Essere madre dietro le sbarre
2. La valutazione delle competenze genitoriali della madre ristretta: al cune considerazioni generali.
Come appena illustrato, tutti gli strumenti di hard law e di soft law che intervengono in materia di genitorialità in carcere e di protezione dei diritti dei figli minorenni di genitori ristretti concordano sul fatto che la condanna e la detenzione14 non possano di per sé oggi costituire evidenza di inidoneità all’esercizio del ruolo genitoriale.
È altresì vero, tuttavia, che aver commesso alcune tipologie di reato de- termina una presunzione più o meno forte di incompetenza del genitore. Talvolta peraltro è lo stesso genitore che fatica a esercitare la funzione orien- tativa e normativa non sentendosi legittimato a causa della condizione de- tentiva (Provincia di Milano, 2013, 24).
In alcuni casi è la stessa legge a stabilire, per il caso di condanna per delitti in danno della prole minore, la sanzione accessoria della decadenza o della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale (cfr. diffusa- mente infra, § 5.1). Secondo il legislatore, infatti, in questi casi la condanna reca in sé una presunzione di pregiudizio per gli interessi morali e materiali della prole minore tale da indurre a ravvisare l’inidoneità all’esercizio della responsabilità genitoriale, salvo che emerga specificamente che l’interesse del minore richiede una diversa soluzione (cfr. C. cost., 31/2012).
In tutti gli altri casi la valutazione dell’idoneità genitoriale del genitore ri- stretto è effettuata dal giudice civile nell’ambito di procedimenti di scissione della coppia genitoriale (v. infra, § 5.3) o, ma la giurisprudenza edita è deci- 14 Come già accennato, le riflessioni qui proposte concernono essenzialmente le madri ristrette in istituti penitenziari. È tuttavia evidente che alcune delle considerazioni proposte possono es- sere estese alle madri beneficiarie di misure alternative alla detenzione in carcere, ristrette in una
samente più scarsa, di limitazione (per un esempio cfr. Trib. min. Bologna, 6.4.200615) o ablazione della responsabilità genitoriale o di dichiarazione dello stato di adottabilità (sul tema più in generale v. infra, § 5.1). La situazione potrebbe tuttavia cambiare nel prossimo futuro perché il recentissimo d.l. sicu- rezza (d.l. 4.10.2018 n. 113, così come modificato con la legge di conversione 1.12.2018 n. 132) ha introdotto l’obbligo di comunicare al pubblico ministero minorile il fermo e l’arresto di madre con prole di età minore, la custodia cau- telare in carcere e l’ordine di esecuzione della sentenza di condanna a pena detentiva nei confronti di madre di prole di minore età, nonché l’obbligo per «gli istituti penitenziari e gli istituti a custodia attenuata per detenute madri» di trasmettere «semestralmente al procuratore della Repubblica presso il tri- bunale per i minorenni [...] l’elenco di tutti i minori collocati presso di loro, con l’indicazione specifica, per ciascuno di essi, della località di residenza dei genitori, dei rapporti con la famiglia e delle condizioni psicofisiche del minore stesso», formalizzando altresì l’obbligo per la medesima procura di effettuare ispezioni negli istituti di pena che accolgono minori (art. 15-bis). L’introduzione di un collegamento diretto tra l’ordinamento penitenziario e il diritto civile minorile potrebbe dunque aiutare a rilevare e a porre rimedio alle situazioni di pregiudizio nei confronti di minori. Fino a oggi invece era raris- simo che la procura minorile ricevesse segnalazioni dagli istituti penitenziari e dagli ICAM.
Il giudice infatti si attiva solo in presenza di un ricorso di un altro soggetto legittimato (cfr. per i provvedimenti de potestate l’art. 336 co. 1 c.c.), tranne il caso di urgenza in cui può intervenire anche d’ufficio (cfr. per i provvedimenti de potestate l’art. 336 co. 3 c.c.). Tuttavia, per la stragrande maggioranza dei bambini che hanno un genitore ristretto non c’è valutazione giudiziale (del tri- bunale per i minorenni o del tribunale ordinario) dell’idoneità genitoriale del detenuto: i genitori non hanno alcun interesse (al di fuori del caso della scis- sione della coppia genitoriale) a ricorrere al tribunale, anzi cercano di evitarlo, optando per l’affido informale o addirittura tacendo di avere figli.
