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Naturalizzazione dell'istinto materno nello shūshoku katsudō

7. Femminilità, mascolinità e lavoro

Per comprendere meglio questi elementi ho parlato a lungo di tracce lavorative con ragazze e ragazzi, e ho spesso incontrato delle resistenze da parte loro: quello che il sōgōshoku rappresenta è tanto strettamente legato alle idee locali sulla mascolinità, e viceversa l'ippanshoku e il nuovo eriasōgōshoku lo sono a quelle sulla femminilità, che per loro è stato molto difficile spiegarmi perché, per un ragazzo, sarebbe stato impossibile scegliere una traccia diversa dal sōgōshoku. Per esempio, parlando con Mayu siamo spesso arrivate a un limite invalicabile ai miei “perché” quando lei, incapace di spiegarmi oltre, concludeva il

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discorso dicendo: «è così e basta!», stupita di come io non capissi una cosa così ovvia per lei. Mayu mi ha spiegato alcuni dei motivi che rendono la scelta dei ragazzi solo apparente.

Mayu: Innanzitutto, nell'ippanshoku, forse non è bella da dire, ma lo stipendio è molto basso. E poi il contenuto del lavoro è diverso tra ippanshoku e sōgōshoku. L'ippanshoku... è solo lavoro d'ufficio. E i ragazzi devono mettere via soldi per il futuro. Ed è per questo che l'ippanshoku lo fanno solo le donne.

A: Anche adesso è così?

M: Sì, anche ora, assolutamente sì. Forse non possono nemmeno scegliere [tra le due tracce], i ragazzi (Mayu, Intervista 3).

Mayu ha insistito molto su due fattori, lo stipendio più basso e il contenuto, meno stimolante, del lavoro, per spiegarmi il motivo per cui i ragazzi non scelgono mai l'ippanshoku, ma questo non era sufficiente a spiegare perché non fossero altrettanto un deterrente per le ragazze. E non potrebbero certo bastare queste due motivazioni per azzerare il numero di uomini in un intero settore lavorativo. Infatti, parlando sia con i ragazzi che con le ragazze, è emerso che, prima di tutto, i ragazzi che fanno shūkatsu sono già consapevoli che da loro, più che per dalle loro future compagne, ci si aspetterà che ricevano uno stipendio alto che possa pagare la maggior parte delle spese famigliari. In secondo luogo, un altro elemento che rende lo shūkatsu dei ragazzi molto diverso da quello delle ragazze è la loro consapevolezza che dovranno dedicare la maggior parte del loro tempo al lavoro fino all'età della pensione, mentre le ragazze avranno una “scelta”, quella di lasciare il lavoro temporaneamente o di ridurre le ore: danno quindi più importanza al contenuto del lavoro di quanta gliene diano le loro coetanee donne. È chiaro che, se stipendio alto e contenuto del lavoro interessante sono fattori potenzialmente attraenti per le ragazze quanto per i ragazzi, c’è tutta una serie di elementi – che riguardano le responsabilità economiche dei coniugi e il tipo di impegno che le aziende si aspettano da un dipendente uomo – a far sì che questi fattori incidano soprattutto sulla scelta dei ragazzi. Infatti, Mayu ha proseguito così la sua spiegazione:

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Mayu: Il contenuto, a quanto pare, è proprio diverso. E proprio per questo le ragazze... Potrebbero smettere di lavorare nel giro di dieci anni13, no? Mentre i ragazzi lavoreranno

sempre, fino ai 50, 60 anni, forse anche fino ai 70 anni dovranno lavorare. E in quel caso ovviamente dai importanza al contenuto del tuo lavoro, perché deve essere interessante. Ci sono molte persone che pensano che se devono lavorare, vogliono fare un lavoro attivo. E per questo non c'è nessuno [tra i ragazzi] che voglia fare l'eriasōgōshoku.

Anna: Non ce ne sono?

M: No, è se qualcuno lo dicesse tutti ci rimarrebbero di stucco. A dover scegliere sono soltanto le ragazze (Mayu, Intervista 3).

Ma a mio avviso, mentre le motivazioni come lo stipendio più alto e il contenuto del lavoro più stimolante sono “superficiali” (restano sulla “superficie”, fanno parte dell'antropologia esplicita locale), il motivo fondamentale, implicito e alla base di tutti gli altri, è che un uomo che scelga l'ippanshoku o l'eriasōgōshoku non è considerato un uomo a tutti gli effetti.

Anna: Solo le donne [scelgono ippanshoku]?

Mayu: Sì, e anche l'eriasōgōshoku, sono tutte donne. E in generale gli uomini con qualche

shōgai.

A: Shōgai? M: Disabilità. A: Ah sì?

M: Sì, uomini con disabilità e donne. Più del 90% sono donne. E il motivo è che sōgōshoku e

eriasōgōshoku sono completamente diversi. E il contenuto del lavoro che puoi fare è diverso.

Lo stipendio è [più] basso e il lavoro è diverso. Per questo i ragazzi normalmente scelgono il

sōgōshoku. Che considerino l'eriasōgōshoku non ce ne sono (Mayu, Intervista 3).

