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Al di là della possibilità o meno di attribuire un significato al proprio vissuto, e considerando forse la senescenza come una fase della vita che implica necessariamente l’insorgere della malattia (senectus ipsa morbus est, secondo l’attuale clima culturale che esalta giovinezza, benessere e salute), Barnes sembra più preoccupato (anzi, terrorizzato) dal processo involutivo e degenerativo che colpisce sia il corpo sia la mente, il cosiddetto “invecchiamento terziario”, caratterizzato appunto dalla perdita delle abilità fisiche e mentali che si verifica nei mesi (o negli anni) che precedono la morte. In Nothing to be Frightened of l’autore si dichiara d’accordo con Stravinsky, quando questi

20 J. Barnes, The Lemon Table, London, Jonathan Cape, 2004, p. 20. Per le successive citazioni dal testo si indicherà direttamente il numero della pagina fra parentesi al termine della citazione stessa.

197 afferma ‘Gogol died screaming and Diaghilev died laughing, but Ravel died gradually. That is the

worst.’ (122) Non solo. Ripensando alla malattia del padre, Barnes confessa il proprio terrore di trovarsi un giorno nella medesima condizione, privato della dignità e della memoria

As one who wouldn’t mind dying as long as I didn’t end up dead afterwards, I can certainly make a start on elaborating what my fears about dying might be. I fear being my father as he sat in a chair by his hospital bed and with quite uncharacteristic irateness rebuked me – ‘You said you were coming yesterday’ – before working out from my embarrassment that it was he who had got things confused. […] I fear being the elderly friend, a man of both refinement and squeamishness, whose eyes showed animal panic when the nurse in the residential home announced in front of visitors that it was time to change his nappy. I fear the nervous laugh I shall give when I […] have forgotten a shared memory, or a familiar face, and then begin to mistrust much of what I think I know, and finally mistrust all of it. (139, enfasi dell’originale)

Barnes sembrerebbe dunque confermare l’osservazione di Magris secondo la quale “[l]’individuo affidato soltanto a se stesso, al tempo del suo vivere e del suo perire, alla sua fisicità, vive la vecchiaia come angoscia, impoverimento e riduzione, misero e ridicolo restringersi di gesti, pensieri e azioni oltre il quale non c’è niente, solo la miseria e l’orrore di quel declino”22. D’altro

canto, esistono autori che non sembrano turbati dall’idea del declino. Pensiamo alla già citata Diana Athill: condivide con Barnes una visione meccanicistica dell’universo, secondo la quale la vita evolve sempre e solo a livello di specie e mai dell’individuo (“The individual just has to be born, to develop to the point at which it can procreate, and then to fall away into death to make way for its successors […]” 10); eppure, anziché lasciarsi atterrire dal pensiero della propria finitudine, la Athill constata con gratitudine che la vecchiaia non è affatto una miserrima anticamera della morte, al contrario: è una fase della vita in cui, per esempio, ci si può dedicare con rinnovato entusiasmo alle amicizie autentiche, alla lettura e alla cura del giardino.

Non bisogna tuttavia trascurare il fatto che, innegabilmente, la vecchiaia è per molti la fase in cui si comincia a dimenticare, a “perdere la memoria”, una privazione drammatica se si è convinti, come sostiene Barnes in Nothing to be Frightened of, che “[m]emory is identity. […] You are what you have done; what you have done is in your memory; what you remember defines who you are; when you forget your life you cease to be, even before death.” (140) Se è vero che si costruisce la propria identità a partire dall’infanzia e fino alla vecchiaia, e che l’identità è risultato di un processo

198 in continuo divenire, ovvero di una narrazione di sé continuamente rivista e modificata allo scopo di

organizzare le nuove esperienze e dare senso alle emozioni, allora è grazie al ricordare e al ricordarsi che l’individuo diviene se stesso. Quando la memoria si offusca, egli di conseguenza si annulla: privato del suo senso interno, spogliato di un passato (e quindi di un io) accumulato nei ricordi dello spirito e del corpo, l’essere umano viene meno a se stesso e agli altri.

A questo proposito Barnes cita Lawrence Durrell, che in una poesia definì tale tragico declino ‘the slow disgracing of [the] mind’23, a descrivere un deterioramento che, a suo modo di vedere,

innescherebbe negli esseri umani un ridicolo quanto assurdo meccanismo di fabulazione volto a compensare la perdita dei ricordi.