L’analisi della giurisprudenza evidenzia come la maggioranza dei giudici civili sia restia a pronunciare provvedimenti limitativi o ablativi della respon- sabilità genitoriale ancorati alla condanna penale e alla detenzione del genitore e in particolare della madre. L’accento è infatti posto soprattutto sul profilo af- 15 Il Trib. min. Bologna rigetta il ricorso del pubblico ministero per la limitazione della responsabilità genitoriale della madre, detenuta per omicidio del primogenito, richiamando la relazione del servizio sociale territoriale secondo cui la donna, compatibilmente con la propria condizione detentiva, ha sempre dedicato tutto il tempo consentitole alla cura dei figli, mostrandosi in grado di coglierne i bisogni e le problematiche, ed attivandosi come madre al fine di promuoverne il benessere, mantenendo una forte presenza emotiva e psico- logica, nonché educativa verso i figli, in stretta collaborazione con il marito.
fettivo e sul piano della relazione con il figlio, nella convinzione che l’interesse del minore sia anzitutto maturare un attaccamento sicuro e che invece l’appor- to educativo (presuntivamente deficitario in ragione della “devianza” del geni- tore dal modello sociale di riferimento dell’ordinamento giuridico) ben possa essere integrato da un sostegno esterno, quale per esempio un affidamento diurno, un servizio di “educativa territoriale”. In quest’ottica, nella valutazio- ne delle competenze del genitore detenuto particolare attenzione deve essere posta alla relazione e all’accudimento nel periodo precedente alla detenzione (Trib. min. Milano, 18.8.2014; Trib. min. Trieste, 23.8.2013), alla qualità della relazione durante gli eventuali incontri svoltisi in luogo neutro con i genitori detenuti (rileva la messa in atto da parte del minore di meccanismi difensivi di addormentamento, torpore, regressione, di fronte all’inadeguatezza del ge- nitore durante l’incontro Trib. min. Milano, 5.10.2016; sottolinea al contrario lo «stile relazionale affettuoso» dei genitori, pur entrambi detenuti a seguito di condanna per concorso in riduzione in schiavitù e lesioni personali gravi a danni di alcuni figli Trib. min. Milano, 18.8.2014), alla partecipazione attiva agli incontri sulla genitorialità organizzati all’interno della struttura carceraria, all’adeguatezza del collocamento individuato dal genitore per la prole durante la propria detenzione (Cass. civ., Sez. I, 14.5.2005, n. 10126), alla disponibili- tà ad occuparsi della prole una volta usciti dal carcere e alle reiterate richieste di effettuare incontri (Cass. civ., Sez. I, 3.7.2013, n. 22215). Dai colloqui con gli operatori emerge poi in concreto l’opportunità di una valorizzazione di una prospettiva di genere che tenga conto delle peculiarità della genitorialità delle detenute, le quali nella quasi totalità dei casi costituivano il caregiver di riferimento della prole prima della detenzione e spesso non hanno altre risorse affettive e dunque rovesciano sulla prole la loro affettività, con la conseguenza che favorire l’attaccamento materno filiale tramite prescrizioni alla madre può dare ottimi risultati e anche ridurre in modo consistente il rischio di recidiva.
In controtendenza sembra invece porsi l’orientamento giurisprudenziale che, sebbene con riferimento a vicende molto specifiche e circoscritte, evi- denzia come la condanna in sede penale (o la sottoposizione alla custodia cautelare in presenza di gravi indizi di colpevolezza) contrasti con il dovere di educare il figlio alla legalità, fornendogli «parametri normativi idonei a preservarlo dai rischi connessi alla trasgressione dei valori sociali e morali (e, dunque, legali) condivisi»16. La giurisprudenza più nutrita sul tema è costituita
16 Così Trib. min. Reggio Calabria, 8.3.2016 (nel caso di specie il padre era ristretto in carcere e la madre aveva da poco terminato un periodo di arresti domiciliari nello stabile in cui era il domicilio del minore e in cui risultavano agli arresti per associazione mafiosa anche la nonna e uno zio).
da provvedimenti di tribunali per i minorenni del sud Italia (e in particolare del Trib. min. Reggio Calabria) nel quadro di procedimenti de potestate relativi a minori inseriti in contesti familiari connotati da un radicamento profondo nella criminalità organizzata e in cui dunque l’inadeguatezza delle figure genitoriali investite della responsabilità educativa deriva da «comportamenti sovversi- vi delle regole morali e civiche del vivere … per facta concludentia indica- ti come norma di vita e linea di condotta»17. In quest’ottica, la condanna ad una pena detentiva, pur senza voler «far abbattere sulle figure genitoriali una sorta di stigma sociale quale conseguenza delle vicende giudiziarie», può in concreto indicare un modello educativo improntato alla illegalità tale da com- promettere in modo decisivo per il futuro lo sviluppo della prole minorenne, anche in conseguenza del modello di vita fornito con il suo comportamento dal genitore al figlio (Trib. min. Reggio Calabria, 8.3.2016). Corollario di tale impostazione è, com’è evidente, il ruolo centrale della consapevolezza e del pentimento del reo rispetto al reato18.
