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Section I: The Terms of the Debate

2. Verità

1.2.1 Che cos'è la verità?

Per iniziare, è bene focalizzarsi sull'uso comune che si fà della verità, per poi giungere a tentativi di formalizzarla, come quelli avanzati dalle teorie semantiche della verità. Una proposizione può esser ritenuta vera se le parole che essa contiene hanno un riferimento, e se esso (il riferimento) è esattamente quello che viene inteso con quella particolare proposizione. I riferimenti dei termini di una proposizione determinano dunque il suo “valore di verità” (truth-value): in generale, i riferimenti sono le relazioni che legano le parole di un linguaggio con i loro rispettivi oggetti nel mondo (chiamati referenti). Si possono avere concezioni realiste o anti-realiste dei referenti, a seconda del grado di indipendenza che si attribuisce ad essi, ovvero della maggior o minore dipendenza di essi dal mondo, piuttosto che dalla nostra conoscenza di esso. Nel primo caso lo scetticismo è alle porte, mentre nel secondo le minacce vengono dall'anti-realismo e dal rischio di auto-referenzialità del linguaggio. Comunque, seguendo questo percorso ci si può chiedere se tutte le verità (tutte le proposizioni vere) hanno un riferimento, e se il grado di indipendenza del riferimento è lo stesso per tutte le verità.

Se è difficile sostenere che tutte le parole si riferiscono a qualcosa, la maggior parte dei filosofi del linguaggio è concorde nel ritenere che almeno certi tipi di termini si riferiscono – come gli indicali (come sostiene Kaplan), i tipi naturali (come prevede il realismo metafisico di Putnam) o i nomi propri (come ritenuto da Frege, Russell e Kirpke). Le questioni che restano aperte sono però “come si riferiscono queste parole?” e “in che misura il riferimento è connesso alla verità?”. Per esempio, i personaggi di un romanzo hanno un riferimento? Certamente ci sono verità che li riguardano, all'interno del romanzo, il cui criterio è la coerenza con la storia narrata; ma la questione della realtà del riferimento è ancora irrisolta. Se autori come Alexius Meinong sostengono che le proposizioni all'interno dei romanzi hanno un riferimento reale – dal momento che possono esser dette vere o false – altri, come Willard von Quine, distinguono tra significato e riferimento: in questi casi, i termini hanno un significato (che dipende dal loro esser parte di una storia da cui ricevono condizioni di verità), pur mancando di un riferimento76. Lasciando in sospeso tale questione, che ci porterebbe lontano dal tema

principale per la mia linea di discorso, possiamo focalizzare l'attenzione direttamente sulle diverse teorie della verità che mostrano una complessa gamma di modi possibili di concepire questa nozione.

Come primo passo, bisogna decidere se considerare la verità come una sostanza o come una proprietà. Se la prima via (percorsa soprattutto dai realisti metafisici) si riferisce alla verità come a qualcosa capace di esistere indipendentemente – come una mela o un libro – la seconda concepisce la verità come qualcosa simile alla bianchezza o alla pesantezza, che possono essere possedute dalle cose ma senza la capacità di esistere indipendentemente dal nostro attribuirgliele. Quest'ultima strategia lascia aperta la strada verso l'eliminazione del sostantivo “verità” a favore dell'aggettivo “vero”:

76 Cfr. Meinong 1904 e Quine 1960. Secondo quest'ultimo il riferimento è “indeterminato” e Donald

Davidson, seguendo questa direzione, sostiene che noi non possiamo spiegare il riferimento perché esso dovrebbe essere spiegato in termini non linguistici, mentre noi non possiamo uscire dal nostro linguaggio. Cfr. Davidson 1984 ma anche Reicher 2014.

“la verità non è altro che la proprietà posseduta da quei pensieri che sono veri, il loro essere veri, così come la pesantezza è la proprietà di quelle cose che sono pesanti, il loro essere pesanti, e la bianchezza è la proprietà di quelle cose che sono bianche, il loro essere bianche”77.

Seguendo questa strada, si arriva al punto di sostituire la domanda “che cos'è la verità?” con la domanda “che cos'è essere vero?”. Questo è uno spostamento da una teoria della

definizione (o della natura) ad una teoria del criterio della verità, quest'ultimo definito

come qualcosa la cui presenza ci fornisce l'indicazione della presenza di qualcos'altro78.

