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Una teoria del tempo che viene da lontano

Come ha ben osservato Paolo Jedlowski, una delle funzioni del raccontare è quella di rovesciare il tempo con la memoria; opporre la memoria alla morte […] è ciò che facciamo ogni volta che ci confrontiamo con l’elaborazione di un lutto.23

Al centro di The Sense of an Ending c’è anche una teoria del tempo24, come è evidente sin dal

già citato incipit: “I remember, in no particular order: – a shiny inner wrist; […].” (3)

Il vezzo di portare l’orologio con il quadrante sull’interno polso non è solo un segno dell’amicizia tra Tony, Colin e Alex: “[…] perhaps it was something more. It made time feel like a personal, ever secret, thing.” (6) Che cosa significhi questa immagine lo si chiarisce verso la fine del romanzo

I know this much: that there is objective time, but also subjective time, the kind you wear on the inside of your wrist, next to where the pulse lies. And this personal time, which is the true time, is measured in your relationship to memory. So when this strange thing happened – when these new memories suddenly came upon me – it was as if, for that moment, time had been placed in reverse. (122)

Il tempo personale o soggettivo è l’unico autentico (“the true time”), e si misura in funzione del nostro rapporto (problematico) con i ricordi: “[a]nd yet it takes only the smallest pleasure or pain to teach us time’s malleability. Some emotions speed it up, others slow it down; occasionally, it seems to go missing […].” (3)

In un’intervista Silvia Albertazzi ha chiesto a Barnes se questa idea di tempo soggettivo fosse un espediente narrativo. Lo scrittore ha risposto:

When I wrote my book Nothing to be Frightened of, I had an exchange with my brother, who is a philosopher (of Aristotle, the Pre-Socratics, and logic generally) about memory. Then I thought that memory – at least, my memory – was on the whole reliable; my brother thought his own memory – and everyone else's – was unreliable, and that it was a faculty closer to the imagination than to documentation. Since that time I have come more and more round to his point of view. And it's certainly true that our best stories that we tell, simply because we've told them so many times, are bound to be much more distorted and untruthful than something we have only recounted once.25

23 P. Jedlowski, Storie comuni, cit., p. 74.

24 A. Sgobba, ‘I fratelli Barnes e il senso (aristotelico) del tempo’, minima&moralia, 28 settembre 2012, http://www.minimaetmoralia.it/wp/i-fratelli-barnes-e-il-senso-aristotelico-del-tempo/ (sito visitato il 25/10/2013)

25 S. Albertazzi, ‘An Interview with Julian Barnes’, TransPostCross, 2013, 02, pp. 1-6 http://www.transpostcross.it/index.php?option=com_content&view=article&id=90:interview-with-julian- barnes&catid=6:interfacce&Itemid=12 (sito visitato il 25/10/2013)

87 Possiamo legittimamente pensare che le idee filosofiche di Julian Barnes sul tempo vengano direttamente dal fratello, Jonathan Barnes, il più importante studioso vivente di Aristotele26. Ci

sembra dunque ragionevole ipotizzare che le assunzioni dietro queste credenze sul tempo siano basate su Aristotele più che sul senso comune: per il filosofo greco l’esistenza del tempo è necessariamente legata all’esistenza dell’anima (“risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella dell’anima”, si legge nella Fisica). Nei Parva naturalia e nel De Anima il tempo è annoverato tra i “sensibili comuni”, cioè è un oggetto di sensazione che non si riferisce esclusivamente a un senso ma è percepito dalla sola facoltà del sentire. Mentre nel De Memoria si specifica che “gli esseri che percepiscono il tempo, essi soli ricordano – e con la stessa facoltà con cui avvertono il tempo”.

Nella prima pagina di The Sense of an Ending Tony riflette che

[w]e live in time – it holds us and moulds us – but I’ve never felt I understood it very well. And I’m not referring to theories about how it bends and doubles back, or may exist elsewhere in parallel versions. No, I mean ordinary, everyday time, which clocks and watches assure us passes regularly: tick-tock, click-clock. Is there anything more plausible than a second hand? (3)

L’evidente disinteresse per l’aspetto metafisico della questione può essere definito a tutti gli effetti aristotelico. Nella più completa trattazione del tempo dell’opera di Aristotele – il capitolo 14 del libro quarto della Fisica – il filosofo non si sofferma mai sullo statuto ontologico del tempo. Sprovvisto di cronometri, Aristotele afferma: “Noi diciamo che il tempo compie il suo percorso, quando abbiamo percezione del prima e del poi nel movimento.”

Non solo il lento lavorio del tempo trasforma in certezze, cioè in aneddoti, i ricordi frammentari, incerti e imprecisi. Il tempo ha anche un’azione distorsiva sui ricordi, ci condiziona cambiando il nostro punto di vista su quanto è accaduto, agisce come un solvente: “[a]nd it ought to be obvious to us that time doesn’t act as a fixative, rather as a solvent. But it’s not convenient – it’s not useful – to believe this; it doesn’t help us get on with our lives; so we ignore it.” (63)

L’aspetto più interessante delle teorizzazioni di Halbwachs riprese nel capitolo introduttivo è che esse pongono il passato custodito nella memoria come l’oggetto di una costruzione inevitabilmente definita dal/nel presente. Esse rovesciano il modo in cui si è soliti guardare alla memoria: invece di considerare quest’ultima come registrazione del passato, come espressione di un

88 suo “lascito”, è il passato a essere inteso come proiezione del presente27. Lo confermano le parole di

Tony: “[a]gain, I must stress that this is my reading now of what happened then. Or rather, my memory now of my reading then of what was happening at the time.” (41, enfasi di chi scrive)

In tempi più recenti, si è occupato di questo tema lo psicologo statunitense Daniel L. Schacter, spiegando che i nostri ricordi di un qualsiasi evento passato sono profondamente influenzati dai sentimenti, dalle credenze e dalle conoscenze maturati dopo l’episodio

[w]e extract key elements from our experiences and store them. We then recreate or reconstruct our experiences rather than retrieve copies of them […]. In other words, we bias our memories of the past by attributing to them emotions or knowledge we acquired after the event.28

In modo analogo, in England, England Barnes sottolinea sin dalle primissime pagine il ruolo cruciale che il trascorrere del tempo gioca sui ricordi: “[i]f a memory wasn’t a thing but a memory of a memory of a memory, […] then what the brain told you now about what it claimed had happened then would be coloured by what had happened in between.” (6, enfasi di chi scrive)

Anche per Martha i ricordi sono inattendibili e il passato è inafferrabile (il che la avvicina non solo a Tony ma anche al dottor Braithwaite): quel che ricordiamo è frutto di una continua riproduzione e distorsione della realtà attuata dal tempo e dalla nostra memoria, la quale revisiona costantemente l’insieme delle reminiscenze adattandole ai bisogni attuali dell’individuo e compiendo, quindi, un’azione di ricontestualizzazione o ricategorizzazione.