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I colloqui: disposizioni generali, iter autorizzativo, soggetti legittimati.

Nel documento Donne ristrette (pagine 64-69)

Il diritto all’affettività tra norme e prassi penitenziarie

2. Il mantenimento delle relazioni affettive in regime intramurario.

2.1. I colloqui: disposizioni generali, iter autorizzativo, soggetti legittimati.

Tra gli strumenti volti a garantire il diritto all’affettività delle detenute in regime intramurario, gli incontri de visu e le telefonate rivestono indub- biamente un ruolo di primo piano, com’è facile intuire; non a caso l’art. 18 o.p., nel dettare la disciplina generale dei colloqui, impone che «particolare

favore» venga accordato a quelli con i familiari.

In quest’ottica, quello ai colloqui con i componenti della famiglia si con- figura come un vero e proprio diritto soggettivo (Cass., Sez. Un., 26.2.2003, n. 25079; Ciavola, 2014, p. 93; Santinelli, 2015, p. 202), con una conseguen- te significativa compressione dello spazio riservato alle valutazioni discre- zionali da parte dell’autorità concedente. L’art. 37 co. 1 reg. o.p. richiede in- fatti la verifica della sussistenza di «ragionevoli motivi» per l’autorizzazione dei soli colloqui con persone diverse dai congiunti e dai conviventi, con ciò escludendo che gli incontri con questi ultimi possano essere soggetti ad un sindacato quanto alle ragioni che li giustificano.

Al di là delle prassi, non pare tuttavia che si configuri un effettivo auto- matismo tra la sussistenza dei rapporti di parentela richiesti dalla legge e la concessione dei colloqui, non solo perché la legge richiede comunque uno specifico provvedimento autorizzativo2, ma anche e soprattutto perché al- cune circostanze possono precludere gli incontri, sia pure, si auspica, solo in via del tutto eccezionale e per periodi circoscritti (Santinelli, 2015, p. 206): basti pensare alla sussistenza di motivate esigenze di indagine3, ma anche, secondo alcuni Autori, a valutazioni di ordine trattamentale, purché formu- late nell’interesse esclusivo della detenuta (Santinelli, 2015, p. 207).

Particolarmente delicate si prospettano, poi, le situazioni nelle quali un provvedimento del giudice civile sia intervenuto a vietare gli incontri tra la donna ristretta ed i figli minorenni oppure a vincolarli al rispetto di determi- nate modalità concrete, imponendo ad esempio visite protette, caratterizzate dalla necessaria presenza di un operatore, o il divieto di svolgimento all’in- terno della struttura carceraria (cfr. infra, Essere madre dietro le sbarre, § 4.2.).

Nel definire la cerchia dei soggetti autorizzati ai colloqui senza che sia necessaria la previa verifica di una ragionevole giustificazione, il legislatore ha scelto – volutamente, si è ipotizzato, proprio allo scopo di lasciare spazio ad interpretazioni di ampio respiro – di fare ricorso a categorie non prede- finite a livello normativo, impiegando in modo apparentemente indifferen- ziato i termini «familiari» e «congiunti»4. L’amministrazione penitenziaria,

2 Circostanza che non ha mancato di suscitare dubbi in dottrina quanto alla compatibilità della disciplina – considerata sotto questo profilo «non del tutto appagante» (Santinelli, 2015, p. 206) – con l’art. 15 Cost., che annovera la libertà di comunicazione tra i diritti fondamentali della persona (Bernardi, 1983, p. 338).

3 In presenza di tali situazioni, purché concretamente e rigorosamente individuate in mo- tivazione, la giurisprudenza ammette infatti in linea di principio che possano essere limi- tati colloqui anche con gli appartenenti alla cerchia familiare più ristretta, come il coniuge (Cass., Sez. I, 4.7.2013, n. 8798) o i figli (Cass., Sez. I, 4.5.2011, n. 26835).

con la circolare DAP. n. 3478/5928 dell’8.7.1998 in materia di colloqui e corrispondenza telefonica, pur ritenendo di dovervi includere in linea di principio, oltre al coniuge, tutte le persone legate al detenuto da vincoli di parentela o affinità entro i limiti dettati dal codice civile (e dunque entro il sesto grado: art. 74 c.c.), per ragioni di opportunità ha scelto di considerare «congiunti», ai fini della procedura di ammissione ai colloqui, solo i parenti e gli affini fino al quarto grado (v. peraltro infra, § 2.5, per quanto attiene ai ristretti nel circuito ad alta sicurezza), raccomandando tuttavia l’impiego di criteri di «particolare favore» nella valutazione discrezionale sull’ammissio- ne degli altri familiari.

Quanto ai «conviventi», opportunamente annoverati dall’art. 37 co. 1 reg. o.p. tra i destinatari dell’autorizzazione “facilitata” (Ciavola, 2014, p. 92), la predetta circolare chiarisce come debbano esservi fatti rientrare tutti coloro che prima dell’inizio della carcerazione coabitavano con la persona ristretta, «senza attribuire alcuna rilevanza all’identità del sesso o alla tipologia dei rapporti intrattenuti […] (more uxorio, di amicizia, di collaborazione dome- stica, di lavoro alla pari, etc.)».

