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Naturalizzazione dell'istinto materno nello shūshoku katsudō

1. Nagaku hataraku, “lavorare a lungo”

Quando andai alla mia prima fiera del lavoro, nel quartiere di Harajuku, non sapevo cosa aspettarmi. Non mi aspettavo la pesante, macchinosa burocrazia necessaria per registrarsi e

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accedere all'evento: ogni agenzia di recruiting che organizza una fiera, infatti, chiede agli studenti di compilare lunghi e dettagliati moduli di registrazione, per “schedarli” e mandare loro mail dal contenuto personalizzato in base alla loro area di studio, al prestigio del loro ateneo (esistono infatti incontri riservati solo agli studenti delle università più prestigiose come Università di Tokyo, Waseda e Keio), e al loro sesso. Quel giorno non feci neppure in tempo ad accedere al salone dove ogni azienda aveva allestito il suo stand perché all'ingresso una donna che lavorava all'organizzazione dell'evento mi fermò per dirmi che, una manciata di piani più in alto, stava proprio per cominciare un evento sullo shūkatsu dedicato alle sole ragazze. Era la prima volta che ne sentivo parlare e non capii il significato di alcune espressioni che utilizzò per spiegarmi il contenuto della conferenza. Decisi però che sarebbe stato importante partecipare e mi feci strada nel complicato intrico di scale mobili e ascensori dell'immenso grattacielo fino alla sala che mi aveva indicato. Durante tutta la conferenza non riuscivo a liberarmi di un senso di confusione: infatti, quando la moderatrice ci aveva presentato le tre professioniste donne che avrebbe intervistato riguardo le loro carriere, mi ero immaginata che le domande e le risposte si sarebbero concentrate sulle difficoltà che avevano incontrato nella loro carriera in quanto minoranza di un mondo aziendale prevalentemente maschile e su come avessero superato quegli ostacoli. Ma le mie aspettative furono disattese. Non si trattava affatto di una lezione su come farsi strada in un mondo lavorativo che discrimina in base al genere (solo una volta mi capitò di partecipare a un evento “per ragazze” che trattasse di questo), ma si trattava invece di come queste donne fossero riuscite ad avere una carriera e una famiglia allo stesso tempo, bilanciando i ruoli di lavoratrice e di madre. Questa conferenza è stata la prima occasione in cui ho sentito usare espressioni come

nagaku hataraku e work-life balance, e in cui ne ho intuito la sfumatura “femminile” che

hanno nel contesto aziendale giapponese. La prima, nagaku hataraku, significa semplicemente «lavorare a lungo»: non è scontato, anzi è molto difficile, che una donna lavori a lungo per una stessa azienda. Infatti, nonostante non sia più una scelta automatica come lo era fino agli anni '90, ancora oggi il 60 percento delle donne lascia il lavoro dopo la nascita dei figli (Roberts 2016) per poi, nella maggior parte dei casi, rientrare nel mondo del lavoro

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dopo che tutti i figli abbiano raggiunto l'età scolare e non abbiano più bisogno di molte attenzioni. Anche se la situazione contemporanea dell'occupazione femminile è migliorata rispetto agli ultimi decenni del '900, il tasso di occupazione femminile in base alla fascia d'età sta mantenendo la sua forma a “M” (si veda fig. 2 del capitolo 1): la depressione del grafico rappresenta il calo in corrispondenza della fascia d'età in cui è più probabile che una donna abbia figli piccoli.

Una volta uscite dal mondo del lavoro, diventa molto difficile rientrarci: il curriculum di una donna che abbia interrotto il lavoro per diversi anni – che di conseguenza abbia avuto un'esperienza lavorativa non particolarmente lunga e non sia al passo con i tempi – non ha lo stesso successo del curriculum di una studentessa neolaureata senza nessuna esperienza, per come è strutturato il sistema di assunzioni che ho illustrato nel capitolo precedente. Bisogna inoltre considerare che le aziende spendono molto nella formazione dei loro neoassunti

shinsotsu, i neolaureati, e non sono altrettanto disposte a spendere altrettanto per dipendenti

più anziane che abbiano già imparato il lavoro presso un'altra azienda e abbiano già, quindi, una “forma” (come si usa dire «kaisha no iro ni someru», prendere il colore dell'azienda). È emblematica la storia di Marie, la mamma Nakamura, la famiglia presso cui ho alloggiato per i primi sei mesi di campo. Lei non ha lasciato il lavoro per i figli, ma lo ha fatto per altri motivi e ha poi avuto molta difficoltà nel trovare un altro impiego.

A vent'anni Marie lavorava già, dopo una laurea breve, di due anni, in orticoltura. Era stata assunta da una buona azienda e lavorava già da sei anni quando, incoraggiata da un superiore, si licenziò per andare in Inghilterra per un anno, presso una famiglia, a studiare l'inglese, e poi in Australia per un altro anno, a lavorare come fiorista, allo scopo di migliorare ancora di più la sua conoscenza della lingua. Marie mi ha spiegato il motivo di una scelta tanto radicale: una donna deve fare tutte le cose che sogna prima dei trent'anni. Era questa la ragione che la sua senpai ha usato per convincerla a prendere questa decisione. Non ho capito subito il significato di quest'età, dei trent'anni, finché non ne ha fatto di nuovo menzione quando mi ha spiegato che desiderava avere figli prima di averla raggiunta. Il desiderio di avere dei figli e la convinzione che sia meglio averne entro quella precisa età ha avuto un ruolo decisivo nella

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scelta di Marie: proprio perché desiderava avere figli, ha deciso di utilizzare il tempo che le “restava” per realizzare i suoi progetti, sapendo che dopo le sue energie e il suo tempo sarebbero stati devoluti ad altri. Questa è stata la prima di una lunga serie di occasioni in cui ho sentito attribuire questo significato, di età ottimale entro il quale avere figli, all'età dei trent'anni, dalle mie interlocutrici, come ad esempio Nanaka, e in generale dalle donne intorno a me.

