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Il lutto negli occhi e nelle parole degli altri

È innegabile che la morte continui a essere l’avvenimento più universale e irrefutabile della vita, la sola cosa di cui siamo veramente sicuri, anche se ne ignoriamo il giorno e l’ora, il perché e il come. Eppure, di fronte a questa inaggirabile certezza, le società contemporanee coltivano con pervicace convinzione l’illusione che la morte si possa dimenticare e che si possa vivere ‘come se’ fossimo immortali. Lo constata con amarezza anche Barnes, percependo nelle parole di chi lo esorta a ‘superare la cosa’ una velata nota di biasimo: “‘Throw off your grief,’ such doubters imply, ‘and we can all go back to pretending that death doesn’t exist, or at least is comfortably far away.’” (106-107) Con la sua decisione di parlare della moglie tutte le volte che ne sente il bisogno, Barnes rappresenta in qualche modo un elemento di disturbo per alcuni tra gli amici e i conoscenti, in difficoltà davanti alla sofferenza dello scrittore: “Some friends are as scared of grief as they are of death; they avoid you as if they fear infection. Some, without knowing it, half expect you to do their mourning for them. Others put on a bright practicality.” (75)

In modo del tutto analogo C.S. Lewis prende atto con amarezza che “[a]n odd by-product of my loss is that I’m aware of being an embarrassment to everyone I meet. At work, at the club, in the street, I see people, as they approach me, trying to make up their minds whether they’ll ‘say something about it’ or not. […] Perhaps the bereaved ought to be isolated in special settlements like lepers. (11)

Lo stesso prova anche Loewenthal, la quale racconta della sensazione che nessuno osi più contraddirla o turbarla (“Si fa attenzione, con le persone in lutto. Le si tratta un po’ come dei malati. Anzi, come dei matti. Con prudenza, fors’anche con un briciolo di timore.” 50).

163 Il dolore di chi ha perso una persona cara mette a disagio: ‘non sta bene’ ed è sconveniente

esternare la propria tristezza e lasciarsi andare al pianto, come aveva peraltro osservato anche Gorer48.

Tutto ciò sembra esser vero anche al di là dell’Atlantico, dove la Oates registra un senso di imbarazzo, di eccessivo pudore e vulnerabilità nella relazione con gli altri; e constata che quel che gli altri si aspettano da lei è la stoica accettazione del suo nuovo status quo: “[…] the Widow must not say such things of course. Far better to be reticent in grief, mute and stoic. Far better to hide away in her nest than to venture into the bright peopled world outside her nest. “(138)

Amici e conoscenti propongono al vedovo di riempire le sue giornate di “quello che gli piace fare”, ma il problema, per Barnes, è che

[…] this usually meant doing things with her. […] I wanted, very strongly and exactly, the opposite: to stay at home, in the spaces she had created and where she still, in my imagination, moved. […] I wanted to watch sport to which I would normally be indifferent. Because now I could only be indifferent; I had no emotions left to lend. (81)

Nella stessa situazione si trova anche Geoffrey Braithwaite, il quale racconta “[…] after they’ve been kind, and promised me outings as if I were a child, and brusquely tried to make me talk for my own good (why do they think I don’t know where my own good lies?), I am allowed to sit down and dream about her a little.” (169-170)

Barnes deplora l’atteggiamento odioso di chi non è disposto ad ammettere l’esistenza del lutto come condizione debilitante e si aspetta che lo scrittore “ne esca” o che “superi la cosa”, come ammette, con una punta di vergogna, anche Braithwaite in veste però di medico: “What do we doctors say? I’m deeply sorry, Mrs Blank; there will of course be a period of mourning but rest assured you will come out of it; […] perhaps a new interest, Mrs Blank; car maintenance, formation dancing?; don’t worry, six months will see you back on the roundabout […].” (160)

48 “[…] we no longer recognize a mourner when we see one – a black tie may be worn for its elegance, without any symbolic intent – and are at a loss and embarrassed when we do consciously meet one. Giving way to grief is stigmatized as morbid, unhealthy, demoralising […] and the proper action of a friend and well-wisher is felt to be distraction of a mourner from his or her grief; taking them ‘out of themselves’ by diversions, encouraging them to seek new scenes and experiences, preventing them ‘living in the past’. Mourning is treated as if it were a weakness, a self-indulgence, a reprehensible bad habit instead of as a psychological necessity.” G. Gorer, op.