Al fine di snellire ed accelerare l’iter autorizzativo, la sussistenza del legame di parentela, del vincolo coniugale o dello stato di convivenza può essere oggetto di autocertificazione da parte della detenuta. Ciò vale, in li- nea di principio, anche per le straniere (che rappresentano circa il 40% delle donne ristrette: v. supra, Quale genere di detenzione?, § 4), le quali tuttavia devono corredare la dichiarazione di copia di un documento di identità e del titolo di soggiorno5; il che fa sorgere il problema delle cittadine di Stati non appartenenti all’Unione europea che si trovino sul territorio in posizione di clandestinità o comunque di irregolarità amministrativa, per le quali la pro- cedura di autocertificazione non risulta accessibile, rendendosi necessario il ricorso all’attestazione delle autorità consolari del Paese di provenienza. Nel tentativo di conciliare il rigore di questa procedura – ostacolata soprat- tutto dai tempi lunghi di risposta dei consolati – con l’esigenza di assicurare anche alle straniere, a prescindere dalla posizione di regolarità amministra- tiva, la fruizione di un diritto fondamentale quale quello al mantenimento dei contatti con i congiunti, il Dipartimento dell’amministrazione peniten- ziaria (Circolare 3478/5928 del 1998, già citata) raccomanda alle direzioni di autorizzare comunque il ricorso alle autocertificazioni quando ciò risulti indispensabile e quindi – pare di poter ritenere anche alla luce delle prassi vendo la cerchia in modo eccessivamente rigoroso. Per una ricostruzione delle diverse lo- cuzioni impiegate nell’ambito dell’ordinamento penitenziario al fine di individuare i vari componenti della cerchia affettiva e relazionale delle persone ristrette cfr. Mastropasqua, 2007, p. 43 s.

applicative – quando la detenuta diversamente non possa godere di alcun colloquio (sul punto v. peraltro infra, § 2.2.).

Pare infine significativo segnalare, quale indice di una concezione parti- colarmente attenta alla rilevanza del sentimento per gli animali nell’ambi- to del diritto all’affettività, che parte della giurisprudenza di merito ritiene di poter annoverare tra i familiari anche il cane del detenuto, consenten- done la visita «con particolare riguardo alla presenza di collare, museruo- la, vaccinazioni obbligatorie e requisiti della persona che lo accompagna nell’istituto penitenziario» (Mag. sorv. Vercelli, 26.10.2006; Santinelli, 2015, p. 203).

Come si è detto, i colloqui con i terzi estranei alla cerchia dei «congiun- ti» possono essere autorizzati solo in presenza di «ragionevoli motivi». La discrezionalità attribuita sul punto all’autorità concedente appare eccessiva (Scomparin, 2009, p. 249), laddove si consideri che le dimensioni dell’affet- tività ben possono prescindere dal dato formale della convivenza o del rap- porto di parentela. Il problema può trovare un correttivo parziale attraverso l’adozione, da parte della giurisprudenza, di un criterio di sostanziale am- piezza che tenga in debita considerazione, nell’ambito dei «ragionevoli mo- tivi», la situazione concreta della singola detenuta e le ragioni «di carattere personale e familiare» addotte a sostegno della richiesta di colloquio (Cass. civ., Sez. Un., 13.6.1996, n. 5448), in particolare se conosciute e valorizzate dagli operatori penitenziari nell’ambito del progetto trattamentale6; restano tuttavia irrisolte le sperequazioni legate alla diversa disciplina dettata dalla legge per i contatti con le due categorie, in particolare nell’ambito dei regimi detentivi di rigore (v. infra, § 2.5.).

Hanno diritto a fruire dei colloqui tutte le detenute, siano esse imputate o condannate, e le internate. La posizione giuridica non è tuttavia priva di rilievo, in primo luogo per quanto attiene al meccanismo concessorio: com- petente ad autorizzare agli incontri le imputate per le quali non è ancora stata pronunciata sentenza di primo grado è infatti l’autorità giudiziaria che procede7, alla quale la valutazione è demandata affinché possano essere te-

6 In questo senso si esprime la circolare DAP 3478/5928 del 1998, che peraltro, nell’an- noverare senza incertezze le relazioni affettive tra le situazioni a cui possono riferirsi i «ragionevoli motivi», raccomanda in proposito la salvaguardia e la tutela di tutti i «rapporti costruttivi e strutturati», anche quando «non normativamente rilevanti».

