• Non ci sono risultati.

Dalla sociologia alla filosofia del linguaggio: la razionalità

Section I: The Terms of the Debate

3. Dalla sociologia alla filosofia del linguaggio: la razionalità

Habermas sembra arrivare alla filosofia del linguaggio dalla sociologia, dal momento che il suo interesse sociologico si volge sempre più alla comunicazione intersoggettiva, nella cui struttura trans-soggettiva egli intravede la possibilità di spiegare come sia possibile l'ordine sociale. La nozione di comunicazione linguistica diventa centrale, infatti, in una sociologia come quella di Habermas che:

1. vuole evitare gli estremi:

1. dell'impostazione sistemica;

2. di quella empirica-osservativa (di ascendenza positivista); 3. di quella intenzionalista (tipicamente monologica);

2. e che intende sviluppare una teoria della società a due livelli, capace di

spiegare i fenomeni sociali nelle società moderne364.

Con “società moderne”, Habermas intende quelle in cui si è sviluppata la consapevolezza (e quindi la possibilità) di una gamma di diverse attitudini possibili al mondo. Ad esse corrisponde una forma di comunicazione “postconvenzionale” in cui i processi argomentativi non sono vincolati dalla tradizione nella considerazione di ciò che può contare come una buona ragione365. Solo nelle società moderne, infatti, si

sviluppa quella complessità tale da permettere di leggere la società allo stesso tempo come una macchina (sistema) e come processo comunicativo spontaneo (società). Diversamente dalla sociologia sistemica à la Luhmann – che si concentra esclusivamente su un surrogato di azione sociale, ovvero quella basata sull'integrazione non sociale ma “sistemica” (dove non vige la relazione di validità ma quella di funzionalità) – la sociologia habermasiana intende tener conto di entrambi gli aspetti attribuendo però priorità all'integrazione “sociale”, in cui si sviluppano interazioni sociali tra due o più attori in riferimento interno a valori (la cui validità è collegata a ragioni). Se nell'integrazione sistemica è concesso l'uso della costrizione come condizione necessaria al mantenimento dell'ordine a prescindere dal consenso, l'integrazione sociale è legata piuttosto all'ambito spontaneo e non coatto dell'agire comunicativo e del mondo della vita, inteso come uno sfondo naturale e comune, da cui si staccano vari “sistemi” vitali. Se in un caso la coordinazione avviene attraverso i media di denaro e potere (che semplificano il coordinamento attraverso “sanzioni”), nell'altro caso esso avviene attraverso il meccanismo spontaneo dell'intesa linguistica (consenso).

364 Habermas 1988d, p. 82, tr. it. p. 79. Sulla necessità di una teoria della società a due livelli cfr. Cooke

1994, p. 6.

La priorità attribuita da Habermas all'integrazione sociale si spiega col fatto che i media sistemici dipendono, quanto alla loro genesi, da questa forma basilare di integrazione veicolata dal consenso. La “mediatizzazione” (Mediatisierung) del mondo vitale – ovvero l'utilizzo di mezzi di comunicazione alternativi al linguaggio e più veloci ma dipendenti da una pre-intesa linguistica – è il risultato della razionalizzazione del mondo della vita: l'emancipazione da forme tradizionali di integrazione sovraccarica l'agire comunicativo che necessita di questi mezzi sanzionatori per facilitare la riproduzione materiale della società, dove il rischio del dissenso rischia di ridurre la produttività e la “funzionalità”.

Un'eccessiva “razionalizzazione sistemica”, necessaria ai fini del progresso e prodotto dell'evoluzione socio-culturale, rischia di diventare una “colonizzazione” (Kolonialisierung)interna alla Lebenswelt nella misura in cui la “razionalità funzionale” penetra dall'ambito dello Stato e dell'economia ad altri ambiti di vita strutturati in modo comunicativo e lì ottiene un primato a scapito della “razionalità volta all'intesa” (comunicativa), dando vita a fenomeni quali anomia, perdita di senso e disordini psicologici. Il punto di raccordo tra questi due aspetti dell'interazione umana moderna è il concetto di “democrazia deliberativa” che, pur istituzionalizzata (sistemica), è uno spazio dove il medium è quello del consenso (sociale). Allora, dal momento che l'integrazione sistemica dipende da quella sociale quanto a genesi e legittimità, per Habermas una sociologia in senso stretto deve dedicarsi allo studio dell'integrazione sociale, e quindi di come è possibile il coordinamento sulla base della validità, e non meramente delle norme366. In quest'ambito, se si vuole comprendere il significato di un