Anna: Quale pensi sia l'età migliore per sposarsi? Nanaka: Ventisette.

A: Ventisette? Presto!

N: Non so, è che tutte le mie amiche vogliono sposarsi a ventisette, ventotto anni. Vogliono il primo figlio a... Tutti pensano che dopo i trent'anni il tuo corpo non... Si indebolisce. Quindi vogliono il loro primo figlio prima di compire i trenta. Quindi vogliono sposarsi a ventisette, ventotto anni. Avere il primo figlio a ventotto, ventinove anni, il secondo a trentuno, trentadue. Questo è quello che sento sempre dire. Che si vogliono sposare prima dei trenta in modo da avere il primo figlio prima dei trenta. Ma, insomma, sarà vero? Perché finché sei in salute penso sia ok averli dopo i trenta. Ma questo è quello che sento sempre dire (Nanaka, Intervista 1).

Tornata in Giappone a ventotto anni, fu molto difficile per Marie trovare un altro lavoro, e l'azienda che alla fine la assunse era una piccola azienda a gestione famigliare, che non la pagava quanto l'azienda precedente e in cui lei non si trovava particolarmente bene. Quando mi ha raccontato queste cose mi ha spiegato che, come ho avuto conferma approfondendo il sistema di assunzioni (si veda il capitolo 2), è quando si è ancora studenti che, facendo

shūkatsu, si hanno le maggiori possibilità di trovare un buon impiego e, con le parole di

Marie, l'azienda presso cui si verrà assunti sarà la migliore in cui si poteva sperare di entrare. Anche se Marie aveva già sei anni di esperienza lavorativa e aveva imparato molto bene l'inglese durante i due anni di interruzione, era stato impossibile per lei essere assunta da un'azienda altrettanto affermata quanto quella precedente.

Come per Marie, trovare un altro lavoro è altrettanto difficile per le donne che lo lasciano per occuparsi dei figli, e molte donne finiscono per andare a riempire posti di ippanshoku

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meno pagati e meno stimolanti di quelli che occupavano prima: le loro carriere subiscono un colpo da cui non si riprenderanno, anche a causa del sistema di promozioni in base all'anzianità, che promuove i dipendenti in base al numero di anni che hanno lavorato per la stessa azienda (Nemoto 2016).

All'interno del quadro così delineato è facile capire le preoccupazioni delle studentesse di cui nessuna alzò la mano quando, durante uno dei primi eventi per ragazze a cui io sia andata, gli fu chiesto dalla moderatrice se fossero sicure di poter “lavorare a lungo”. Ci risulta più facile capire anche il significato e l'importanza che assume l'espressione nagaku, “a lungo”,

hataraku, “lavorare”. Tutte le mie interlocutrici, come quelle ragazze, hanno espresso la

consapevolezza del rischio di dover rinunciare al lavoro per l'impossibilità di conciliare il loro ruolo professionale con quello di madre e, allo stesso tempo, il desiderio di riuscirci.

Anna: Per le donne pensi sia più difficile che per gli uomini lavorare a lungo?

Mayu: Lavorare a lungo, eh? Penso che siano molte le donne che smettono quando hanno figli e quindi da quel punto di vista è difficile... Lavorare a lungo è difficile, ma per quanto riguarda l'azienda non penso che cambi poi tanto. All'interno delle aziende, anche se io non sto ancora lavorando, quello che vedo è che non si pensa in termini di “perché sei donna”. Quindi non penso che sia difficile lavorare a causa delle [questioni interne alle] aziende. Invece a causa di matrimonio e figli penso sia difficile.

A: Più che per gli uomini?

M: Più che per gli uomini. Per gli uomini è dato per scontato lavorare sempre, no? A: Dato per scontato?

M: Generalmente è così. Forse soprattutto in Giappone. Ma se cambi lavoro immagino che sia possibile continuare a lavorare.

A: In genere sono le donne a occuparsi di più dei figli?

M: Sì. Per questo anche se lavori, quello che sento spesso è che quando lavorano sia la madre che il padre è solo la madre a occuparsi dei figli, ed è una situazione molto difficile. Credo dipenda anche dalla mole di lavoro [che una ha] ma visto che lavorano entrambi allo stesso modo ed è solo la donna a badare ai figli penso che sia molto difficile [da sostenere] (Mayu, Intervista 1).

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Questa consapevolezza delle studentesse – le cui ragioni sono da attribuire al sistema aziendale stesso ma soprattutto alle idee locali sulla femminilità, la mascolinità e il lavoro, come illustrerò in seguito – attribuisce delle caratteristiche diverse allo shūkatsu delle ragazze rispetto a quello dei coetanei maschi, e crea lo spazio per tutta una serie di eventi e materiali informativi “per ragazze” – una sorta di binario parallelo dello shūkatsu femminile – che sarà interessante analizzare per approfondire le idee locali sul ruolo sociale delle donne, nella sfera pubblica e in quella privata.