Mayu ha sempre trovato le mie domande sul perché gli uomini non possano scegliere l'eriasōgōshoku un po' inopportune, perché a lei sembrava un'ovvietà di cui non avevo ragione di chiedere spiegazioni. Questo mi ha fatto capire che se per lei, così come per le altre ragazze

13 Mayu ha spesso dato per scontato che io capissi, come lei, il motivo per cui è probabile che una donna lasci il

lavoro dopo circa dieci anni, e non adduceva spiegazioni, ma in un'intervista precedente in cui avevamo approfondito l'argomento avevamo chiarito che la ragione, secondo lei, sono le diverse responsabilità di cura dei figli delle donne.

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e gli altri ragazzi con cui avevo parlato, era così difficile spiegare questa differenza, era perché ineriscono al loro stesso genere: un uomo sceglie il sōgōshoku, una donna può scegliere tra sōgōshoku, ippanshoku ed eriasōgōshoku. Nonostante il mondo aziendale giapponese si stia aprendo alle donne e sempre più donne scelgano la carriera del sōgōshoku, la mascolinità ideale incarnata dal sarariiman resta forte, e limita quello che donne e uomini possono scegliere all'interno delle aziende giapponesi: se per le donne questo rende difficile ottenere le stesse opportunità di carriera degli uomini, questi ultimi si vedono di fronte un'unica possibilità, quella del sōgōshoku, delle molte ore di straordinari, dell'impossibilità pratica di assentarsi dal lavoro per crescere i figli. All'interno di questo quadro, agli occhi dei dipendenti e della direzione aziendale, sono le donne a essere le privilegiate della situazione: loro possono scegliere tra le varie tracce di impiego (con implicazioni importanti relative alla loro mobilità di cui tratterò nel paragrafo seguente), possono chiedere e ottenere la maternità e possono ridurre le ore di lavoro se ne hanno la necessità. Questa divisione sessuale del lavoro si riproduce anche grazie al fatto che all'interno delle aziende gli uomini, da una parte, hanno più opportunità di carriera e stipendi più alti, mentre la donne, dall'altra, possono scegliere orari di lavoro più flessibili e non devono rinunciare a passare del tempo con i propri figli: il sistema corrente, in modi diversi e molto parziali, avvantaggia sia gli uni che le altre, rendendo così difficili e improbabili eventuali proteste e tentativi di trasformazione dello stesso.

Se per gli uomini scegliere il sōgōshoku è una scelta necessaria che dà conferma della loro identità maschile, le donne che lavorano nel sōgōshoku lo scelgono a rischio di confondere le categorie di genere insite nella struttura organizzativa aziendale giapponese. Kanae, durante il nostro ultimo colloquio, mi ha raccontato di un episodio che l'aveva molto colpita. Durante un incontro con la Daiwa Securities si è trovata in un gruppo di quattro ragazze a parlare con una dipendente donna: una delle ragazze ha chiesto se fosse vero che, come aveva sentito dire che succedesse nella Nomura Securities, le donne che lavorano nel sōgōshoku siano chiamate dai

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colleghi maschi «yajū»14, bestie. Più della risposta, ovviamente rassicurante, della dipendente della Daiwa Securities, ho trovato interessante la spiegazione di Kanae e la sua consapevolezza del rischio di non essere considerata femminile se lavorerà “come gli uomini” nel sōgōshoku.

Anna: Nell'ippanshoku le donne...

Kanae: Sono di più. L'ippanshoku è tipo l'eriasōgōshoku. Mentre nel sōgōshoku gli uomini sono tanti. Ma tra loro ci sono anche delle donne. Quindi è così: in una maggioranza maschile ci sono anche un po' di donne, no? E nel sōgōshoku il lavoro è più difficile. Più che difficile, è faticoso. Sei molto impegnato. Quello che ha chiesto quella ragazza è: in altre aziende le donne che lavorano nel sōgōshoku... Gli uomini che lavorano nel sōgōshoku... Gli uomini le chiamano yajū.

A: Yajū? K: Bestie. A: Cosa?

K: Il fatto che delle donne lavorino in un ambiente difficile, con orari faticosi, e in mezzo agli uomini, [vuol dire che] se non sei molto forte non ce la puoi fare. E quindi gli uomini le vedono come yajū. Non è una cosa positiva.

A: Ma perché? Cosa vorrebbe dire?

K: Le donne, nell'ippanshoku o nell'eriasōgōshoku, lavorano a ritmi più rilassati. Mentre sembra che quelle che lavorano duramente, con gli uomini, siano chiamate yajū (Kanae, Intervista 2).

Ha poi ha continuato la spiegazione definendo il termine “yajū” tramite il suo contrario.

Kanae: Come in “La Bella e la Bestia”. Una bestia. Anna: Ah. Quindi forte e che incute timore?

K: Esatto, forte e spaventosa. È il fatto di essere forte. A: Ma non in senso positivo?

14 Il termine yajū significa letteralmente “animale selvatico” e Kanae ha usato la parola inglese beast per

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K: No, non è “femminile” o “kawaii”, è proprio il contrario. Significa “non kawaii”15.