processo sociale bisogna individuare il suo valore, ovvero il come viene interpretato e valutato dai soggetti del processo sociale. Il valore si mostra e si difende attraverso

ragioni che sono linguistiche e quindi è la comunicazione linguistica il mezzo

dell'integrazione sociale. Habermas teme l'attacco che il sistema economico e quello amministrativo muovono verso la sfera privata e quella pubblica. Salvare l'integrazione sociale dalla “colonizzazione” vuol dire preservare una fetta di vita dalle penetrazioni dei media sistemici in continua espansione. Una completa colonizzazione sarebbe la fine della possibilità di criticare e modificare il sistema a partire dal mondo della vita. Con colonizzazione si intende, nello specifico, l'insediarsi della razionalità “funzionale” tipica della società in aree del mondo della vita naturalmente riservate ad altre forme di razionalità.

Sinteticamente, possiamo dire che si parla di “razionalità strumentale” intendendo quel tipo di atteggiamento che sta alla base delle azioni teleologiche, in cui il soggetto cerca i mezzi adeguati allo scopo (come tagliare la legna di una certa durezza?), mentre la razionalità “volta all'intesa” incarna quel tipo di atteggiamento in cui il soggetto non utilizza gli altri ma li tratta da pari, cercando con essi un'intesa razionale (cioè non casuale ma originata sulla base di buone ragioni). La “razionalità funzionale” è invece quel tipo di razionalità strumentale incarnata da sistemi sociali in cui i fini non sono scelti dagli individui (come accade nelle forme di cui sopra) ma sono posti dal sistema: il ruolo dell'individuo è qui determinato dalle regole dei sistemi in cui opera (divisione sociale del lavoro, leggi di mercato).

Se le due forme di razionalità viste sopra sono predicati dell'agire individuale, quest'ultimo è un predicato dell'agire sociale-sistemico367. Resta ora da chiedersi se il

modo “primario” dell'interazione sociale è quello dell'agire teleologico o quello di un agire comunicativo. Riassumendo, se il primo è volto alla realizzazione di uno stato di cose nel mondo, il secondo è volto al consenso e all'intendersi368. La risposta è da

trovare nel medium stesso della comunicazione linguistica, attraverso uno studio di pragmatica universale che, come “scienza ricostruttiva” (rekonstruktive Wissenschaft), consenta di enucleare le strutture universali e necessarie di qualunque comunicazione linguistica e quindi di raggiungere il tèlos inerente al linguaggio stesso. Per Habermas, l'abbiamo già accennato, si tratta dell'emancipazione: da qui egli può sviluppare una fondazione “scientifica” per la critica dell'ideologia369.

2.3.1 Il progetto di una pragmatica universale

Habermas si preoccupa preliminarmente di delimitare la sua pragmatica universale dalla grammatica universale chomskyana di cui non condivide l'apriorismo che si manifesta nell'innatismo che Chomsky attribuisce alla capacità linguistica. La sua pretesa fondazionale basata su un “innatismo” linguistico è quanto il nostro autore non può accettare, tenendo fede ai principi di un pensiero post-metafisico che rifiuta di compromettersi con pretese essenzialistiche. Ma cosa vuol dire pensiero post- metafisico? Citando Habermas, se “la metafisica era sorta come scienza dell'universale [Allgemeinen], dell'immutabile [Unveränderlichen] e del necessario [Notwendigen]”370 e

se il positivismo “aveva smascherato le questioni metafisiche come prive di senso” ma mantenuto un atteggiamento scientista volto ad “elevare ad assoluto proprio il pensiero delle scienze” come un residuo della metafisica, le scienze storico-ermeneutiche nate nel XIX secolo fanno si che “attraverso l'imporsi della coscienza storica, le dimensioni

della finitezza accrescono la loro forza di convincimento rispetto ad una ragione non-

situata”371. Il pensiero post-metafisico è allora un atteggiamento caratterizzato dal rifiuto

delle concezioni sostanziali, fondazionali e astratte della ragione, a favore di un concetto di razionalità procedurale, fallibile, e contestuale. In queste condizioni “post- metafisiche”

