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Razionalità ed ontologia: pregi e difetti di un'ontologia debole

Section I: The Terms of the Debate

4. Razionalità ed ontologia: pregi e difetti di un'ontologia debole

Frutto di un'evoluzione cognitiva, nel mondo moderno la razionalità si presenta come diversificata e formale. Si ricorderà come nel caso della pragmatica formale abbiamo letto l'esigenza di una triade ontologica (il sistema costituito dai tre concetti formali di mondo) come base d'appoggio necessaria per il dispiegarsi di un sistema di valutazione multi-direzionale capace di garantire oggettività alle pretese che vengono avanzate linguisticamente. Nella prospettiva epistemica habermasiana, il percorso è dalla differenziazione della razionalità alla pluralizzazione dell'ontologia (di mondi oggettivi) e non viceversa.

Tale triade ontologica è la base anche della teoria habermasiana della razionalità, per via dello stretto nesso dialettico per cui la sua semantica (filosofia del linguaggio, significato) è pragmatica (filosofia dell'azione, razionalità) e la sua pragmatica è semantica (basata cioè sul linguaggio e su un'identità dei concetti di senso e significato), e l'uso linguistico (legato al concetto di atto linguistico) non può essere separato dall'agire in quanto tale che è in fin dei conti linguistico esso stesso. Per questo motivo i presupposti dell'azione e del parlare coincidono, visto che il comunicare è un agire comunicativo e ogni agire avviene sempre in base a ragioni che sono linguisticamente interpretate. Come abbiamo visto, però, la differenza tra agire e parlare c'è, ed è quella tra azioni e atti linguistici che Austin non vedeva.

La teoria habermasiana del significato serve per spiegare la sua teoria sociale, fornendole al tempo stesso le basi; perciò anche se Habermas vede uno scambio dialettico tra pragmatica e semantica (in fin dei conti la sua teoria dell'azione è semantica), la dimensione prioritaria resta comunque quella dell'azione. Lo sviluppo di una teoria pragmatica del significato è motivato infatti dalla ricerca delle basi scientifico-linguistiche della possibilità dell'emancipazione sociale.

Possiamo ora allargare quanto detto circa il concetto di mondo nel caso della filosofia del linguaggio habermasiana e dire che la necessità argomentativa di un concetto formale di mondo come punto d'incontro e di scontro tra interpretazioni differenti – come nucleo dell'oggettività che pretendiamo per le nostre ragioni – si iscrive in un più ampio orizzonte che è più che strettamente linguistico: un concetto formale di mondo è sempre alla base anche delle nostre azioni per le quali pretendiamo, in forma potenzialmente argomentativa, di avere delle buone ragioni. Esse sono intrinsecamente linguistiche perché per Habermas non c'è una traduzione tra immagini mentali e la loro manifestazione linguistica: qualunque evento mentale è intrinsecamente linguistico perché la stessa soggettività si viene a creare nel medium linguistico. Allora, nel momento in cui le nostre azioni (così come i nostri discorsi) si basano fondamentalmente su una potenziale difesa linguistica dei motivi che ne stanno alla base, il concetto formale di mondo oggettivo che di volta in volta presupponiamo nell'argomentazione, permettendo alle nostre pretese di poter auspicare un riconoscimento oggettivo (ovvero intersoggettivo), ha la finalità critica di arginare un relativismo radicale per cui tutti hanno ragione ma ognuno per sé stesso.

Questa forma di relativismo annullerebbe le potenzialità emancipative di una teoria critica il cui fine è quello di ristabilire democraticamente un consenso legittimante su un ordine giudicato illegittimo: tale ricerca di un consenso non si accorderebbe con l'impossibilità di raggiungere un'intesa motivata dalle stesse ragioni (Einverständnis) e quindi ottenuta lavorando (argomentativamente) sullo stesso piano oggettivo di riferimento. Se i soggetti lavorassero ognuno per conto proprio nella ricerca di buone ragioni che valessero solo per sé stessi, il consenso sarebbe impossibile e di conseguenza non si raggiungerebbe l'accordo che permetterebbe di stipulare la legittimità di un nuovo ordine sociale. Ciò avrebbe gli stessi effetti deleteri di un dominio ideologico non criticato. Senza uno spazio razionale-oggettivo si sarebbe in balia dell'opinione del più forte e della persuasione, e non troverebbe senso alcuno l'idea di una teoria critica e di un'argomentazione razionale potenzialmente liberatoria.

