• Non ci sono risultati.

Eutanasia passiva non consensuale.

4. Lʼeutanasia individualistica pietosa.

4.6 Eutanasia passiva non consensuale.

Rimane da considerare lʼeutanasia passiva non consensuale.

Con “non consensuale” dobbiamo intendere tutti quei casi in cui o il paziente ha espresso la volontà di essere curato, o non ha espresso una precisa volontà contraria a riguardo e non è in grado di esprimerla,

132 Ratificata in Italia con la legge n°145 del 28 marzo 2001.

133 Art. 2 , Convenzione di Oviedo “Lʼinteresse e il bene dellʼessere umano debbono

prevalere sul solo interesse della società o della scienza.”

134 Art.5 , Convenzione di Oviedo “Un intervento nel campo della salute non può

essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato.

Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dellʼintervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi.La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso.”

135 A.VALLINI, Il valore del rifiuto di cure << non confermabile >> dal paziente alla luce

della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, in Diritto Pubblico,

nel momento in cui le cure necessitano, per un temporaneo o irreversibile stato di incapacità. La tematica, tuttʼora aperta, riguarda lʼobbligo giuridico del medico di curare, ma soprattutto si riferisce ai suoi confini, e cioè il limite entro il quale il medico ha il diritto di spingersi o il dove di fermarsi nel proseguire determinati trattamenti. Lʼargomento è particolarmente delicato, in quanto, nella nostra epoca si sono sviluppate tecniche e strumenti in grado di rianimare e tenere in vita le persone in maniera artificiosa malgrado, per esempio, molte delle funzioni vitali siano altamente compromesse o si riscontri la presenza di danni celebrali permanenti con conseguente perdita di coscienza.

Eʼ, dunque, necessario operare un oculato bilanciamento fra il dovere di curare e restituire speranze di vita al malato e il dove di cercare di evitare un accanimento terapeutico ma, purtroppo, questo non è affatto semplice. La difficoltà è insita nel concetto stesso di “accanimento terapeutico” in quanto non si presta ad una definizione univoca ma piuttosto ha sempre creato ambiguità e ancora di più ne sta creando col progredire delle scienze mediche e delle loro nuove tecniche che conducono i pazienti a stati vegetativi persistenti o permanenti.

La difficile decisone, di limitare la pratica clinica poiché i trattamenti da somministrare non produrrebbero il risultato sperato o comunque sarebbero così invasivi da rappresentare soltanto una condotta ostinata o accanimento terapeutico, non poteva e non può di certo essere lasciata alla discrezionalità del medico; egli deve poter basare la sua scelta su dei criteri oggettivi.

Proprio ragionando di sviluppi medici in rapporto alle confessioni religiose136, avevamo anticipato un paio di questi criteri, il primo

consisteva nel distinguere mezzi ordinari, da applicare sempre ed obbligatoriamente, e mezzi straordinari per cui sarebbe giustificabile la non attuazione; il secondo, nato proprio per sostituire il primo, opta per una distinzione fra mezzi proporzionati o sproporzionati137 alla

situazione clinica del paziente. Prestando attenzione ai parametri soggettivi del paziente, però, questo metro di giudizio, perde di oggettività. Una soluzione piuttosto diffusa era quella di interrompere le terapie quando fosse a rischio lo stato di coscienza, la facoltà di relazionarsi con il mondo esterno, anche in mancanza del consenso, non ravvisando alcun interesse nel prolungamento di una vita ormai compromessa irreversibilmente138. Dico irreversibilmente poiché

laddove vi fosse anche una sola ed unica speranza di recuperare tale facoltà, vi sarebbe lʼobbligo del mantenimento in vita. Ma insieme a questo criterio si affaccia un nuovo problema: dare un giudizio certo ed oggettivo sulla reversibilità o meno dello stato di incoscienza. Inoltre, a

136 Vedi § 2.

137 La distinzione fra mezzi ordinari e straordinari fu accantonata in quanto, con lʼevolversi del sapere e delle tecniche scientifiche, molti trattamenti come, per esempio, lʼidratazione e lʼalimentazione artificiali venivano considerati ordinari; si perdeva così il senso iniziale della differenziazione.

Parlando, invece, di mezzi proporzionati e mezzi sproporzionati ci riferiamo ai primi intendendo tecniche,trattamenti e terapie che apportano un miglioramento alla condizione clinica del paziente senza arrecargli particolare disagio, viceversa i secondi non conducono al risultato medico sperato ma arrecano danno al paziente, prolungando la sofferenza di una vita già dolorosa ed instabile.

138 Eʼ il solito pensiero che abbiamo riscontrato nella Chiesa Valdese quando, nel distinguere fra vita biologica e biografica, ritiene lecito rinunciare alla prima nel caso sia già venuta meno la seconda.

livello etico, ciò significava equiparare alla morte quella che invece era una vita, seppur priva di una totale coscienza; e discriminare quindi soggetti in coma, cerebrolesi o con handicap.