367 Cfr. Cooke 1994, p. 146. Habermas 1981, II, pp. 229-294 e 445-504, tr. it. pp. 748-811 e 951-1005. 368 Sulla differenza tra i due sensi di intesa come Verständigung e Einverständnis cfr. Habermas 1981, II,

p. 184, tr. it. p. 707 e ivi, I, p. 412, tr. it. p. 419. Il primo è grossomodo traducibile con comprensione e il secondo con intesa in senso stretto, ovvero come accordo su pretese di validità, cosa che presuppone un'accettazione dell'offerta comunicativa proposta dall'interlocutore. Habermas distinguerà poi tra un impiego del linguaggio “orientato all'accordo” (einverständnisorientiert) ed uno “orientato all'intesa” (verständigungsorientiert): il primo avviene sulla base delle stesse ragioni. Cfr. Habermas 1999, p. 116, tr. it. p. 111.

369 Rasmussen 1990, tr. it. p. 36, illustra bene il legame tra questo orientamento “scientifico” e il progetto

emancipativo della teoria critica come continuazione del progetto della modernità: “Da un lato è necessario costruire una teoria del linguaggio che sia scientifica nel senso della scienza ricostruttiva, dall'altro è essenziale che tale teoria sia collegata al progetto della modernità”.

370 Habermas 1988e, p. 21, tr. it. p. 17. 371 Ivi, p. 35 e p. 41, tr. it. pp. 31 e 37.

Habermas mira a delineare un concetto di ragione che abbia forza trans-contestuale ma in modo formale e non assolutistico, ovvero un concetto di ragione che non miri a prescrivere assolutisticamente contenuti materiali bensì atteggiamenti formali di apertura al confronto e alle ragioni (razionalità procedurale), di volta in volta mutevoli372. Il filosofo francofortese punta a sviluppare un concetto comunicativo di

ragione, capace di sostenere il suo progetto di una teoria critica senza ipostatizzazioni metafisiche. Nel far ciò, egli intende evitare allo stesso tempo il disfattismo tipico del clima post-moderno che, insieme alla sua interpretazione metafisica, getta via il concetto stesso di ragione, utile invece per sostenere l'intero progetto habermasiano di una teoria critica della società, il cui mezzo è proprio la ragione.

Habermas intende allora salvare la ragione da istanze deflazioniste troppo forti, riconoscendo ad essa sia un carattere universalizzante/decontestualizzante sia un ineludibile contestualismo e fallibilismo: essa è immanente in quanto applicata e originata ad una (e da una) situazione storica sempre determinata, ma è trascendente perché riferita ad un ideale normativo controfattuale. Tale tentativo di mantenere in vita il concetto di ragione, da tempo compromesso con la metafisica (antica e moderna), e al contempo accogliere le nuove sfide del orizzonte post-moderno – che riconosce ad esso i limiti che sono connaturati allo stare al mondo dell'uomo (contestualismo e fallibilismo) – è l'impegno che costituisce l'asse portante del progetto filosofico habermasiano373.

In luce con l'anti-fondazionalismo che è implicito alla sua tendenza post-metafisica, Habermas, diversamente da Chomsky, predilige una strategia ricostruttiva sul modello piagettiano in cui “il sistema di regole linguistiche (come l'apparato cognitivo di Piaget) si sviluppa da basi genetiche attraverso l'interazione tra processi di maturazione condizionati biologicamente e stimoli specifici di ogni stadio”374. L'importante

conseguenza di ciò per la presa di posizione di Habermas contro Chomsky è presto detta:

“lo sviluppo della grammatica generativa segue da una strategia di ricerca universale [universalistischen Forschungstrategie]: le ricostruzioni [Nachrekonstruktionen] dei sistemi di regole per i linguaggi individuali devono essere effettuate a livelli sempre più alti di generalizzazione fino alla grammatica universale che sottosta a tutti i linguaggi universali”375.

Il posto della pragmatica universale è quindi tra la linguistica (teorica) e la pragmatica empirica. Tuttavia, mentre la prima si limita alle espressioni linguistiche e non si interessa ai contesti del loro possibile uso, la seconda viene criticata perché:

372 Cfr. Cooke 1994, p. 38 e Habermas 1988f.

373 Pur se da prospettive inevitabilmente locali e prospettiche, Habermas è convinto che essa non deve

perdere la sua forza critica, perdendo tuttavia la sua purezza.