La perdita patologica della memoria è senza dubbio l’aspetto più devastante di quella che è stata definita come la malattia del secolo, ovvero il morbo di Alzheimer, per il quale non esistono al momento terapie risolutive. In Nothing to be Frightened of l’autore riesce a fare dell’ironia su questo tipo di demenza con una battuta un po’ amara inserita in un discorso relativo all’invecchiamento delle cellule cerebrali, o meglio al non invecchiamento di determinati tipi di neuroni, che continuerebbero a crescere anche durante la terza età: “[…] ‘certain cortical neurons’ seem to become more abundant after we reach maturity, and there is even evidence that the filamentous branchings – the dendrites – of many neurons continue to grow in old people who don’t suffer from Alzheimer’s (if you do have Alzheimer’s, forget it).” (199, enfasi dell’originale)

Nella raccolta The Lemon Table è il protagonista di ‘Appetite’, un ex dentista, a soffrire di una qualche grave forma di demenza senile. La moglie Vivian scopre che leggergli ricette tratte dai suoi libri di cucina preferiti rappresenta l’unica forma (non dolorosa) di “comunicazione” possibile dato che la cosa ha un effetto calmante. Ascoltando le liste degli ingredienti e le procedure di preparazione, infatti, l’uomo “dimentica” di rivolgere alla moglie un’oscenità dopo l’altra, risparmiandole l’umiliazione e la tortura di ascoltare le fantasie sessuali che il marito associa a un’altra donna. È interessante notare come, tra i due, sia però lei quella che sostiene di non ricordare e di affidarsi ai “ricordi” (inventati) di lui per recuperare episodi del loro passato: “[…] he can make things more vivid than a photograph, more vivid than a normal memory. It’s almost like storytelling, the way he

23 La poesia in questione è A Persian Lady (1961). Si veda Lawrence Durrell, Collected Poems 1931-1974, London, Faber and Faber, 1985.

199 invents it, […]. He invents it, but I know it’s true, because I now remember it.” (167) Con il passare

degli anni, spiega Barnes in Nothing to be Frightened of, i ricordi vengono ad assomigliare sempre più a degli “act[s] of the imagination” (244).

In The Sense of an Ending l’Alzheimer viene menzionato, o sarebbe meglio dire negato o esorcizzato, tre volte

I get on well with Susie. Well enough, anyway. But the younger generation no longer feels the need, or even the obligation, to keep in touch. At least, not ‘keep in touch’ as in ‘seeing’. An email will do for Dad – pity he hasn’t learnt to text. Yes, he’s retired now, still fossicking around with those mysterious ‘projects’ of his, doubt he’ll ever finish anything, but at least it keeps the brain active, better than golf, and yes, we were planning to drop over there last week until something came up. I do hope he doesn’t get Alzheimer’s, that’s my greatest worry really, because, well, Mum’s hardly going to have him back, is she? (61)

Duty done, only child safely seen to the temporary harbour of marriage. Now all you have to do is not get Alzheimer’s and remember to leave her such money as you have. (102) When you start forgetting things – I don’t mean Alzheimer’s, just the predictable consequence of ageing – there are different ways to react. You can sit there and try to force your memory into giving up the name of that acquaintance, flower, train station, astronaut… Or you admit failure and take practical steps with reference books and the internet. Or you can just let it go – forget about remembering – and then sometimes you find that the mislaid fact surfaces an hour or a day later, often in those long waking nights that age imposes. Well, we all learn this, those of us who forget things. (111)

Poiché la demenza di Alzheimer ha, in genere, un inizio subdolo in cui le persone cominciano a dimenticare alcune cose (per arrivare al punto in cui non riescono più a riconoscere nemmeno i familiari e hanno bisogno di aiuto anche per le attività quotidiane più semplici), si è portati a domandarsi se la preoccupazione di Tony non sia dovuta al manifestarsi delle prime avvisaglie della malattia.

Qualche riferimento alla perdita di memoria che caratterizza l’età senile si trova anche in England, England, in particolare nella terza parte del romanzo, quando la protagonista Martha Cochrane ha ormai ampiamente superato la mezza età

Pages fell from the booklet rusted staples; then a dried leaf. She laid it, stiff and grey, against her palm; only its scalloped edge told her it was from an oak. She must have picked it up, all those years ago, and kept it for a specific purpose: to remind herself, on just such a day as this, of just such a day as that. Except, what was the day? (255)

Una dimenticanza così significativa potrebbe essere imputabile a un’incipiente demenza senile oppure a un’inconscia idiosincrasia verso un ricordo legato all’amara circostanza dell’abbandono da

200 parte del padre. Martha constata con rassegnazione che, durante la vecchiaia, la memoria funziona

in modo casuale: “The operation of memory was becoming more random; […] Nowadays there was more slippage of a bicycle chain jumping a cog – and less consequence.” (257) Barnes ricorre all’efficace metafora della catena che salta un dente dell’ingranaggio per indicare l’inaffidabilità della memoria che si accentua con il sopraggiungere della vecchiaia: “[…] later there is more uncertainty, more overlapping, more backtracking, more false memories. […] Later, the memory becomes a thing of shreds and patches.” (104-105)