Per eliminare il dualismo, si giunge ad utilizzare il criterio della morte, considerato come il più oggettivo, ma nella realtà anche la sua descrizione non è rimasta immutata nel tempo139.

Partendo dallʼattuale definizione scientifica140, che corrisponde alla

morte encefalica, dobbiamo convenire che, nel caso in cui non è ancora accertata la morte cerebrale irreversibile, non vi è alcun accanimento terapeutico se il medico, nella sua posizione di garanzia, proseguirà ad oltranza le cure, non solo per guarire ma per mantenere in vita il paziente il più possibile; anzi, se non tenesse questa condotta, sarebbe a lui imputabile lʼart.40, 2°comma c.p. .

Contrariamente, accertata la cessazione di ogni funzione dellʼencefalo, il sanitario avrà il dovere di interrompere il trattamento, pena lʼapplicazione degli artt. 410-411-412-413 c.p.141. Inoltre il medico non

dovrà fermare le attività terapeutiche se la condizione clinica del

139 La tesi tradizionale è sempre stata quella della cessazione delle indissolubili funzioni del tripode vitale, cuore-cervello-polmoni, ma con le nuove terapie intensive e lʼutilizzo di macchinari artificiale è stato reso possibile dissociare la funzione

respiratoria,cardiaca e nervosa. Così si è giunti a far coincidere la fine della vita individuale con la cessazione totale ed irreversibile di tutte le funzioni dellʼencefalo. C.VIGNA, Introduzione allʼetica, Vita e Pensiero Editore, Milano, 2001, pag.177. 140 La cessazione irreversibile di tutte le funzioni dellʼencefalo, della corteccia e del tronco cerebrale. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Definizione ed

accertamento della morte nellʼuomo, 1991, n°1.

Il criterio della morte encefalica è stato introdotto nel nostro ordinamento proprio successivamente al Comitato di Bioetica, grazie alla legge 578 del 29/12/1993 Norme

per lʼaccertamento e la certificazione della morte, che ne recepisce le conclusioni.

141 In ordine: vilipendio di cadavere; distruzione,soppressione o sottrazione di cadavere; occultamento di cadavere; uso illegittimo di cadavere.

paziente è quella del coma, infatti questo stato non è riconducibile al concetto di morte cerebrale142.

Ne concludiamo che, in presenza di una richiesta di essere curati, nel caso di un affidamento totale ed incondizionato del paziente al personale sanitario, in condizioni di incoscienza ed incapacità o in qualsiasi caso in cui il malato si trovi impossibilitato ad esprimere il consenso a riguardo di trattamenti non rimandabili come quelli salvavita, in capo al medico sorge lʼobbligo giuridico e deontologico di porre in essere specifiche cure e di farle proseguire fino al momento dellʼaccertamento della morte cerebrale irreversibile. Infatti, prima di tal momento, si suppone vi sia la possibilità di una ripresa integrale del soggetto, come dimostrano molti casi clinici, e di conseguenza, persistendo lʼobbligo medico di continuare la rianimazione, non si potrà parlare di accanimento terapeutico.

Oltre allʼaccanimento terapeutico, un altro problema che si pone, in relazione allʼeutanasia passiva non consensuale, è quello della “inutilità delle cure”143. Anchʼesso visto come un limite, sia umano che logico, al

dovere medico di curare. In realtà esso lo è soltanto nei casi in cui il paziente, in stato di incoscienza, sia già moribondo e non esistano pertanto possibilità di ripresa o di prolungamento significativo della vita; in questa particolare situazione clinica il medico può decidere di non attuare alcun trattamento o di interrompere quelli già in atto, senza

142 S.CANESTRARI, op.cit pag.131.

143 F.MANTOVANI, voce “Eutanasia” in Digesto delle discipline penalistiche,UTET, Torino, 1990, pag. 428.

incorrere in alcuna violazione giuridica o deontologica. Ciò che si è appena descritto, infatti, è la normale prassi medica e non ricade minimamente nella fattispecie eutanasica considerando che, non curando o interrompendo le cure, il personale sanitario non è né causa né concausa della morte o della sua anticipazione. Diversamente, diventa un comportamento perseguibile sul piano della responsabilità deontologica e penale quando il concetto di inutilità delle cure non è riferito al significato attribuitogli pocʼanzi ma viene ad essere interpretato in maniera tanto più ampia da condurre ad una accelerazione della morte del paziente, trasformandosi quindi in eutanasia.

Ecco spigato perché le idee, intese in senso lato, di inutilità delle cure ed evitabilità dellʼaccanimento terapeutico, invocate a favore dellʼeutanasia, non possono essere condivise a livello medico e giuridico. Respinte le argomentazioni a favore e forti degli obblighi imposti ai medici dai codici deontologico e penale si afferma che lʼeutanasia non consensuale passiva è da ritenere illecita.