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Un’idea che a Barnes preme trasmettere è che quando muore la persona amata, si perde la rotta: così accadde a Nadar, così a C.S. Lewis32, così è accaduto a lui stesso, che forse non aveva messo

in conto questo dolore lacerante, convinto, come si evince da un passaggio di Nothing to be Frightened of, che sarebbe stato lui a morire per primo.33

Rispetto a Nothing to be frightened of, in Levels of Life la riflessione e l'indagine sul significato del morire – proprio e altrui – lascia il posto alla descrizione del dolore, alla sua rappresentazione emotiva e anche fisica, che si avvale di metafore e similitudini potenti. Il lutto, con la sua azione dirompente, tende a sottrarsi alla comprensione razionale. Maneggiarlo in modo distaccato appare un’impresa vana, e di nessun sollievo. Ecco allora che la scrittura ne viene influenzata, e trovano spazio immagini la cui forza sta nella capacità di descrivere sentimenti universali.

31 “In widowhood, she said to me, ‘I’ve had the best of life.’” (166)

32 Anche Lewis ricorre a una metafora nautica per esprimere la medesima idea: “[…] one ship. The starboard engine has gone. I, the port engine, must chug along somehow till we make harbour. Or rather, till the journey ends.” (30)

33 “I trust that I shall be disobeyed if, in my last moments, I ask for my electric typewriter, an IBM 196c of such weight that I doubt my wife could lift it.” (99)

152 Niente può preparare alla nuova realtà nella quale si viene scaraventati, nulla può proteggere

dallo shock e dalla sofferenza indicibile che segue la perdita della persona cara, soprattutto non il ridicolo giubbotto di sughero che Barnes si immagina addosso: “[…] you have suddenly come down in the freezing German Ocean, equipped only with an absurd cork overjacket that is supposed to keep you alive.” (69)

L’analisi che l’autore offre degli stati d'animo di chi è colpito da un dolore così devastante è notevolissima per lucidità e finezza. Come è stato osservato, “Barnes svolge il suo compito con la prosa sorvegliata e aguzza di uno scrittore che non vuole arrendersi e capitolare di fronte al dolore.”34

Sebbene, quando si è immersi nel lutto, sembri che il vuoto, l’assenza, il rimpianto, la perdita si somiglino, esiste tuttavia quella specifica perdita, quel particolare senso di assenza. Ciascuno degli autori considerati ha infatti descritto i diversi aspetti del lutto in modo peculiare. Elena Loewenthal parla di terra che sfugge da sotto i piedi, Didion si affida all’immagine delle onde: “Grief comes in waves, paroxysms, sudden apprehensions that weaken the knees and blind the eyes and obliterate the dailiness of life.” (27)

C.S. Lewis accosta il lutto al sentimento fisico della paura, o addirittura dell'ubriachezza: No one ever told me that grief felt so like fear. I am not afraid, but the sensation is like being afraid. The same fluttering in the stomach, the same restlessness, the yawning. I keep on swallowing. At other times it feels like being mildly drunk, or concussed. There is a sort of invisible blanket between the world and me. (5)

Così descrive la sua vita senza la moglie: “I suppose that if one were forbidden all salt one wouldn’t notice it much more in any one food than in another. Eating in general would be different, every day, at every meal. It is like that. The act of living is different all through.” (12) E ancora, paragona il dolore di un vedovo a quello di chi ha perso una gamba: dopo una prima fase in cui la sofferenza lancinante non dà tregua, il paziente torna, sì, a camminare grazie a una nuova gamba di legno, ma per tutta la vita continua a sentire, di tanto in tanto, dolori terribili al moncone.

Barnes, dal canto suo, si rifà alla descrizione di un atterraggio catastrofico agli albori della navigazione aerostatica:

So how do you feel? As if you have dropped from a height of several hundred feet, conscious all the time, have landed feet first in a rose bed with an impact that has driven you in up to the knees, and whose shock has caused your internal organs to rupture and

153 burst forth from your body. That is what it feels like, and why should it look any different?

(77)

La sofferenza provocata dalla morte di una persona cara può essere paragonata a un viaggio in un paese straniero, del tutto diverso da qualunque luogo mai visitato prima, dove le mappe non offrono alcun aiuto per orientarsi. Nelle parole di Joan Didion: “Grief turns out to be a place none of us know until we reach it.” (188) Anche per Barnes il dolore della perdita riconfigura il tempo e lo spazio:

Grief reconfigures time, its length, its texture, its function: one day means no more than the next, so why have they been picked out and given separate names? It also reconfigures space. You have entered a new geography, mapped by a new cartography. You seem to be taking your bearings from one of those seventeenth-century maps which feature the Desert of Loss, the (windless) Lake of Indifference, the (dried-up) River of Desolation, the Bog of Self-Pity, and the (subterranean) Caverns of Memory. (84)

