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La teoria delle condizioni epistemiche ideali di Putnam

Section I: The Terms of the Debate

2. La teoria delle condizioni epistemiche ideali di Putnam

In maniera molto simile a quella di Peirce, durante la sua fase di realismo interno Hilary Putnam sviluppa una concezione della verità come idealizzazione della nozione di accettabilità razionale: vera è una proposizione che è giustificata sotto condizioni epistemicamente ideali, vale a dire condizioni dove il ricercatore possiede tutta l'evidenza di cui ha bisogno per dirimere la questione della verità o falsità della proposizione in questione. Quindi una proposizione è vera se la sua accettazione sotto condizioni epistemiche ideali è razionale. La differenza, in sintesi, tra la posizione di Putnam è quella di Peirce, sta nel fatto che il primo non assume, ottimisticamente, che ogni ricerca che noi possiamo condurre possiede “condizioni epistemicamente ideali” (epistemically ideal conditions) che possono essere raggiunte. Egli semplicemente pensa che ad ogni proposizione corrisponde una condizione epistemica ideale (indipendente dalla possibilità del suo raggiungimento) da cui se ne possa affermare la verità. La differenza tra condizioni epistemiche ideali e non ideali proviene dalla necessità di distinguere proposizioni che sono meramente giustificate da proposizioni vere:

“Rifiutare l'idea che vi sia una prospettiva 'esterna' coerente, una teoria, cioè, che sia semplicemente vera 'in se stessa' a prescindere da qualsiasi possibile osservatore, non significa

identificare la verità con l'accettabilità razionale. La verità non può semplicemente essere

l'accettabilità razionale per una ragione fondamentale: la verità di un'asserzione è una proprietà che non decade con il passare del tempo [that cannot be lost], mentre la giustificazione può decadere. L'asserzione 'la Terra è piatta' era, senza dubbio, accettabile razionalmente tremila anni orsono, ma non lo è assolutamente più oggi: eppure, sarebbe errato sostenere che tale asserzione fosse vera tremila anni fa, poiché ciò significherebbe che la terra abbia in seguito cambiato forma [...] Ciò non dimostra, a mio parere, che la tesi esternista sia vera, dopo tutto, ma piuttosto che la verità è un'idealizzazione dell'accettabilità razionale. Parliamo come se esistessero condizioni ideali da un punto di vista epistemico e consideriamo 'vera' un'asserzione se la si potesse giustificare anche in tali condizioni. Le 'condizioni ideali da un punto di vista epistemico' [epistemically ideal

conditions] sono naturalmente come i 'piani senza attrito' [frictionless plans]: non si possono

realizzare, e neppure si può avere l'assoluta certezza di esserci avvicinati il più possibile ad essi”173.

I problemi, qui, seguono dalla possibilità dell'esistenza di proposizioni vere le cui condizioni epistemiche ideali siano così tanto ideali da essere inaccessibili a qualcune essere umano, per via delle limitazioni cognitive che sono connesse alla struttura psico- fisica umana. Questo è l'“argomento dell'inaccessibilità” (inaccessibility argument), solitamente posto contro le teorie non-epistemiche della verità174. Le teorie epistemiche,

invece, usando la nozione di situazioni epistemiche ideali vogliono evitare l'identificazione tra vero ed essere giustificabile (o verificabile, razionalmente accettabile): in una “situazione epistemica reale” (real epistemic situation) le proprietà epistemiche di proposizioni sono “indicizzate temporalmente” (time-indexed), nella misura in cui una proposizione p può essere verificabile per il soggetto S al tempo t0, ma

inverificabile per lo stesso a qualunque tempo ti che precede o segue t0175.

173 Putnam 1981, p. 55, tr. it. p. 63. 174 Volpe 2003, p. 16.

175 Ivi, p. 19. Egli specifica che “le difficoltà implicate nel tentativo di approssimarsi (approximate) ad

una situazione epistemica ideale possono rivelarsi tanto serie quanto quelle implicate nel tentativo di

Infatti, anche se le proposizioni possono acquisire il loro valore di verità ad un certo momento, è controintuitivo immaginare che una proposizione possa perdere il valore di varita che ha avuto fino ad un certo istante176. Questo argomento apre due strade:

(a) negare l'intellegibilità dell'idea di verità legate a condizioni epistemiche troppo ideali;

(b) o interpretare questa concezione in un modo meno antropocentrico, prendendo in considerazione esseri di specie diversa177.

Se il primo percorso porta all'estremo la soluzione epistemica (in direzione anti- realista), il secondo corre il rischio di realismo metafisico, rompendo il legame tra verità e ricerca che è alla base delle teorie epistemiche della verità. Una possibile via d'uscita sembra essere un compromesso tra queste due, ovvero prendere in considerazione soggetti con le nostre stesse abilità ma possedute in un grado più alto (anche se non infinito)178. É facile concepire proposizioni con un valore di verità che anche questi

super-umani, nella condizione privilegiata di “superasseribilità” (superassertibility), sarebbero capaci di riconoscere, come la proposizione “c'è un cosmo che non ha relazioni spazio-temporali con quello in cui viviamo” (evidence transcendence)179.

Indentificare le proposizioni vere con quelle riconoscibili da questo tipo di esseri significa concepire il mondo come dipendente dall'estensione delle abilità cognitive di questi esseri (nel senso di coincidente con i loro limiti epistemici)180.