Risulta poi abbastanza diffusa l’opinione secondo cui la scelta del geni- tore di delinquere malgrado gli effetti pregiudizievoli sulla prole di una pos- sibile condanna costituirebbe un serio indizio di inidoneità genitoriale19. La Cassazione, per esempio, avallava una dichiarazione dello stato di adotta- bilità richiamando l’argomentazione della Corte di Appello secondo cui «la quere Casabona, 2016, p. 30 s. Sul rischio che nella verifica dello stato di abbandono di un minore si agisca sulla base di un modello educativo standardizzato, nel concreto difficile da riscontrare, in forza di una visione stereotipata di un modello di famiglia v. Lollini, 1999. 17 Così Trib. min. Reggio Calabria, 8.3.2016. La pronuncia si inserisce in un nutrito filone giurisprudenziale che da alcuni anni è fortemente impegnato nella protezione di giovani adolescenti cresciuti in contesti familiari radicati nella criminalità organizzata mediante la rottura dei legami di fatto e giuridici tra i minori e il contesto familiare, con l’obiettivo di fornire ai ragazzi strumenti di affrancazione dal contesto di provenienza (cfr. in senso analogo Trib. min. Reggio Calabria, 26.4.2016; Trib. min. Reggio Calabria, 22.8.2008; Trib. min. Bari, 17.1.2007; Trib. min. Bari, 10.5.2006; Trib. min. Catania, 2.4.2007). Il 31 ottobre 2017 il Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura ha approvato una risoluzione in materia di “tutela dei minori nell’ambito del contrasto alla criminalità orga- nizzata” avallando questo orientamento.
18 Cfr. Trib. min. Milano, 5.10.2016 che, pronunciandosi per la dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore figlio di genitori entrambi detenuti, rileva come sia la perizia psi- chiatrica effettuata in sede penale sia la CTU civile avessero riscontrato l’assenza del senso di colpa e l’esternalizzazione della propria responsabilità da parte della donna e ritenuto che tali alterazioni incidano sulla sfera affettiva e relazionale dei genitori.
19 Secondo Lagoutte, 2011, p. 47, infatti, «the responsibility of the parent in separating
him- or herself from his or her child(ren) (leaving the home country to emigrate, committing criminal offences that lead to expulsion, etc.) seems to play an overpowering role, which con- sequently denies any taking into consideration of the more specific perspective of the child».
detenzione (ed il conseguente “abbandono” del figlio di appena quattro anni) dipendeva dalla condotta criminosa» del padre (unico genitore presente) il quale «posto in libertà vigilata si era reso recidivo ed aveva commesso ul- teriori reati, pur essendo consapevole che, ove fosse stato nuovamente con- dannato ed arrestato, il figlio si sarebbe trovato in stato di abbandono» (Cass. civ., Sez. I, 27.5.1995, n. 5911). In una recente e nota vicenda milanese i giudici sottolineavano invece che la madre, «pur consapevole del proprio stato di gravidanza, […] aveva ordito e commesso azioni gravissime – con l’uso di sostanze pericolose – potenzialmente dannose anche per la propria salute e per quella del bambino che portava in grembo ed aveva mostrato sia assenza di pensiero e di sentimento rispetto alla vita che si stava formando, sia una completa preponderanza di aspetti inerenti alla dimensione aggressi- va e rivendicativa» (Trib. min. Milano, 5.10.2016).
Questione connessa ma distinta è poi se la detenzione della madre in un istituto penitenziario possa in sé essere interpretata come fonte di pregiudi- zio per la prole.
Fino a pochi decenni or sono l’ingresso dei minori in un carcere che ospitas- se un familiare era di regola precluso. Il r.d. 18.6.1931 n. 787 (“Regolamento degli istituti di prevenzione e pena”), in vigore fino al 1975, prevedeva il divieto ai minori degli anni diciotto anni di visitare gli stabilimenti (art. 58), ammettendo (e si trattava di un primo esempio di politica penitenziaria “di genere”, che prendeva atto cioè delle specificità della detenzione femminile) in via eccezionale, previa autorizzazione della Direzione dell’istituto, che le madri con bambini di età inferiore ai due anni potessero tenere con sé i figli in carcere (art. 43). Secondo l’opinione dominante, infatti, la detenzione, in quanto evidenza della trasgressione delle norme, fondava una presunzione assoluta di inidoneità educativa del genitore con la conseguenza che la rela- zione con i figli andava interrotta, nell’interesse stesso di questi ultimi.
