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Diventare moglie e madre in carcere: la celebrazione del matrimonio e l’accesso alle tecniche di procreazione assistita.

Nel documento Donne ristrette (pagine 97-109)

Il diritto all’affettività tra norme e prassi penitenziarie

5. Diventare moglie e madre in carcere: la celebrazione del matrimonio e l’accesso alle tecniche di procreazione assistita.

Accanto al controverso e ad oggi irrisolto problema del diritto alla ses- sualità delle detenute, si pongono infine due altre questioni connesse alla realizzazione della personalità nell’ambito di una relazione affettiva – il soddisfacimento dell’aspettativa a contrarre matrimonio e a ricercare una gravidanza mediante il ricorso alla procreazione assistita nel corso della detenzione – che hanno trovato rispettiva soluzione nel dato normativo e nell’elaborazione giurisprudenziale.

Per quanto attiene al primo profilo, l’art. 110 c.c. stabilisce che, quando uno degli sposi, a causa di un’infermità o di «altro impedimento giustifica- to» – tra cui rientra, indubbiamente, lo stato di detenzione – si trovi impos- sibilitato a recarsi alla casa comunale, l’ufficiale di stato civile si trasferisca insieme al segretario comunale «nel luogo in cui si trova lo sposo impedito» per celebrare in tale luogo il matrimonio, alla presenza di quattro testimoni; analoga disposizione è prevista dall’art. 70-nonies d.P.R. 3.11.2000 n. 396 per la costituzione delle unioni civili (nel qual caso, peraltro, i testimoni necessari sono solo due). L’art. 44 co. 1 o.p., nello sforzo di preservare la riservatezza e la dignità degli interessati, precisa che negli atti di stato civile non si deve fare menzione dell’istituto penitenziario dove è avvenuto il ma- trimonio, limitandosi a riportare l’indirizzo del carcere (art. 91 reg. o.p.), il che tuttavia rende piuttosto agevole risalire all’effettivo luogo di celebrazio- ne (Coppetta b), 2015, p. 496); analoga previsione è del resto stabilita, per le medesime ragioni, per quanto concerne le nascite che si verificano nel corso della detenzione, pur trattandosi ormai di evenienze piuttosto infrequenti (Mastropasqua, 2007, p. 64; Monetini, 2012, p. 112 ss.).

Naturalmente il matrimonio o l’unione civile ben potranno essere cele- brati all’esterno dell’istituto, nel corso della fruizione di un permesso-pre- mio, laddove concedibile in forza della posizione giuridica e della condotta carceraria della condannata; come si è già avuto modo di osservare, invece, è controverso se a tali fini possa essere accordato un permesso c.d. di necessità ai sensi dell’art. 30 o.p. (v. supra, § 3.1.).

Più complesso, a causa dell’assenza di una specifica previsione norma- tiva, si è invece rivelato il percorso giurisprudenziale che ha condotto al

riconoscimento del diritto di accesso alle tecniche di procreazione assisti- ta – disciplinate dalla legge 19.2.2004 n. 40 e dalle relative Linee Guida emanate dal Ministero della Salute – per le persone ristrette in un istituto penitenziario.

Solo in tempi relativamente recenti la Corte di cassazione ha affermato espressamente il diritto dei detenuti di fare ricorso alle tecniche di cui alla legge 40/2004, nel caso di sterilità o infertilità certificata di uno dei due partners, riconoscendo in capo alle persone ristrette in carcere il diritto alla procreazione, quale situazione giuridica soggettiva non sacrificabile in asso- luto, ma tutelabile in concreto sulla base di un bilanciamento ispirato al «cri- terio della proporzione tra le esigenze di sicurezza sociale e penitenziaria e l’interesse della singola persona» (Cass., Sez. I, 30.1.2008, n. 7791, con ri- ferimento peraltro ad un caso di applicazione del regime ex art. 41-bis o.p.). Si tratta del resto di una posizione in linea con la giurisprudenza europea, secondo la quale la libertà di concepire un figlio, ricompresa nel diritto al rispetto della vita privata e familiare sancito dall’art. 8 C.e.d.u. ed integrante un aspetto di particolare rilievo dell’esistenza e dell’identità di un individuo, non può essere negata da parte di uno Stato sulla sola base della condizione detentiva, in assenza di specifiche ragioni giustificatrici e di un attento con- temperamento degli interessi in gioco (C. eur., G.C., 4.12.2007, Dickson).

