intenzione, 4. Esecuzione dell’azione) e tre per la valutazione (5. Percezione dello stato del mondo, 6.

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I modelli mentali, secondo la definizione riportata dallo stesso Norman (1997, p. 25) sono i modelli che le persone hanno di sé, degli altri, dell’ambiente e delle cose con le quali interagiscono. I modelli mentali vengono formati attraverso l’esperienza sia in situazioni di apprendimento formale che informale.

Interpretazione dello stato del mondo, 7. Valutazione del risultato). Le distanze sono invece tre, due delle quali sono presenti sia sul lato dell’esecuzione che sul lato della valutazione: la distanza semantica e la distanza referenziale. La terza distanza si riferisce al passaggio dall’esecuzione alla valutazione dell’azione. Le distanze individuano ciò che separa gli stati mentali dagli stati fisici, le relazioni fra le intenzioni e le interpretazioni mentali e le azioni e gli stati del mondo fisico (Norman, 1997).

Analizziamo rapidamente il modello (vedi Figura 9) che può partire in un punto qualunque (le persone quasi mai si comportano nello stesso modo, né sempre prendono le mosse da scopi generali), anche se qui per semplicità lo descriviamo a partire dalla “formazione dello scopo”. L’obiettivo (ad esempio trovare un file contenuto in una cartella all’interno del computer) deve essere tradotto in azioni appropriate nel mondo (specificazione dell’intenzione), ovvero si deve indicare una procedura operativa tra le varie conosciute o intuibili (come prendere il mouse, muovere il puntatore sopra l’icona “Risorse del computer”, cliccare per sfogliare le cartelle, ecc.). L’esecuzione dell’azione impone di combinare correttamente azioni cognitive (sapere cos’è una cartella) e sensomotorie (impugnare correttamente il mouse). L’obiettivo deve quindi essere tradotto in specifiche intenzioni, che a loro volta devono essere tradotte in specifiche sequenze di azioni, azioni che controllano gli apparati percettivo-motori. Si entra quindi nel “golfo” della valutazione.

MENT

FISIC

Interpretazione Intenzione Azione Esecuzione Percezione Obiettivo Valutazione distanza semantica distanza semantica significato del comando forma del comando distanza referenziale distanza referenziale

Figura 9. Il modello della teoria del controllo delle azioni di Hutchins, Hollan e Norman (1985).

Rielaborazione da Rizzo, Marti, Bagnara (2001).

La percezione dello stato del mondo ci consente di acquisire quei dati (es. visione di una serie di file nella cartella appena aperta) che successivamente, attraverso l’interpretazione dello stato del mondo (es. c’è il file cercato?) consentono attraverso la valutazione del risultato (es: “no, il file cercato non c’è, probabilmente è in un’altra cartella...”) di terminare, eseguire nuovamente il ciclo o proseguire con altri obiettivi.

Circa le “distanze” (difficoltà) incontrabili durante l’azione si parla di distanza semantica come della relazione fra le intenzioni dell’utente ed il significato dei comandi offerti dall’interfaccia. In altre parole, tale distanza è funzione della “facilità” con cui l’interfaccia fornisce mezzi e strumenti per esprimere le intenzioni dell’utente. Nella valutazione questa si riferisce all’elaborazione che è richiesta all’utente per determinare se le condizioni di soddisfacimento delle proprie intenzioni sono state realizzate (se il compito, ad esempio, era stampare un documento ho una distanza referenziale ridotta se il programma mi avverte con un messaggio che la stampa è uscita correttamente, è alta se sono costretto ad alzarmi ed

andare a vedere…). La distanza referenziale o “di riferimento” intercorre invece tra il significato di una espressione e la sua forma fisica, sia sul lato dell’esecuzione che su quello della valutazione. Ad esempio le interfacce basate su icone che rappresentano oggetti sui quali è possibile agire sono solitamente meno arbitrarie, e quindi hanno una distanza referenziale minore, delle interfacce a “linea di comando”. La distanza inter-referenziale è infine quella che riguarda la relazione fra le forme di input e quelle di output presenti nel corso dell’interazione. Questa distanza è massima quando le due forme sono completamente distinte.

Il modello presentato acquisisce particolare significato se utilizzato in ambito progettuale e di ricerca ergonomica. Dietro ogni compito si nascondono infatti una vasta quantità di operazioni mentali e fisiche che devono essere precisamente conosciute e governate al fine di semplificare e rendere operativamente possibile lo svolgimento ad un ampio numero di persone.