Dovendosi oggi ritenere superata in forza dei principi costituziona- li esaminati supra (§ 1) l’equivalenza tra condanna ad una pena detentiva e inidoneità genitoriale, occorre chiedersi se il contatto del minore con l’ambiente carcerario in cui la madre è inserita sia fonte di un pregiudizio tale da rendere opportuna la cesura dei contatti tra madre e figlio.
È di tutta evidenza che l’ambiente carcerario non è luogo adatto ai minori (Convery e Moore, 2011, p. 29). Anzitutto per le sue caratteristiche fisiche ed organizzative: il carcere ha di solito una scarsa illuminazione naturale, una temperatura bassa e umida, una ridotta areazione, diffusa presenza di fumo passivo, spazi ridotti; nelle sezioni destinate alle donne, oltre alle detenute, c’è personale di sorveglianza femminile e questo può rendere difficile per il minore relazionarsi con persone di genere maschile; a volte poi la situazione è di sovraffollamento (anche se, quando si parla di donne detenute, i numeri
talizzante pensata per gli adulti, con rigide regole che pongono il genitore in una condizione di dipendenza da altri per la gestione del proprio tempo e dello spazio e in generale nell’organizzazione delle relazioni sociali anche familiari. Per quanto concerne poi specificamente i bambini “ristretti” con le madri, gli operatori rilevano inoltre che essi vivono in un mondo che gira tutto intorno alla madre e che a tre anni non hanno strutturato dei limiti e non hanno spes- so fatto alcuna esperienza di separazione, con esiti fortemente destabilizzanti quando devono poi uscire dall’istituto penitenziario a causa dell’età (Calle, 2005; Ramasso, 2006). Infine, occorre considerare lo stigma dell’esclusione sociale e delle difficoltà emotive ed economiche che spesso si accompagnano alla detenzione del genitore (Convery e Moore, 2011, pp. 12, 19).
Tuttavia il diritto positivo stesso sembra porre oggi una presunzione di conformità all’interesse del “piccolo” minore della permanenza con la ma- dre in un istituto penitenziario e, a fortiori, in detenzione domiciliare, even- tualmente presso una casa famiglia protetta (cfr. infra, § 3) e ciò sulla base della considerazione degli effetti pregiudizievoli sullo sviluppo del minore derivanti dalla rottura del legame di attaccamento con la madre o con un suo sostituto permanente (Bowlby, 1969). Malgrado questo, ancora oggi, dai colloqui con gli operatori penitenziari e dei servizi sociali territoriali pare emergere come la stessa decisione della donna di tenere il figlio con sé possa essere valutata come evidenza di inidoneità educativa della mamma in quanto lo esclude dal mondo esterno e lo confina in un ambiente a lui non adeguato e lo allontana dall’altro genitore. Invece, dopo il compimento di una certa età, la presunzione si capovolge e l’interesse del minore viene identificato (e si tratta questa volta di una presunzione assoluta e dunque irreversibile) con la collocazione esterna al carcere: oltre i tre anni infatti i minori iniziano in modo significativo a interagire con l’ambiente circostante e a intessere quelle relazioni sociali che sono essenziali per il loro sviluppo, diventando invece meno centrale il legame di attaccamento con il caregiver principale (il limite dei tre anni di vita è ad oggi confermato per la perma- nenza del bambino all’interno di una sezione-nido ordinaria, mentre, almeno teoricamente, si potrebbe arrivare addirittura ai dieci anni per l’accoglienza in un ICAM, secondo quanto emerge dall’attuale art. 47-quinquies o.p.; v. infra, La marginalizzazione del carcere, § 10).
Il contrasto riflette peraltro l’incertezza dei risultati degli studi clinici sui “piccoli” minori presenti in carcere con le madri. Lo studio sistematico di Biondi (1994) infatti indica che «il soggiorno in carcere soprattutto per periodi non mol- to lunghi non sembra influenzare lo stato di salute e l’accrescimento dei bambi- ni» nella fascia 0-3 anni. Altri studi rilevano effetti negativi sullo sviluppo dei bimbi “ristretti” con le madri, particolarmente sulle aree linguistica e sociale ma anche sulle competenze costruttive e posturali (per un’indagine svolta sullo sviluppo dei bambini accolti nel polo di Rebibbia: Sarti, 2012, p. 490).
Dal canto suo la giurisprudenza ha essenzialmente affrontato due aspetti relativi agli effetti della detenzione sul benessere della prole minorenne: anzi- tutto la lontananza causata dalla detenzione del genitore; in secondo luogo il contatto del minore con l’ambiente carcerario tramite i colloqui in carcere20.