Sviluppare una teoria del criterio di verità significa chiedersi “quali condizioni sono necessarie e sufficienti affinchè qualcosa sia vero”. Tale formulazione della domanda ci porta a considerare cosa deve esservi affinchè qualcosa vero79. I filosofi, e tutti noi nelle

nostre vite quotidiane, abbiamo a che fare con proprietà di qualcosa nel mondo e, tuttavia, nei nostri discorsi non possiamo riferirci direttamente a questi oggetti reali, e necessitiamo perciò di un duplicato discorsivo delle loro proprietà: i concetti. Vi è una stretta relazione tra proprietà e concetti: affermare che il concetto di asprezza “si applica” ad un determinato oggetto vuol dire affermare che quell'oggetto “possiede” la proprietà dell'asprezza. Ma va detto che “acquisire” o “possedere” il concetto non è la stessa cosa di acquisire o possedere una proprietà: quest'ultima riguarda un piano fisico, piuttosto che linguistico80.

Vale la pena notare, anche, che se i nominalisti negano l'esistenza di proprietà (riducendole ai concetti), i realisti si avvicinano maggiormente alla nostra idea di senso comune circa la loro esistenza indipendente. Mentre la posizione nominalista è segno di un anti-realismo dal momento che nega esistenza, e quindi realtà, ad oggetti astratti come i concetti, all'estremo ideale opposto il realismo concettuale concepisce l'“l'oggettività dei nostri concetti [come] ancorata in un mondo che si è strutturato

concettualmente”81. Resta ancora aperta, però, la domanda principale che può adesso

essere affrontata con tutti gli strumenti necessari: a cosa viene assegnata la proprietà dell'essere vero? Ciò riporta in vita un concetto abbandonato nel paragrafo precedente: quello di portatore di verità. Se i portatori di verità sono entità che portano qualcosa che li rende veri in base al riferimento a qualcos'altro (fattori di verità), ora è chiaro che cosa essi portano: la proprietà dell'essere vero. Tuttavia, non tutte le proprietà (e, di conseguenza, non tutti i concetti) si applicano a tutte le cose, e questo fatto ci porta a considerare portatori di verità “propri” e “impropri”. Inoltre, la questione dell'identificare un portatore di verità ha a che fare con la complessa questione di identificare un “veicolo” per la verità che sia il meno problematico82.

77 Volpe 2005, pp. 18-19.

78 D'Agostini 2011, pp. 36-37. La definizione di criterio di verità è quella di Volpe 2005, p. 142.

Focalizzarsi sul criterio di verità non esclude il problema di una sua definizione, ma semplicemente lo mette in secondo piano.

79 Ivi, pp. 23-24.

80 Ivi, pp. 41-45. È importante evidenziare la differenza tra concetti e concezioni: due persone possono

avere diverse concezioni circa lo stesso concetto. Secondo i relativisti concettuali, la scelta dei concetti influenza la relazione con le proprietà delle cose. Ancora: possiamo avere una concezione dei concetti come entità “cristalline” (Frege) o come “fluide” (Wittgenstein), cfr. Lynch 2001, p. 3.

81 Habermas 1999, p. 166, tr. it. p. 160 con riferimento a Brandom 1979.

Da quanto detto sopra, sembra che il problema dei portatori di verità sia più una questione di scelta che di scoperta83. Le frasi di un linguaggio a cui noi attribuiamo la

verità sono di tipo “dichiarativo”, cioè dicono che le cose stanno in una certa maniera. Questo tipo di frasi si riferiscono solitamente a contenuti espressi dai parlanti in un atteggiamento dichiarativo. Ogni enunciazione di questo contenuto (enunciato-tipo o

sentence-token) è una particolare espressione (occorrenza) dello stesso nucleo (chiamato sentence-type). Una frase va infatti distinta dalla sua enunciazione, che è piuttosto

un'entità determinata nello spazio e nel tempo84. Per mezzo di asserzioni noi

manifestiamo le nostre credenze; la stessa frase può essere enunciata, asserita o semplicemente creduta, ma essa mantiene lo stesso contenuto. Ci si può riferire ad esso col nome di proposizione. La domanda sui portatori di verità assume ora maggiore chiarezza: a quale livello poniamo il ruolo di portatore di verità? Al livello della frase o a quello della proposizione?