Gli studi recenti sulla cognizione umana, sviluppati sempre nell’ambito delle scienze cognitive, hanno esteso le riflessioni sul funzionamento della mente davanti ai compiti confermandone tuttavia la validità di fondo. Nell’ambito delle ricerche legate alla progettazione degli artefatti, è emersa in particolare l’esigenza di prendere in considerazione la variabilità dei tratti soggettivi, degli stili di pensiero e delle diverse intelligenze, come pure la necessità di confrontarsi con proprietà meno “osservabili” della cognizione come quelle legate alla motivazione ed al non-conscio. Raskin (2003) riferendosi in particolare agli studi svolti da Baars (1988) suggerisce di considerare le differenti proprietà, e conseguenti modalità operative, a carico rispettivamente del conscio cognitivo e dell’inconscio cognitivo per riferirsi alla presenza di azioni possibili solo in situazioni di attenzione vigile. L’inconscio cognitivo viene usato in situazioni routinarie e consente di soprintendere ad azioni guidate da automatismi, eseguibili anche simultaneamente, ma con il limite che le operazioni siano senza alternative, ovvero automatiche. Il conscio cognitivo entra invece in gioco quando compiamo operazioni che presuppongono alternative, laddove cioè è necessario operare delle scelte, come ad esempio davanti a situazioni nuove, impreviste o pericolose. Solo quando siamo consci di una proposizione possiamo ad esempio decidere se è logicamente consistente. Il conscio cognitivo, a differenza dell’inconscio, opera sequenzialmente e può pertanto occuparsi di una sola questione, o controllare una sola azione, alla volta. Queste considerazioni portano a precisare meglio il ruolo dei “magazzini di memoria”, ma soprattutto delle dinamiche legate alla focalizzazione dell’attenzione ed alla formazione delle abitudini. Gli studi sull’attenzione29 sono da sempre un elemento centrale nella progettazione ergonomica degli artefatti, specie in quei particolari contesti dove lo scopo è sovrintendere a funzioni particolarmente delicate o pericolose come i pannelli di comando di una centrale nucleare o i pulsanti della cabina di pilotaggio di un aeroplano. Come ha fatto notare Penrose (1992) una caratteristica del pensiero conscio è la sua unicità in contrapposizione al gran numero di attività indipendenti che portiamo avanti simultaneamente, ovvero: anche quando sembra che una persona stia svolgendo più attività contemporaneamente, solo una di queste sarà totalmente e completamente al centro dell’attenzione cosciente. Possiamo guidare la macchina ascoltando la radio e contemporaneamente pensare agli impegni della serata. La sensazione è che sia possibile lo svolgimento di più azioni contemporaneamente, in realtà il focus dell’attenzione, il flusso di pensiero conscio, è solo su un’attività. Solo le operazioni automatiche, ovvero quelle che vengono svolte sotto il controllo del pensiero non-conscio, possono essere svolte contemporaneamente. “Se dobbiamo compiere simultaneamente due operazioni, e nessuna delle due è automatica, si assiste a quella che gli psicologi chiamano interferenza: la nostra

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efficienza nel fare due cose assieme è minore di quella che avremmo se dovessimo farne solo una alla volta. Più un’operazione diventa automatica e inconscia, meno interferirà con altre” (Baars, 1988, p.33). Secondo Card, Moran e Newell (1983) gli esseri umani (come del resto i computer) simulano lo svolgimento contemporaneo di più operazioni (multitasking) spostando a turno l’attenzione dall’una all’altra, ma la vera simultaneità si ottiene solo – come nell’esempio precedente dell’automobile – in cui tutte le operazioni che si compiono, tranne una, sono automatiche. Queste considerazioni hanno ricadute importanti sul piano della progettazione di artefatti cognitivi come le interfacce dei sistemi informatici, ma in generale nella progettazione di qualsiasi evento il cui scopo sia ottimizzare le caratteristiche attentive del sistema cognitivo umano. Se l’attenzione conscia può concentrarsi solo su un compito è allora necessario provvedere a progettare sistemi in grado di non sottrarre il fuoco dell’attenzione dell’utente: questo per almeno due motivi, il primo – più scontato – è che per l’utente è importante svolgere il compito primario e non essere distolto da altri tipi di problematiche, il secondo è invece legato a considerazioni connesse al problema degli errori. Siccome l’attenzione conscia può assorbire più o meno profondamente una persona, e visto che alcuni studi sperimentali hanno rilevato una correlazione tra la concentrazione dell’utente sul compito e i tempi necessari affinché la sua attenzione passi ad altro: è chiaro che in alcuni casi il sistema può andare in errore, causando anche danni, prima che l’utente riesca ad accorgersi dei segnali che cercavano di richiamare la sua attenzione.