E oggi i giudici sembrano concordare, quantomeno a livello di principio, sul fatto che la detenzione non rilevi di per sé ai fini dell’inidoneità genito- riale, potendo i genitori limitare l’obiettivo pregiudizio derivante al minore dalla separazione a causa della detenzione mediante il mantenimento di una relazione affettiva ed educativa di livello almeno sufficiente21. In concreto tuttavia spesso una detenzione medio-lunga viene configurata come presup- posto per la limitazione della responsabilità genitoriale in considerazione degli effetti pregiudizievoli della lontananza sulla funzione affettiva e su quella protettiva che il genitore dovrebbe avere verso la prole. Così, per esempio, la difficoltà obiettiva di esercitare il ruolo genitoriale dovuta alla condizione di detenzione e, nel caso frequente di separazione, alla lontanan- za fisica tra genitore e figlio giustifica l’affidamento esclusivo all’altro geni- tore (in tutti i casi editi la madre: cfr. infra, § 5.2)22 o, ma solo in mancanza di una famiglia allargata idonea e disponibile a prendersi cura del minore, la dichiarazione dello stato di adottabilità23.
Tuttavia, come evidenziato nel paragrafo che precede, è opinione oggi prevalente che l’interesse del minore alla vita familiare prevalga su quello a non venire a contatto con una struttura carceraria: la scelta dell’affidamento familiare del minore che per requisiti di età potrebbe rimanere in carcere con la madre è dunque oggi sostanzialmente lasciata alla valutazione della donna stessa (v. infra, § 4); dovrebbe inoltre ritenersi illegittima l’esclusione dei colloqui in carcere tra genitore e minore sulla base del ragionamento che il contatto con l’ambiente carcerario sia di per sé negativo per il minore. In quest’ottica, le pronunce di affidamento esclusivo del minore figlio di padre 20 Altre discipline hanno invece indagato per esempio gli effetti della carcerazione sul- la percezione del ruolo materno e dunque anche indirettamente sulle capacità genitoriali: Luzzago, Bolognesi, De Fazio, Donini e Pietralunga, 2003, p. 313.
21 Cfr. Trib. min. Milano, 18.10.2014, che dispone l’affidamento familiare (e non l’adozio- ne) di otto fratellini figli di genitori reclusi a seguito di condanna per riduzione in schiavitù e lesioni personali aggravate nei confronti di altri due figli: la madre con fine pena nel 2027, il padre nel 2021.
22 Viene pronunciato un affidamento esclusivo alla madre da: Trib. min. Trieste, 23.8.2013; Trib. Pisa, 9.5.2007; Trib. Catania, 18.5.2006.
23 Per un esempio cfr. Cass. civ., Sez. I, 19.1.2018, n. 1431, che avalla la dichiarazione del- lo stato di adottabilità di un minore figlio di genitori entrambi condannati a una lunghissima detenzione e i cui nonni erano stati valutati, anche a seguito di una specifica CTU, inidonei
detenuto alla madre dovrebbero di regola prevedere il mantenimento dei contatti (cfr. Trib. min. Trieste, 23.8.2013, e Trib. Catania, 18.5.2006: en- trambe le pronunce sono analizzate infra, § 4.2).
Da un punto di vista più generale, occorre infine sottolineare che la de- tenzione della madre, di solito il caregiver principale o addirittura unico del minore, espone il minore a una vulnerabilità ancora maggiore (Ayre, Gampell e Scharff Smith, 2011, p. 5; The Rebecca Project for Human Rights and National Women’s Law Centre, 2010, p. 9). Statisticamente infatti se è detenuta la madre lo è di solito anche il padre (un’indagine sul polo peniten- ziario di Rebibbia quantificava nel 20% i minori con entrambi i genitori de- tenuti: Sarti, 2012, p. 489) con la conseguenza che le uniche possibilità sono l’affidamento (di solito informale e quindi senza controllo) alla famiglia al- largata, a conoscenti o a terzi (Sacerdote, 2011, p. 166. Cfr. anche infra, § 4), oppure la permanenza del “piccolo” minore con la madre presso un istituto penitenziario (cfr. infra, § 3). Peraltro in Italia, come nella maggioranza de- gli altri Paesi europei, non è previsto un sistema organico di rilevazione del dato dell’esistenza di figli all’ingresso in carcere (Sacerdote, 2011, p. 166): spesso le madri non dichiarano l’esistenza di figli per paura di un intervento dei servizi sociali (Sacerdote, 2011, p. 178)24. Ai minori non viene detto che