374 Habermas 1970, p. 86, tr. ing. p. 70, tr. it. mia.

375 Ivi, p. 85, tr. ing. p. 69, tr. it. mia. Petrucciani 2000, p. 71 nota che sono fondamentalmente due i punti

che Habermas eredita da Chomsky: la distinzione tra competenza ed esecuzione (performance) e l'intento di giungere ad enucleare strutture universali. Il riferimento habermasiano è a Chomsky 1965.

“una pragmatica empirica che non si accertasse in precedenza del punto di avvio pragmatico- formale, non disporrebbe degli strumenti concettuali che sono necessari per riconoscere i fondamenti razionali della comunicazione linguistica nella sconcertante complessità delle scene quotidiane”376.

Le espressioni risultano come frasi “situate”, cioè unità “pragmatiche” del discorso. I contesti in cui esse si situano hanno in sé anche elementi “extralinguistici variabili” che sono oggetto della pragmatica “empirica”, mentre le strutture “generali” delle situazioni discorsive possibili (astratte) sono oggetto della pragmatica “universale”, che riproduce il sistema di regole che ne sta alla base377. Habermas critica però la separazione

astrattiva tra linguaggio come struttura e il processo parlato. Con tale scissione, infatti, la dimensione pragmatica del linguaggio è lasciata esclusivamente ad analisi empiriche (cioè a scienze empiriche come la psicolinguistica e la sociolinguistica), mentre egli sostiene la tesi che non solo il linguaggio ma anche il parlare è accessibile ad un'analisi formale che può illuminare sui presupposti pragmatici della comunicazione. In quanto presupposti formali (non compromessi con le peculiarità materiali, empiriche e contestuali), essi sono universali, ma in quanto pragmatici sono legati al contesto da cui di volta in volta originano e in cui trovano conferma378.

In tale direzione egli sviluppa una teoria della “competenza comunicativa” che diversamente da quella grammaticale, tenga in conto non la frase (sentence, satz) ma l'enunciazione (utterance, äusserung), per la comprensione della quale è necessario far riferimento a qualcosa di più che a delle semplici regole grammaticali: mentre una “frase” grammaticalmente corretta soddisfa una pretesa di comprensibilità, un “enunciato” riuscito deve soddisfare tre ulteriori pretese di validità per ottenere un successo comunicativo (essere accettata), ovvero contare come vero, come sincero e come giusto. Habermas rivolge la sua analisi alla comunicazione concreta, senza però rinunciare al tentativo di assurgere a categorie formali e universali – alla pari di quelle grammaticali ma pragmatiche379. Queste categorie sono le tre coordinate del discorso (e

dell'agire, come vedremo) presenti in ogni cultura (e, come vedremo, in ogni enunciato): verità, giustezza e sincerità. Si tratta di tre concetti che fungono da base per il nostro vivere sociale; essi sono presenti in ogni cultura (formali) ma diversi quanto a riferimento (realizzazione materiale). Ciò è dovuto al carattere formale/universale e al contempo contestuale del linguaggio, per cui come categorie esse sono universali, ma quanto a valori concretamente incarnati esse mutano da un contesto all'altro380.

376 Habermas 1981, I, pp. 444-445, tr. it. pp. 448-449 e Habermas 1970, pp. 84-89, tr. ing. pp. 68-73. 377 Habermas, Luhmann 1971, pp. 101-141, tr. it. pp. 67-94.

378 Tale distinzione origina dal testo di De Saussure 1916. La langue rappresenta l’aspetto generale del

linguaggio, il sistema che è comune a tutti; la parole rappresenta l’aspetto particolare-empirico del linguaggio, ciò che fa da riferimento alla singola esecuzione. Quello della parole, quindi, è il campo delle singole fonazioni.

379 Habermas 1976a, pp. 358-359, tr. ing. p. 26.

380 Corchia 2010, pp. 13-110 distingue tra due tipi di saperi impliciti: gli a-priori pragmatici e gli a-priori

semantici, questi ultimi mutevoli mentre i primi sono intesi come caratteristiche formali dello stadio di sviluppo attuale della nostra Lebenswelt.

Per questo motivo reale e non reale, vero e non vero, sono concetti presenti in tutte le lingue ma ciò che è di volta in volta reale e vero muta a seconda dei contesti. Infatti, al dubbio se la supposta razionalità della nostra comprensione del mondo non rispecchi soltanto i lineamenti particolari di una cultura segnata dalla scienza, ma sollevi a ragione una pretesa di universalità, Habermas risponde sostenendo che:

“la dipendenza contestuale [Kontextabhängigkeit] dei criteri, sulla base dei quali gli appartenenti a culture diverse in periodi diversi valutano in modo differenziale la validità di espressioni, non significa però che le idee di verità, di giustezza normativa e di veridicità o autenticità, che stanno alla base, sia pure soltanto intuitivamente, della scelta dei criteri, siano in egual misura dipendenti dal contesto”381.