A questo riguardo, una distinzione utile per le finalità di questo lavoro può essere quella tra una nozione epistemica o non-epistemica di verità. Così come accadeva per il realismo, la prima definisce la verità in termini di conoscenza (corrente o possibile); la seconda taglia la verità da ciò che è possibile conoscere, e la mette in relazione più stretta col livello della realtà. Una concezione epistemica della verità interpreta i successi cognitivi soprattutto in base al legame tra verità e giustificazione, ma non spiega adeguatamente il fallibilismo (o, per lo meno, non lo spiega in maniera realista, ovvero dovuto a un fallimento nel rappresentare la realtà): un approccio non-epistemico evidenzia la distanza tra verità e giustificazione che rende la conoscenza incerta – e quindi spiega bene il fallibilismo – ma apre le porte allo scetticismo (dal momento che non possiamo mai sapere se la nostra conoscenza è corretta o meno, se per giudicarla abbiamo bisogno di riferirci a qualcosa di esterno e potenzialmente inaccessibile). Nella gamma di possibilità aperte dall'orizzonte epistemico, si hanno diversi gradi di indipendenza per la verità, a seconda della distanza con cui vengono concepite le condizioni di verità:

a) il valore di verità è conosciuto adesso;

b) il valore di verità sarà conosciuto alla fine della nostra cultura; c) il valore di verità sarà conosciuto alla fine della specie umana; d) il valore di verità è conoscibile in linea di principio85.

Se a) e b), in diverso grado, fanno collassare la nozione di verità su quella di “asseribilità corrente”, c) assegna il diritto di attribuire il valore di verità allo schema concettuale di una cultura che ha raggiunto il suo massimo sviluppo, mentre d) fornisce una nozione di verità che è conoscibile ma solo possibilmente.

propri e impropri è suggerita da D'Agostini 2011, p. 40. I deflazionisti, tuttavia, tendono a rifiutare l'idea che la verità sia una proprietà, come vedremo.

83 Ivi, p. 45, con riferimento a Kirkham 1992, p. 59. 84 Caputo 2015, pp. 16-17.

Ciò implica che il valore di verità di una credenza (ma lo stesso vale per proposizioni ed enunciati, come detto sopra) dipende dai poteri delle nostre facoltà cognitive (attuali o no), e per questa ragione non è inconoscibile86. Come emerge da quanto detto sopra, una

nozione epistemica di verità concepisce la stessa come legata alla conoscenza possibile o corrente, e da a) a c) il peso della conoscenze corrente nel dirimere la verità decresce, e il concetto di verità diventa sempre meno epistemico. Si giunge così ad un approccio non-epistemico alla verità, secondo cui la verità è indipendente da qualunque conoscenza: una proposizione può essere vera o falsa anche se per noi dovessere essere impossibile trovare delle prove/giustificazinoi che ci permettano di sciogliere il nodo circa la sua verità o falsità. Come in precedenza per il realismo, si possono distinguere due tipi di concezioni non-epistemiche anche per la verità: una “radicalmente” non- epistemica (che vede la verità come pienamente inconoscibile) e una “semplicemente” non-epistemica, secondo cui il valore di verità di una proposizione può essere sconosciuto87.

Se una concezione epistemica della verità solitamente assume la forma di una teoria coerentista, una nozione non-epistemica è tipicamente sostenuta da coloro che assumono una teoria corrispondentista della verità. Infatti, qui “l'intuizione corrispondentista” porta a concepire il valore di verità come dipendente dall'oggetto della corrispondenza (che funge da fattore di verità) e questa tipo di dipendenza da un qualcosa di non-epistemico è segno di una concezione non-epistemica della verità88.

Una simile teoria della verità è stata solitamente associata all'assolutismo tipico del realismo metafisico, dal momento che di solito (nella sua forma intuitiva) la corrispondenza è stata considerata come corrispondenza con fatti assolutamente indipendenti. Tuttavia, il punto è che anche se la teoria corrispondentista della verità non implica necessariamente un assolutismo metafisico (dal momento che può essere associata anche con forme di pluralismo aletico, come vedremo), l'assolutista metafisico adotta, intuitivamente, una teoria corrispondentista della verità89.