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Il ruolo della famiglia e degli affetti in ambito penitenziario.

Nel documento Donne ristrette (pagine 62-64)

Il diritto all’affettività tra norme e prassi penitenziarie

1. Il ruolo della famiglia e degli affetti in ambito penitenziario.

La normativa penitenziaria riconosce il diritto fondamentale delle persone ristrette ad avere contatti con la propria famiglia e con il mondo esterno; il man- tenimento delle relazioni affettive nel corso della detenzione costituisce da un lato tratto caratterizzante di una pena conforme a principi di umanità, e dall’altro risponde pienamente alla finalità rieducativa che deve caratterizzare la sanzione penale, anche in vista del futuro reinserimento sociale del condannato.

Si tratta del resto di una prospettiva del tutto in linea con i principi della nostra Carta costituzionale, tra cui vengono in rilievo, in particolare, gli artt. 2, 29, 30 e 31, nonché con quelli sanciti dalle fonti sovranazionali. Basti men- zionare, in primo luogo, l’art. 8 C.e.d.u., che riconosce il diritto al rispetto del- la vita familiare, nonché, con più specifico riferimento al contesto detentivo, le Regole penitenziarie europee (Racc. R (2006)2 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, 11.1.2006), che all’art. 24.4 raccomandano agli Stati membri di permettere ai detenuti «di mantenere e sviluppare relazioni fami- liari il più possibile normali», aiutandoli «a mantenere un contatto adeguato con il mondo esterno», e le c.d. “Regole di Bangkok” («Regole delle Nazioni Unite relative al trattamento delle donne detenute e alle misure non detentive per le donne autrici di reato», adottate il 21.12.2010), che stabiliscono (Reg. 26) che «i contatti delle detenute con la loro famiglia, in particolare con i loro figli, le persone che ne hanno la custodia e i rappresentanti legali dei fi- gli devono essere incoraggiati e facilitati attraverso ogni ragionevole mezzo». Indicazioni specifiche per favorire il mantenimento del rapporto genitoriale si rinvengono, poi, nella Raccomandazione (2018)5 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa concernente i figli delle persone detenute del 4.4.2018.

Anche la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 20.11.1989, ratificata dall’Italia con legge 27.5.1991 n. 176, afferma il diritto dei minorenni separati dai loro genitori, anche per ef-

fetto della detenzione di questi ultimi, di intrattenere regolarmente «rapporti personali e contatti diretti con entrambi», a meno che ciò non contrasti con il loro interesse preminente.

Sul piano della normativa interna, occorre innanzitutto menzionare la legge 23.6.2017 n. 103, che, nel dettare i principi ed i criteri direttivi per la riforma dell’ordinamento penitenziario, impone all’art. 1 co. 85 lett. n) il «riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e interna- te» e la «disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio», nonché, alla lett. t), l’introduzione di «norme che considerino gli specifici bisogni e diritti delle donne detenute»; di come i decreti attuativi abbiano tentato di concretizzare tali previsioni, si dirà nel corso della trattazione. Oltre alle più specifiche disposizioni che verranno analizzate analiticamente nel pro- sieguo, vanno fin d’ora ricordati l’art. 15 o.p., che annovera i contatti con il mondo esterno e con la famiglia tra gli elementi del trattamento penitenzia- rio, ed il successivo art. 28, che specifica come «particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie»1. In attuazione di questo principio, l’art. 37 co. 11 reg. o.p. raccomanda alle direzioni degli istituti penitenziari di segnalare ai centri di servizio sociale (rectius, dopo la modifica operata con legge 27.7.2005 n. 154, agli uffici locali di esecuzione penale esterna) competenti per territorio le situazioni nelle quali risulti che i familiari non mantengono rapporti con il detenuto o l’internato, affinché vengano intrapresi gli interventi opportuni.

La centralità delle relazioni con la famiglia emerge con chiarezza anche dagli artt. 14 e 42 o.p., che, in materia di assegnazioni e trasferimenti, indi- viduano i «motivi familiari» tra i criteri di scelta dell’istituto di destinazio- ne ed impongono all’amministrazione di tenere conto, in particolare, della vicinanza al luogo di residenza della famiglia (Siracusano, 2015, p. 332 s.); si tratta di un parametro a cui il d.lgs. 2.10.2018 n. 123, recante riforma dell’ordinamento penitenziario in attuazione della delega di cui alla legge 103/2017, si propone, opportunamente, di attribuire un rilievo ancora mag- giore, premettendo al primo comma dell’art. 14 o.p. l’affermazione esplicita di un vero e proprio diritto dei detenuti e degli internati all’assegnazione «a un istituto quanto più vicino possibile alla stabile dimora della famiglia o, se individuabile, al proprio centro di riferimento sociale, salvi specifici mo- tivi contrari». Va peraltro osservato che tale principio, c.d. di “territorialità della pena”, incontra uno specifico ostacolo attuativo nel caso della deten- zione femminile, in ragione dell’estrema esiguità del numero delle detenute e conseguentemente degli istituti deputati ad accoglierle, sparsi sul territorio nazionale (v. supra, Quale genere di detenzione?, § 6).

In una prospettiva più generale, quello dell’affettività si rivela un tema particolarmente delicato per le donne, in conseguenza della loro ricorrente condizione di madri e comunque del ruolo tendenzialmente centrale, anche dal punto di vista emotivo, rivestito nell’ambito della famiglia (Casciaro, 2018, p. 124 s.). Non a caso la Circolare del Dipartimento dell’amministra- zione penitenziaria G-DAP0308268 del 2008, nell’introdurre lo Schema di regolamento-tipo per gli istituti femminili e le sezioni femminili di istituti maschili, con il dichiarato scopo di apportare «un contributo alla modifica- zione dei modi e dei tempi della vita detentiva, in modo da avvicinarli ai bisogni della popolazione femminile», menziona in primo luogo tra «i prin- cipali problemi che caratterizzano e distinguono la detenzione femminile» proprio la maternità, il rapporto con i figli e l’affettività.

Appare dunque particolarmente importante focalizzare l’attenzione sulle modalità concrete con le quali le norme e le prassi penitenziarie garantisco- no alle detenute il mantenimento o la ripresa dei legami familiari e l’eserci- zio della genitorialità.

Occorre poi soffermarsi anche sulla dimensione del diritto alla sessualità, che non può essere dimenticato, a dispetto o forse proprio in ragione della scarsa (per non dire inesistente) attenzione finora dedicatagli dal legislatore. Si tratta di una problematica che tradizionalmente viene riferita soprattut- to alla popolazione ristretta maschile: basti pensare che tra gli argomenti a sostegno dell’introduzione dei c.d. “colloqui intimi” milita di solito, e non tra gli ultimi, quello relativo all’esigenza di diminuire l’aggressività all’in- terno degli istituti penitenziari. Gli studi e le interviste dimostrano invece che quello della privazione del diritto alla sessualità è problema acutamente avvertito anche dalle detenute, con la conseguente necessità di interpellarsi circa le modalità più adeguate con le quali possa essere garantito.

Infine, un cenno deve essere dedicato alla tutela della libertà di contrarre matrimonio e di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assi- stita durante la detenzione, trattandosi di aspetti intimamente connessi ad una piena realizzazione della sfera affettiva ed emotiva della donna ristretta.

Nel documento Donne ristrette (pagine 62-64)

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