Una posizione diversa è quella di Richard Rorty, altro grande esponente del pragmatismo nella seconda metà del Novecento. Egli pensa che vero è soltanto un attributo che noi siamo disposti a concedere a quelle proposizioni utili e corenti con gli attuali criteri di razionalità all'interno della nostra cultura. In questa prospettiva, la verità è un tipo di “asseribilità corrente” (current assertibility), cioè è una nozione intraculturale. Si tratta di un tipo di teoria pragmatica della verità nella misura in cui il rifiuto della differenza tra verità e giustificazione è visto da Rorty come conseguenza della massima pragmatica: la differenza tra verità e giustificazione è una differenza che non fa alcuna differenza, all'interno della propria cultura; al massimo, la differenza tra verità e giustificazione è vista come la differenza tra auditori, quello presente ed uno futuro dotato di maggiori informazioni.

corsivo nel testo.

176 Volpe 2003, pp. 19-20. Come l'autore evidenzia, S potrebbe dormire al tempo t

0, o trovarsi in un posto

diverso: p potrebbe non essere vero per “ragioni che possono sembrare contingenti” (apparently very

contingent reasons), ivi, p. 20.

177 Volpe 2005, pp. 176-177. Altre critiche vengono dalla circolarità che qualcuno intravede per queste

teorie che usano la verità per spiegare cosa significhi accettabilità razionale: anche la nozione di probabilità non può essere d'aiuto qui, perché dire che una proposizione è probabile non è la stessa cosa che dire che è probabilmente vera (e quindi necessitiamo nuovamente della verità), p. 184. Cfr. Goldman 1986.

178 Volpe 2005, p. 187, con riferimento a Wright 1986. 179 Wright 1992.

La posizione di Rorty è radicale, nella misura in cui sostiene che circa la verità noi abbiamo responsabilità solo verso gli esseri umani, ma non verso la realtà181. Rorty

definisce la sua posizione come un tipo di etnocentrismo, differenziandosi da un relativismo nel suo essere più estremo: egli non pretende validita universale per la sua concezione relativista della verità, e in ciò egli intende evitare il paradosso in cui cadono tutti i relativismi182. Dal sostenere che p è relativa agli standard di S, derivano

due possibili conseguenze:

 o p è una verità assoluta, e quindi il relativismo, pretendendo validità universale, è falso;

 o p è solo relativamente vera, caso in cui noi non potremmo cercare di convincere a riguardo nessun'altro che non condivida la nostra situazione di partenza.

È interessante che il dibattito tra Rorty e Putnam venga visto da Dell'Utri come una disputa interna alla stessa famiglia del pragmatismo, perché ognuno si considera il vero autentico erede della tradizione pragmatista. Le tappe del loro pluri-decennale confronto possono essere semplificate brevemente. In un primo momento, essi si avvicinano l'un l'altro dopo il rifiuto putnamiano del realismo metafisico e del convergentismo, anche se Rorty critica la nozione di schema concettuale che è ancora centrale nel realismo interno di Putnam. Un'altra differenza che va rimarcata consiste nel fatto che Rorty propende per un darwinismo per cui i concetti attuali sono casualmente il risultato di processi di interazione causale tra l'uomo e l'ambiente, evitando un impegno verso la normatività, l'idea, cioè, dell'esistenza di norme che guidano l'evoluzione della nostra conoscenza, come la verità. In questo modo, la verità è considerata alla stregua di uno strumento adattativo, piuttosto che un obiettivo della nostra attività epistemica183.

Negli anni Novanta, infine, i due si avvicinano, quando entrambi iniziano a considerare la verità come indefinibile: Rorty apre al deflazionismo (allontanandosi da William James), mentre Putnam apre ad un realismo naturale in cui la nozione di schema concettuale decade184.

181 Engel, Rorty 2007, tr. it. pp. 47-64, qui p. 63 e p. 59. Secondo Rorty la verità ha solo tre usi:

“devirgolettativo” (disquotational), “laudativo” (endorsing), e “cautelativo” (cautionary), cfr. Rorty 1986.

182 Rorty 1979 e Rorty 1982. Maria Baghramian solleva eccellenti obiezioni verso la pretesa rortyana di

una qualche sostanziale distanza del suo etnocentrismo dal relativismo. L'autrice sostiene che tutti i relativismi sono etnocentrici e che legare l'idea di verità a quella di giustificazione fa della verità un concetto relativo, cosa che porta l'autrice ad attribuire a Rorty una posizione di relativismo aletico. Infatti, spiegare la verità in termini di accordo intersoggettivo vuol dire farla dipendere da norme e concetti locali, Baghramian 2004, p. 112. Sul relativismo aletico si veda Coliva 2009, pp. 45-50 e Baghramian 2004, pp. 92-115, teoria in genere associata all'opera di MacFarlane (2003 e 2005). Il relativismo aletico si distingue dal pluralismo aletico nella misura in cui ogni relativismo è un pluralismo ma non vale il contrario.

183 Dell'Utri 2004, p. 237, con riferimento a Rorty 1984, Rorty 1993, p. 447, ma anche Putnam 1982, p. 5. 184 Dell'Utri 2004, pp. 213-255.