7 Prima delle recenti modifiche, la previsione lasciava spazio a più di un’incertezza inter- pretativa, in particolare a causa del richiamo, operato dall’art. 18 co. 7 all’art. 11 co. 2 o.p., che nell’individuare le autorità procedenti in relazione alle diverse fasi del procedimento penale faceva riferimento al previgente codice di rito e dunque a scansioni ed organi giudi- ziari oggi non più previsti (senza che il legislatore si fosse mai preoccupato di intervenire

nute in considerazione eventuali esigenze cautelari attinenti al procedimento in corso, mentre in tutti gli altri casi è chiamato a provvedere il direttore dell’istituto penitenziario (artt. 18 o.p. e 37 co. 1 e 2 reg. o.p.). Parzialmente diversa risultava la scelta normativa per quanto riguarda le telefonate, alle quali le imputate erano autorizzate, dopo la sentenza di primo grado, dal magistrato di sorveglianza anziché dall’amministrazione penitenziaria (art. 39 co. 4 reg. o.p.). Il d.lgs. 123/2018 ha tuttavia superato questa discrepanza, attribuendo al direttore dell’istituto la competenza a provvedere sulle richie- ste di autorizzazione alla corrispondenza telefonica dopo la pronuncia della sentenza di primo grado.

La differenziazione di competenze si riflette anche sui rimedi azionabili in caso di diniego dell’autorizzazione.

Per quanto riguarda il provvedimento del direttore, la giurisprudenza più risalente ne sosteneva la natura di atto amministrativo non soggetto ad impugnazione, ma l’orientamento più recente e più condivisibile, alla luce dell’ormai pacifico inquadramento del diritto ai colloqui tra i diritti sogget- tivi, riconosce senza incertezze la possibilità di presentare reclamo giurisdi- zionale al magistrato di sorveglianza, ai sensi dell’art. 35-bis o.p., nel caso in cui il permesso sia stato illegittimamente rifiutato, oppure accordato con modalità difformi da quelle prescritte dalla legge, ad esempio imponendo l’impiego dei mezzi divisori o consentendo un numero di contatti inferiore rispetto a quanto previsto (Mura, 2004, p. 1363; Santinelli, 2015, p. 210; Cass., Sez. I, 20.10.2010, n. 39314).

Si ritiene tuttavia che non possa assurgere a vero e proprio diritto sog- gettivo, ma vada inquadrata tra i meri interessi legittimi – e dunque resti al di fuori dell’alveo della tutela giurisdizionale – la pretesa all’impiego di determinati criteri organizzativi, come ad esempio la scelta dei giorni e del- le fasce orarie per i colloqui, che la detenuta lamenti come incompatibile con le esigenze dei propri familiari (Renoldi, 2009, p. 3781). Si tratta di un profilo di non scarsa rilevanza, in quanto le modalità concrete con le quali la direzione gestisce i colloqui, dall’individuazione di calendario ed orari (con particolare riferimento all’estensione ai giorni festivi) alle procedure di prenotazione ed al numero di locali disponibili, possono di fatto ostacolare o precludere i contatti, al di là del formale rispetto del dettato normativo. Non a caso, nel formulare lo schema di regolamento per gli istituti e le sezioni femminili (Circolari G-DAP0308268/2008 e G-DAP0009952/2011), l’am- 1993, p. 696). I dubbi principali riguardavano la fase che precede l’esercizio dell’azione penale, in relazione alla quale dottrina e giurisprudenza dominanti – ma non unanimi – indi- viduavano quale organo competente alla concessione dei colloqui il giudice per le indagini preliminari e non il pubblico ministero, competente unicamente per un parere preventivo (in giurisprudenza, cfr. da ultimo Cass., Sez. I, 7.5.2015, n. 37834).

ministrazione penitenziaria prescrive che per gli incontri visivi debba essere assicurata almeno una domenica al mese (art. 19) e che la fascia oraria in- dividuata per la corrispondenza telefonica debba risultare «compatibile con le esigenze scolastiche dei figli» (art. 20). In questa prospettiva, negare ogni tipo di tutela giurisdizionale alla detenuta che, ancorché formalmente auto- rizzata, resti di fatto esclusa dai colloqui a causa delle scelte organizzative dell’amministrazione può con ogni evidenza inficiare l’effettiva attuazione del diritto.

Non meno problematica si rivela peraltro l’individuazione del tipo di ri- medio esperibile dalle imputate fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, autorizzate ai colloqui, come si è detto, dall’autorità giudiziaria e non da quella amministrativa. Escludendo la possibilità tanto di proporre reclamo al magistrato di sorveglianza – riferibile soltanto ad atti e provve- dimenti dell’amministrazione penitenziaria – quanto di dolersi del diniego del permesso di colloquio davanti al tribunale del riesame, l’orientamen- to giurisprudenziale prevalente riconosce alla detenuta la legittimazione a presentare ricorso per cassazione contro il provvedimento che, negando o limitando i contatti visivi o telefonici, di fatto determini un inasprimento del grado di afflittività della misura cautelare applicata. Si è giustamente osser- vato (Santinelli, 2015, p. 210) che ciò determina un’ingiustificata disparità di trattamento tra condannate ed imputate, dal momento che queste ultime si vedono consentita unicamente la proposizione di un ricorso per violazione di legge, circoscritta dunque ai soli vizi macroscopici dell’atto.

Nel documento Donne ristrette (pagine 64-69)

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