Nella storia, ogni manifestazione artistica recepisce, interpreta e restituisce attraverso la forma il pensiero dominante. L’architettura lo fa attraverso le strutture degli edifici che diventano così una concretizzazione (più propriamente una reificazione) del pensiero dei committenti. La loro forma però non si limita a rappresentare l’idea, ma attraverso l’uso delle dimensioni, degli spazi, delle luci e dei colori contribuisce a svilupparla e diffonderla. Gli edifici, la cui funzione primaria è quella di proteggere dagli agenti atmosferici esterni, diventano quindi luoghi per lo svolgimento di funzioni specializzate e, attraverso i vincoli e le opportunità che le strutture fisiche producono, guidano le azioni e i comportamenti. Molto di ciò che è consentito fare, come di quello che non è consentito, sono imposte dalla
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disposizione di pareti, porte, finestre e superfici. L’organizzazione degli spazi fisici, degli ambienti nei quali si realizzano le azioni, ha una importanza fondamentale per il raggiungimento dei risultati auspicati. La capacità umana di rispondere in misura adeguata alle diverse esigenze della vita ha portato, nel corso del tempo, a strutturare gli edifici con le fisionomie che conosciamo: abitazioni, ospedali, alberghi, scuole.
La ricerca di nuove forme, di nuove scelte architettoniche, è del resto continua e contribuisce, attraverso la scelta di materiali, la diversa organizzazione degli spazi, l’attenzione alle fonti di illuminazione o la selezione dei colori predominanti, a favorire in varia misura il miglioramento delle attività che verranno svolte nei diversi luoghi. Gli ambienti da sempre orientano ed indirizzano emozioni e sentimenti: ci sono luoghi che stimolano la riflessione, la spiritualità, altri che invitano a rilassarsi, altri che sono espressamente pensati per il lavoro o il divertimento. Le cattedrali rappresentano uno degli esempi più paradigmatici di questo fenomeno. Nel corso dei secoli, in Europa, l’idea della relazione tra uomo e Dio si sviluppa e si trasforma. L’architettura interpreta con forme che di volta in volta mettono l’accento sulla funzione protettiva e contenitiva (architettura romanica), ora sul magnificare la grandezza e la potenza divina attraverso le ardite altezze del gotico, ora sul ritrovato spazio per l’uomo (rinascimentali) fino ad arrivare alle chiese contemporanee che, ispirandosi a spazi aperti, all’agorà dove la comunità si incontra, ridefiniscono in maniera ancora nuova questa relazione. Attraverso l’architettura si interpretano quindi le idee e i valori e, attraverso le forme derivanti si promuovono modalità comportamentali conseguenti. Gli edifici sono quindi funzionali (o disfunzionali) allo sviluppo di comportamenti e, assieme a questi, alla conferma e diffusione dei sistemi valoriali e di credenze che sono alla base di determinate impostazioni. Da questo, naturalmente, non deriva conseguentemente che entrare in una chiesa porti a sviluppare in tutti gli stessi sentimenti. Gli edifici, visti nella loro valenza simbolica, necessitano di essere decodificati ed interpretati all’interno di uno specifico contesto culturale e valoriale. Nel caso degli edifici, però, esistono delle invarianti funzionali – prevalentemente centrate sull’uso delle dimensioni e delle prospettive – che consentono anche a chi non aderisce ad un determinato sistema di valori di venire coinvolti in un meccanismo di attivazione sensoriale. Oggi davanti all’imponenza delle piramidi azteche di Chichén Itzá, senz’altro non abbiamo gli strumenti culturali per comprendere completamente il significato di quei luoghi: non sappiamo esattamente come si svolgessero i riti, quali valori condividessero queste persone, con quali emozioni si avvicinassero alle gradinate, ma in un qualche modo le dimensioni degli edifici, i rapporti tra gli spazi, la distinzione dei luoghi (un sopra e un sotto, luoghi aperti e luoghi chiusi) ci consentono ancora oggi di capire che gli architetti dell’epoca non hanno voluto solo creare un luogo funzionale allo svolgimento di un rito. Attraverso le dimensioni hanno cercato di enfatizzarlo, di creare distanze e separazioni. Una parte di queste funzioni, anche a distanza di secoli, anche se nella lontananza delle culture, riescono ancora ad emergere e porre lo sparuto turista in uno stato di estasiata sottomissione.
Lo spunto per un esempio diverso lo offre il saggio “Inside the white cube” in cui il critico Brian O’Doherty (1976) parla della galleria d’arte ideale come di “uno spazio bianco”. Sulla base di queste idee, dagli anni ottanta, si sono moltiplicate le gallerie ed i musei che si sono adeguati a questa impostazione. L’efficacia del “contenitore bianco”, spazio asettico, se non addirittura ascetico, è talmente efficace che gli anti-funzionalisti l’hanno variamente contestato proprio per la sua capacità di condizionare ed inibire il pubblico inducendolo a “chinare il capo” e “parlare sottovoce”, insomma imprigionandolo. Il contesto ambientale dunque ha un ruolo non secondario nell’indurre le persone, nel “guidarle” anche tacitamente, a svolgere determinate funzioni. Nell’allestimento degli spazi è quindi individuabile anche una “visione” della vita: una concezione preordinata del rapporto tra l’individuo e le funzioni da svolgere in quell’ambiente. La formazione non è naturalmente svincolata da questo tipo di influenze: anche se in maniera non sempre evidente, nel tempo si è sempre affermata l’organizzazione degli spazi più coerente con le visioni pedagogica e filosofico educativa predominanti. Dalla centralità della vasta cattedra, spesso collocata su una pedana rialzata, a rafforzare una concezione dell’insegnamento fortemente trasmissiva ed autoritaria si è ad
esempio passati ad aule scolastiche dove l’aggregazione di banchi in isole o ad anelli ha privilegiato il lavoro di gruppo in sintonia con una concezione dell’apprendimento più democratica e costruttivista.
Analogamente alle metafore, anche gli edifici sono strumenti potenti per l’indirizzo del pensiero sia a livello razionale che emozionale. Uno dei punti su cui vale la pena riflettere, al di là della funzione simbolica, che comunque è sempre compresente, è che gli ambienti artificiali nello strutturare le forme, strutturano assieme allo spazio anche il tempo che è necessario per il suo utilizzo. Gli ambienti svolgono quindi una funzione direttiva: attraverso vincoli ed affordance possono impedire, consentire o facilitare determinate azioni.
Gli ambienti tecnologici recepiscono in maniera particolarmente evidente queste caratteristiche degli ambienti fisici. Le tecnologie possono impedire o indurre determinati comportamenti, possono renderli evidenti, rallentarli, complicarli. Dietro ogni progettazione c’è un’idea che si concretizza in strumenti e funzionalità. Il risultato della progettazione, il prodotto tecnologico, continua ad obbedire all’idea progettuale nelle opportunità e potenzialità, ma anche nei limiti e nelle preclusioni.