L’idea secondo la quale chi subisce un grave lutto si trova a dover affrontare il mondo provvisto di mappe interiori instabili perché sempre mutevoli è di Avril Maddrell, la quale ha sottolineato che “[a]n individual’s experience of bereavement changes their relation to particular spaces and places and […] this becomes a dynamic internal map of shifting patterns of emotion and affect, both painful and comforting.”35 Chi soffre per la perdita della persona amata si muove in un “landscape of loss”

sconosciuto, dominato dall’assenza. Così C.S. Lewis: “Grief is like a long valley, a winding valley where any bend may reveal a totally new landscape.” (50)

Joyce Carol Oates vede intorno a sé un nuovo paesaggio costituito da cose prive di significato e delimitato da un protocollo in cui altri aiutano la vedova a individuare la direzione da seguire

Not yet have I realized–this will take time–that as a widow I will be reduced to a world of things. And these things retain but the faintest glimmer of their original identity and meaning as in a dead and desiccated husk of something once organic there might be discerned a glimmer of its original identity and meaning. […] the perimeters of the Death-protocol in which experienced others will guide her as one might guide a stunned and doomed animal out of a pen and into a chute by the use of a ten-foot pole. (63-64, enfasi dell’originale)

154 Anche Kathleen Fowler ha osservato come il sottogenere del memoir luttuoso sia caratterizzato

da un tema ricorrente, individuato nel “sense of finding oneself navigating uncharted territory”.36

Marta Bladek ha analizzato The Year of Magical Thinking alla luce delle teorie della Maddrell, evidenziando come, in seguito alla scomparsa della persona amata, luoghi precedentemente percepiti come “neutrali” acquisiscano una valenza emotiva del tutto nuova. Si pensi al “terrore del foyer” sviluppato da Barnes dopo la morte della moglie:

After a few months, I began to brave public places and go out to a play, a concert, an opera. But I found that I had developed a terror of the foyer […] of what it contained: cheerful, expectant, normal people looking forward to enjoying themselves. I couldn’t bear the noise and the look of placid normality: just more busloads of people indifferent to my wife’s dying. (90)

o al “vortex effect” che alcuni luoghi scatenano per Joan Didion; o, ancora, alla riluttanza della Oates a varcare la soglia di certe stanze della casa (definite “ghost rooms”) e a tornare in determinati luoghi che era solita frequentare con il marito:

[…] I am so reluctant to leave the (relative) safety of my battered white Honda–to enter the Fitness Center–to make my way to the large workout room […] to which Ray always went.

Soon, I will give a name to such places: sinkholes.

Places fraught with visceral memory, stirring terror if you approach them. (185, enfasi dell’originale)

Ciò è naturalmente dovuto al fatto che qualsiasi luogo custodisce ed evoca per noi dei ricordi, attitudine che Edward Casey ha definito “memorial potency”37. C.S. Lewis, viceversa, sostiene che

esista un solo ‘luogo’ in cui l’assenza della moglie si fa sentire con dolorosa forza (una forza a cui non è possibile sottrarsi): il proprio corpo, svuotato di ogni importanza e significato dopo la morte di lei. Per chi sperimenta un lutto, non è solo il rapporto con lo spazio a essere sconvolto: anche quello con la dimensione temporale subisce un improvviso quanto devastante cambiamento. Il dolore riconfigura il tempo alterandone durata, consistenza e funzione. Tutt’a un tratto se ne ha a disposizione moltissimo, troppo. Ciò è senza dubbio dovuto al fatto che, come ha evidenziato Gorer, chi porta il lutto tende a fare vita ritirata nel tentativo di “venire a patti” con la morte della persona cara: “[i]n nearly every society of the world for which mourning practices have been reported, it is

36 K. Folwer, ‘“So new, so new”: Art and Heart in Women’s Grief Memoirs’, Women’s Studies 36.7, 2007, p. 528.

37 E.S. Casey, Remembering: A Phenomenological Study, Bloomington, Indiana University Press, 2000, p. 202.

155 customary for people bereaved of near relatives to abstain for a traditionally fixed period from some

social activities and from public diversions.”38

Il vedovo Braithwaite, parlando della propria esperienza, ripete ossessivamente la parola “tempo”: “[m]ourning is full of time; nothing but time. […] And there is always time. Have some more time. Take your time. Extra time. Time on your hands.” (160-161) Ecco allora che diventa pienamente plausibile sostenere, come fa Silvia Albertazzi, che egli ricerchi il pappagallo “proprio per colmare il vuoto da cui è ossessionato dopo la morte della moglie.”39

Così C.S. Lewis: “Up till this I always had too little time. Now there is nothing but time. Almost pure time, empty successiveness.” (30)

Oates ha la sensazione di vivere in un tempo che non può essere che quello della negazione (“[…] the most primitive sort of time: what has happened, irremediably, has somehow not-yet- happened;” 143) e Loewenthal, dal canto suo, lo teme perché la allontana dal passato in cui il marito era ancora in vita sfumando i confini dei ricordi più belli e acuendo quelli tremendi degli ultimi giorni condivisi con lui.