A: E allora cos'è che è considerato kawaii? K: Oddio, non saprei.

A: Che immagine ti viene in mente se dico “ragazza kawaii”?

K: Una che dice cose come: [fa una vocina stridula e si sbraccia esageratamente] «non riesco a fare il mio lavoro!». Oppure: «non capisco!».

A: E quello sarebbe kawaii?

K: Bè, io non sono un uomo, quindi non so cosa trovino kawaii, ma sicuramente è quel tipo di atteggiamento alla «aiutatemi!», «non capisco, aiutatemi» che viene considerato kawaii. Più delle donne che dicono «io ce la faccio, so fare il mio lavoro e mi ci impegno», penso siano considerate kawaii quelle che dicono «non capisco!». E per questo penso che le chiamino yajū. Perché sai, sul lavoro se non arrivi al risultato non puoi lavorare nel sōgōshoku. Nel settore delle vendite le cifre, quanto vendi... Si sanno le cifre di quanto tu hai venduto, quindi tutti possono vedere i tuoi risultati, tutti possono vedere il rendimento di tutti quindi hai una grossa responsabilità. Quindi devi ottenere dei risultati. Sei molto sotto pressione e devi ottenere dei risultati. E a quanto pare le donne che si impegnano in questo lavoro sono forti, dal punto di vista emotivo ma anche fisico, perché se non sei forte è un lavoro che non puoi fare. Forse. A: E quindi non sono kawaii.

K: Non sono kawaii. Anche se il loro aspetto è kawaii, sono forti. Se non sei forte non puoi fare quel lavoro.

A: Detta così sembra che “forte” voglia dire “non kawaii”, è così?

K: Forse è così. Non ci sono molte persone che dicano, rivolti a una donna forte, che è kawaii. Non gli si dice che sono kawaii. Non in Giappone. Penso (Kanae, Intervista 2).

La parola kawaii ha una sfumatura di significato particolare: vuol dire letteralmente

“carino”, “grazioso”, ma anche “caro”, “amato”, ed è usato in riferimento a bambini e donne, non agli uomini adulti. Per l'uso che ne ha fatto Kanae si capisce inoltre che è kawaii una certa dose di inesperienza, di incapacità quasi infantile. Questa caratteristica sembra quindi essere considerata attraente in una donna. Una donna “yajū” sarebbe proprio l'opposto di

kawaii perché con questo termine si indica, da come me ne ha parlato Kanae, una donna che è

capace nel suo lavoro e non ha bisogno di appoggiarsi a un uomo. Essere kawaii, aggettivo che non si usa in riferimento agli uomini, fa parte delle caratteristiche considerate

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“femminili”, proprie delle donne, e lavorare nel sōgōshoku al pari dei colleghi uomini priverebbe le donne, agli occhi degli uomini, della loro femminilità. Entrare nel mondo finora rigidamente “maschile” delle aziende giapponesi vorrebbe dire, per le donne, diventare “come gli uomini” e Kanae, ha aggiunto, sa benissimo che lavorare nel sōgōshoku le renderebbe difficile trovare un compagno.

Oltre alla testimonianza di Kanae, molti dei colloqui con le mie interlocutrici hanno confermato che le idee locali sulla femminilità, il modo in cui viene caratterizzata, non è compatibile con la competitività e con una carriera di successo nel sōgōshoku.

Anna: Una mia amica mi ha detto che se lavori nel sōgōshoku non sei considerata femminile,

onnarashii16. Pensi anche tu che sia così? Nanaka: Sì.

A: E quindi cosa vuol dire onnarashii esattamente?

N: Come ha detto lui [un ragazzo di cui le avevo riportato le parole], in Giappone è tipo “debole” o “emotiva”. È così fastidioso. Io non sono onnarashii. Assolutamente no.

A: Okay, quindi onnarashii vuol dire questo. N: Sì e anche “insicura”.

A: Quindi non si tratta di indossare il rosa o cose del genere?

N: Onnarashii? Oh no, non si tratta di indossare abiti rosa, è più, come dire, il “camminare un passo indietro all'uomo”. Penso sia un modo facile per visualizzarlo. Non lo facciamo più, ma prima lo facevano.

A: Di camminare un passo indietro all'uomo?

N: Sì, in Giappone. Quando un uomo entra in una casa o simili, si tolgono le scarpe ed è la donna a metterle a posto. E solo poi lo segue, no? Quindi è sempre un passo indietro. Era così (Nanaka, Intervista 3).

Dalle parole di Kanae e Nanaka emerge come nel mondo aziendale giapponese siano in gioco questioni molto più profonde dei soli numeri di donne dirigenti e del gender pay gap, e relative al genere degli individui, così come è pensato ed elaborato dal gruppo sociale e dalle

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istituzioni, e come questi siano particolarmente visibili nello shūkatsu. Sembrerebbe essere questo il principale ostacolo all'ottenimento reale delle pari opportunità sul lavoro, che per la sua funzione antropopoietica, profonda, sopravvive all'azione della EEOL, superficiale, e alle necessità dell'enterprise-state giapponese di assorbire le donne nella sua manodopera per supplire ai danni di un bassissimo tasso di natalità.