164 Se per Barnes il dolore della perdita mette alla prova le amicizie con la conseguenza che alcune

si incrinano irrimediabilmente, per Oates invece la presenza degli amici garantisce la sopravvivenza della vedova: “[…] the memoir is a memoir of loss and grief but also perhaps more significantly a memoir of friendship. It is to suggest that, for the widow, as for all who are grieving, there is no way to survive except through others.” (157-158)

La convenzione sociale impone che della morte non si parli, che non la si nomini neppure, che essa venga avvolta nella cortina fumogena di irritanti metafore, che anziché dire meglio e in altro modo, semplicemente nascondono la realtà, nell’intento di cancellarla. Una prassi, quella della negazione (della malattia e della vecchiaia oltre che della morte) che permea la società intera, e che si traduce in una preoccupazione particolarmente visibile nel linguaggio usato per cercare di non dirla, di non nominarla: dalla comunicazione giornalistica ai tecnicismi del gergo medico- ospedaliero, fino alla ipocrita delicatezza del linguaggio quotidiano e di quello delle agenzie di pompe funebri.

Il linguaggio di chi non ha attraversato “the tropic of grief” (o non è colato a picco nel mare gelido provvisto soltanto di un ridicolo giubbotto di sughero) si nutre di eufemismi, frasi fatte, modi di dire consunti dall’uso e dall’abuso. Barnes non tollera le parole stonate che infastidiscono, le forme banali del cordoglio che feriscono più della verità nuda e cruda: “Someone […] wrote to tell me that a few months previously he had ‘lost his wife to cancer’ (another phrase that jarred: compare ‘We lost our dog to gypsies’, or ‘He lost his wife to a commercial traveller’).” (83)

Anche Loewenthal racconta la nuova insofferenza di fronte ai giri di parole (“I gesti e le parole devono essere veri, altrimenti mi irritano in un modo tale che non li reggo e mando tutto e tutti a quel paese.” 47), l’astio nei confronti di certe espressioni facciali (“Il peggio viene quando incontri quel genere di persone capaci di dire: so quello che provi. Che diavolo sai? Come fai a saperlo? Non lo so neanche io, quello che provo.” 49)

Le espressioni che usiamo per indicare il superamento di un lutto – appunto, “superare”, “guardare avanti”, “voltare pagina” – sottendono una malcelata impazienza nei confronti di tutto ciò che non può essere risolto o guarito. Lo scopo di questo genere di espressioni non è dare conforto a chi soffre, bensì permettere a chi le usa di continuare a pensare ai fatti propri.

165 Barnes detesta l’uso di perifrasi quali "scomparire", "spegnersi", "mancare" che ipocritamente

tentano di mitigare la portata di un evento che mitigabile non è. Come già sosteneva Braithwaite in Flaubert’s Parrot, “the right words don’t exist.” 161: meglio allora usare parole vecchie e dure come “morte”, “strazio”, “dolore”

I did already know that only the old words would do: death, grief, sorrow, sadness, heartbreak. Nothing modernly evasive or medicalising. […] One euphemistic verb I especially loathed was ‘pass’. ‘I’m sorry to hear your wife has passed’ (as in ‘passed water’? ‘passed blood’?). You do not have to force the word ‘die’ on others, even if you always use it yourself. There is a midpoint. At a social event she and I would normally have attended together, an acquaintance came up and said to me, simply, ‘There’s someone missing.’ That felt correct, in both senses. (71)