Alla situazione di infertilità documentata deve essere parificata quella in cui uno dei componenti della coppia sia portatore di una malattia virale sessualmente trasmissibile per infezioni da HIV, HBV od HCV, così come prescritto dalle Linee Guida in materia di procreazione medicalmente assi- stita, espresse con d.m. 11.4.2008 n. 31639 ed oggi sostituite da quelle di cui al d.m. 1.7.2015 n. 86935 (Cass., Sez. I, 21.1.2009, n. 11259). Pur in assenza di specifici precedenti giurisprudenziali sul punto, inoltre, non potrà negarsi senza incorrere in ingiustificate disparità di trattamento il ricorso alle tecniche di fecondazione alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili di particolare gravità, come stabilito dalla Corte costituzionale con sentenza 96/2015. In forza di quanto disposto con la pronuncia di ille- gittimità costituzionale dell’art. 4 legge 40/2004 (C. cost., 162/2014), infine, deve ritenersi garantito non solo l’accesso alle tecniche di tipo omologo, ma anche alla fecondazione eterologa, «qualora sia stata diagnosticata una pato- logia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili».

La giurisprudenza ha, per contro, più volte ribadito il divieto di fare ri- corso alle tecniche di procreazione assistita qualora non venga accertata medicalmente una patologia che giustifichi il trattamento invocato, ma solo in conseguenza dell’impedimento ai rapporti sessuali determinato dalla de- tenzione (Cass., Sez. I, 10.5.2007, n. 20673). Tale accertamento, peraltro, è stato talora ricollegato dalla Corte di cassazione ai protocolli scientifici

(richiamati anche dalle già citate Linee Guida) che individuano una effettiva condizione di infertilità solo in assenza di concepimento dopo almeno un anno di regolari rapporti sessuali non protetti, così di fatto negando in radice la possibilità di pervenire ad una diagnosi in tal senso a fronte dello stato detentivo di uno dei due partners (Cass., Sez. I, 18.10.2011, n. 46728).

Statuita in linea di principio la libertà di accesso alle tecniche di procre- azione assistita nel corso della detenzione, resta il problema di come darvi attuazione concreta, consentendo alla detenuta l’accesso ai centri di P.M.A. pubblici o privati, autorizzati dalle Regioni ed iscritti in un apposito registro, all’interno dei quali devono obbligatoriamente essere eseguiti tutti gli inter- venti relativi alla procedura (artt. 10 e 11 legge 40/2014). In proposito si è suggerito, in alternativa, il ricorso allo strumento del trasferimento in luogo esterno di cura, previsto dall’art. 11 o.p., oppure a quello del permesso di necessità di cui all’art. 30 o.p. (Mastropasqua, 2010, p. 387). Se la prima soluzione può incontrare un ostacolo nell’attribuzione della natura terapeuti- ca ai trattamenti di procreazione medicalmente assistita, non unanimemente condivisa35, la seconda appare difficilmente praticabile, alla luce della lettu- ra che la giurisprudenza consolidata dà dell’istituto (v. supra, § 3.1), in parti- colare considerando che gli accertamenti diagnostici e gli interventi richiesti dalle tecniche di fecondazione assistita, soprattutto dal punto di vista della donna, hanno una numerosità ed una frequenza davvero poco conciliabile con la declinazione normativa dei presupposti del permesso, come si è visto incentrata sul requisito dell’eccezionalità.

In conclusione, sembra potersi affermare che la questione nel suo com- plesso meriterebbe un intervento normativo ad hoc, dato il rilievo della tutela della libertà di procreare nell’ambito dell’attuazione dei diritti delle persone ristrette. Il tema ha indubbiamente una particolare pregnanza per quanto riguarda le detenute di sesso femminile, che più difficilmente degli uomini possono permettersi di rimandare la realizzazione del loro desiderio di maternità ad un tempo, quello del ritorno in libertà, che potrebbe trovarle in una condizione di fertilità diminuita o definitivamente compromessa a causa dell’età. Le implicazioni complessive dell’accesso delle detenute alla procreazione assistita non possono tuttavia essere disconosciute, laddove si consideri che allo stato di gravidanza ed alla condizione materna la legge ricollega la possibilità di accedere ad un ampio catalogo di benefici e mi- sure alternative alla detenzione e talora veri e propri divieti di carcerazione (cfr. infra, La marginalizzazione del carcere). Parrebbe quindi opportuno – proprio nell’ottica di quel necessario bilanciamento degli interessi in gioco 35 Cfr. in proposito Cass., Sez. I, 10.5.2007, n. 20673, secondo la quale l’art. 11 o.p. «ri- guarda solo la profilassi e la cura della salute dei detenuti, mentre la procreazione medical-

evocato tanto dalla giurisprudenza interna quanto da quella europea – indi- viduare dei criteri (specificando inoltre a quale autorità ne sia demandata la valutazione) che consentano di contemperare il rispetto di un legittimo desiderio di maternità con la necessaria tutela del nascituro da strumentaliz- zazioni pericolose per il suo benessere psicofisico.

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Nel documento Donne ristrette (pagine 97-109)

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