Solo presupponendo una pluralità di piani formali d'incontro in cui potenzialmente si può convergere sulla base della “coazione non coatta” (zwangloser Zwang) dell'argomento migliore, è possibile preservare – almeno teoricamente – l'irriducibilità della normatività alla fattualità441. Il duplice tentativo dell'ontologia habermasiana di

deflazionare Popper – e quello uguale e contrario di generalizzare Dummett – si spiega in quest'ottica: solo con un concetto allargato di mondo oggettivo viene legittimata una discussione seria (cognitivismo) anche su questioni non implicate direttamente dal mondo delle scienze naturali; allo stesso tempo, solo così indebolito il concetto di mondo può essere il referente non solo delle espressioni cognitive e strumentali ma anche dell'insieme delle regole sociali e degli eventi mentali privati che, richiamandosi ad esso, possono essere argomentate e difese pretendendo di valere intersoggettivamente442.

Tuttavia, anche se tale concetto epistemico di mondo permette di superare le difficoltà weberiane e assicura una buona base per lo sviluppo di una teoria critica della società, esso presta il fianco ad altre critiche di natura metafisica, legate al paritario peso ontologico che Habermas assegna in questo periodo ai tre mondi.

441 Habermas 1972, p. 161, tr. it. p. 321.

442 In tutti e tre i casi vale infatti quel senso minimo di oggettività come opposizione ed identità che rende

possibile parlare di conoscenza sia nel campo oggettivo che in quello sociale e soggettivo. Tuttavia, va ricordato che se le pretese di verità e di giustezza possiedono uno status elevato di universalità e quindi di oggettività, ciò non si dà invece per le espressioni valutative strictu sensu come le pretese di veridicità per cui, pur sussistendo buone ragioni con cui avanzare spiegazioni, esse (le buone ragioni) non sono né del tutto private (potendo riscuotere consenso) né universali (dal momento che le preferenze estetico-valutative hanno difficoltà a farsi valere in una cerchia ampia). Il discorso teoretico e quello morale-pratico si differenziano allora dalla critica estetica (che conduce gli interlocutori verso una percezione estetica convincente ma che necessita di una pre-comprensione condivisa affinchè possa darsi) e dalla critica terapeutica (la forma di argomentazione che serve al rischiaramento da autoinganni sistematici) proprio per il grado di universalità delle pretese di validità che veicolano: nella critica, i partecipanti non necessitano di presupporre come soddisfatte le condizioni di una situazione discorsiva ideale libera da coazioni, Habermas 1981, I, pp. 40-42, tr. it. pp. 76-78. Se i non cognitivisti sostengono che i giudizi morali non possono essere il risultato di un processo conoscitivo perché non si è in grado di verificare la consistenza di tale conoscenza, i cognitivisti, invece, evidenziano che si tratta pur sempre di una forma di conoscenza. Se Aristotele e Kant sono annoverabili tra i cognitivisti, Russel e Ayer sono non cognitivisti.

Il campo in cui si addensano tali critiche è legato alla teoria consensualista della verità che Habermas sviluppa a partire dagli anni '70 e che viene a delinearsi negli anni '80 come supporto ad un concetto epistemico di mondo oggettivo che entra in contraddizione con alcune intuizioni pre-teoriche non facili da arginare.

Pur se anteriore agli sviluppi di una pragmatica formale, la scelta di presentare solo ora la sua teoria consensualista è dovuta a necessità euristiche: solo così, credo, si capisce compiutamente il disegno habermasiano. Mi si perdonerà, quindi, la forzatura di presentare dopo ciò che storicamente Habermas sviluppa prima della sua teoria dell'agire comunicativo.