Tuttavia nel corso degli anni Habermas si dichiara insoddisfatto della definizione “universale” data alla sua pragmatica, e inizia a prediligere la più cauta definizione di pragmatica “formale”. Questa direzione è suggerità già nel 1979, quando l'autore si dichiara insoddisfatto dell'aggettivo universale, fuorviante per il suo riferimenti all'impostazione di Karl-Otto Apel, e propone di sostituirlo con quello metafisicamente meno compromesso di “formale”. Habermas è infatti convinto che solo con una pragmatica “formale” è possibile superare il paradosso di analizzare “astrattamente” la comunicazione nei suoi presupposti “concreti” senza correre il rischio fondazionale in cui incorre l'universalismo implicato dal trascendentalismo apeliano382.

Infatti, Habermas va rendendosi conto di “un'evoluzione cognitiva [...] intesa non soltanto come costruzione di un universo esterno [äusseren Universus], ma anche come costruzione di un sistema di riferimenti [Bezugsystems] al fine di delimitare contemporaneamente il mondo oggettivo e sociale dal quello soggettivo”383. Come

evidenzia l'accostamento della teoria degli stadi evolutivi di Jean Piaget a quella della razionalizzazione delle immagini del mondo di Max Weber, se i presupposti della nostra comprensione-comunicazione dipendono dal grado di sviluppo raggiunto dalla società, come è possibile parlare di una pragmatica universale? Sarebbe più consono limitarsi a parlare di “generalità”, abbandonando l'idea di universalità che non terrebbe in conto l'evoluzione cognitiva della nostra comprensione del mondo e quindi la sua relatività sia spaziale che temporale. Questo triplice riferimento, sempre presente nelle nostre azioni comunicative, è il prodotto dell'analisi ricostruttiva sui presupposti della comunicazione ma non può avere un valore universale perché è figlia di un'evoluzione cognitiva per stadi di capacità d'apprendimeno formale, che in senso piagettiano “significa in generale il decentramento di una comprensione del mondo plasmata in modo egocentrico”384. La

stessa distinzione cause/ragioni che è fondamentale per l'inserimento della categoria del senso nella sociologia sembra esser frutto di quest'evoluzione.

381 Habermas 1981, I, p. 88, tr. it. p. 120. Allora non è la realtà a conferire senso al linguaggio: ciò che è

“reale” (Wirklich) e ciò che è “irreale”(unvirklich) si mostrano nel senso che il linguaggio dà. Cfr. ivi, I, pp. 90-91, tr. it. pp. 122-123. Due culture non partono dallo stesso concetto sostanziale (concreto) di mondo ma dallo stesso concetto “formale” di mondo.

382 Cfr. nota 1 di What is Universal Pragmatics?, tr. ing. di Habermas 1976a, p. 92, aggiunta all'edizione

inglese del 1979 (mentre il testo originale è del 1976). Circa il rapporto Apel-Habermas cfr. Mazzocchio 2011, pp. 159-186.

383 Habermas 1981, I, p. 106, tr. it. p. 137.

La lenta demitologizzazione della nostra visione del mondo (che significa sia una desocializzazione della natura che una denaturalizzazione della società), con cui si esce dalle concezioni mitiche del mondo, è la fine del livellamento delle sfere di realtà (dove natura e cultura vengono proiettate sullo stesso piano, la prima dotata di tratti antropomorfici e la seconda risucchiata nel campo d'azione oggettivo di potenze anonime) e l'inizio della possibilità di sviluppare un pluralismo ontologico.

Il problema che Habermas si troverà ad affrontare, allora, è quello di sviluppare una teoria normativa del progresso socio-culturale (teoria critica) come opposta al riduzionismo naturalista di Quine (che non dà spazio alla prospettiva dei partecipanti ai processi di apprendimento) e al riduzionismo contestualista di Rorty. La difficoltà consiste allora nel come accordare il “context-trascendent power” dei concetti di verità e di validità morale che guidano l'evoluzione e il concetto di teoria critica con il fallibilismo e con un inevitabile contestualismo, evitando assunzioni di tipo metafisico385.