Anche gli interessi cambiano. Barnes racconta di come, dopo la morte della moglie, si sia inaspettatamente innamorato della lirica, un tempo considerata quasi con sufficienza (“Operas felt like deeply implausible and badly constructed plays, with characters yelling in one another’s faces simultaneously.” 91), e in seguito rivalutata come forma d’arte in grado di varcare i confini del dolore (“Opera cuts to the chase – as death does.” 92) in virtù delle sue caratteristiche salienti – la presenza di emozioni forti, travolgenti e incontrollabili il cui fine ultimo è quello di spezzare il cuore degli ascoltatori. Naturalmente assiste all’Orfeo ed Euridice di Gluck, “the opera most immaculately targeted at the griefstruck” (93), di cui Barnes rilegge la storia con occhi spietati e al tempo stesso commossi.

Nel mezzo di questa vera e propria tempesta, tenuti a galla dal mero spirito di sopravvivenza, sembra che la vita non abbia più un disegno, perché il dolore annienta ogni piano e, quel che è peggio, impedisce forse di credere che esista un qualsiasi disegno nelle cose. Tuttavia, essendo un qualche orizzonte progettuale necessario agli esseri umani, ciascuno finge di trovarlo, o di ricrearlo. La

38 G. Gorer, op. cit., p. 51.

156 scrittura, che pure non offre a Barnes una via d’uscita di fronte al terrore della fine, ma anzi acutizza,

intensifica, costringe a una resa dei conti che mai si sarebbe voluta affrontare, permetterebbe invece nel caso del lutto di trovare o ricreare un disegno grazie al potere salvifico delle parole e delle storie: “Writers believe in the patterns their words make, which they hope and trust add up to ideas, to stories, to truths. This is always their salvation, whether griefless or griefstruck.” (85)

Tutte queste trasformazioni interiori si ripercuotono inevitabilmente sul rapporto col mondo esterno, con gli altri. Per Barnes il dolore esalta l’egoismo di chi soffre: in un percorso contrario a quello dell’ascesa in aerostato, costringe in una posizione fetale, difensiva – la sola che possa garantire la sopravvivenza.

Loewenthal, dal canto suo, è incerta se il lutto renda più fragili o più forti, ma rintraccia in esso l'origine di “una suscettibilità esasperata” (51): “è come se il lutto mi avesse aguzzato i sensi, affilato il mio modo di prendere, accettare e soprattutto non accettare le cose.” (52)

Quanto alla struggente nostalgia per la persona che non c’è più, analizzando i propri sentimenti per comprendere che cosa gli manca veramente della moglie, Barnes si rende conto di essere intrappolato in una sorta di vicolo cieco: “Soon, you realise the trap you are in: caught between repeating what you did with her, but without her, and so missing her; or doing new things, things you never did with her, and so missing her differently.” (88)

Si sente la mancanza dell’altra persona in modi diversi: si soffre per la perdita di quel “lessico famigliare”, di certi modi di dire, battute, allusioni, scemenze, tutti quei riferimenti segreti che caratterizzano la vita di una coppia oltre alla “routine condivisa” legata a particolari ricorrenze e date speciali, che, dopo la morte, si tramutano in dolorosi “non-eventi” affiancati da nuovi, tristissimi anniversari:

[…] Year One is like a negative image of the year you have been used to. Instead of being studded with events, it is now studded with non-events: Christmas, your birthday, her birthday, anniversary of the day you met, wedding anniversary. And these are overlaid with new anniversaries: of the day fear arrived, the day she first fell, the day she went into hospital, the day she came out of hospital, the day she died, the day she was buried. […] (89)

Elena Loewenthal si spinge più oltre nella sua sottilissima analisi e riflette che, con la morte dell’altro, si perde irrimediabilmente una parte di sé: “[…] quel sé presente nella vita quotidiana che significava essere l’oggetto di un pensiero, magari di mille pensieri. È un vero e proprio morire con

157 chi muore, per quella parte di sé che era lì, nell’altrui pensare e sentire. […] Lì, nella sua testa e nelle

sue emozioni io non esisto più.” (100-101) Ed ecco dunque un altro tipo di nostalgia, quella dell’essere parte dei pensieri, delle premure, dei sogni della persona che non c’è più.

Eppure, con l’intelligenza di chi riesce a vedere le cose da più punti di vista, Barnes constata che, a ben guardare, è proprio chi se ne è andato a subire la perdita maggiore: “It’s true that some of my grief is self-directed […] but it is more, much more […] about her: look what she has lost, now that she has lost life. Her body, her spirit; her radiant curiosity about life.” (78)

Gli fa eco Braithwaite: “I sometimes feel embarrassed by people’s sympathy. ‘It’s worse for her,’ I want to say; but I don’t.” (169-170)

Sempre che, prosegue Barnes, non sia la vita ad aver subìto il lutto più grave, avendo perso una persona meravigliosa: “At times it feels as if life itself is the greatest loser, the true bereaved party, because it is no longer subjected to that radiant curiosity of hers.” (78)