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6. Donne e lavoro in Giappone, considerazioni su leggi e storia dal '900 fino a ogg

6.1 La retorica della “protezione della maternità”

Le condizioni in cui le donne si trovavano a lavorare nel Giappone moderno furono l'origine di un dibattito sulla protezione delle stesse: si diffuse la consapevolezza che i danni fisici da loro subiti potevano compromettere la loro capacità riproduttiva o, comunque, la salute della loro discendenza, cosa che avrebbe avuto un impatto negativo sull'economia e sulla società giapponese (Hunter 1993). A partire dal periodo Meiji (1868-1912) lo stato giapponese si impegnò nel sottolineare l'importanza della maternità e nel dipingere il ruolo sociale della donna come votato alla cura dei figli, del marito e della casa. Per molto tempo fu ignorata la contraddizione crescente tra il ruolo tradizionale delle donne – quello della ryōsai kenbō, la buona moglie e la saggia madre – e il loro ruolo nella forza lavoro, necessario come riserva di manodopera a bassissimo costo, poiché le industrie ne avevano dei grandi vantaggi, non ultimo quello di mantenere bassi anche gli stipendi degli uomini (Mathias 1993). Durante le due guerre, inoltre, le donne erano investite della doppia responsabilità sociale di lavorare al posto degli uomini impegnati al fronte e di dare alla luce il numero più alto possibile di figli per dare vita alle nuove generazioni di soldati. Mentre alcune donne erano mandate nelle stazioni di “conforto” dell'esercito – le cosiddette comfort women – a prostituirsi per i soldati giapponesi, quelle che rimasero a casa si videro affidare il compito di procreare almeno cinque figli. La legge eugenetica nazionale del 1940 stabilì l'obiettivo di portare la popolazione giapponese ai 100 milioni entro il 1960 (Ryang 2006). Ovviamente questa legge chiedeva, non imponeva, alle coppie sposate di produrre almeno cinque figli, ma è un esempio istruttivo di come il governo giapponese abbia ritenuto giusto disporre dei corpi e

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delle capacità riproduttive delle donne sotto il peso delle necessità economiche e demografiche.

Negli anni precedenti alla Seconda Guerra le femministe e le donne all'interno delle organizzazioni sindacali iniziarono quello che chiamarono “Dibattito sulla protezione della maternità”, per discutere della necessità del sottolineare le differenze di genere, o dell'evidenziare invece l'uguaglianza dei generi. Il dibattito si svolse in termini economici e il suo scopo era quello di aiutare le donne con figli a sostenerli economicamente, facilitandone l'assunzione o chiedendo un sostegno economico allo stato in nome del loro contributo riproduttivo alla nazione (Molony 1993). Se negli anni '20 e '30 avevano lottato in nome dei diritti politici e dell'uguaglianza dei sessi, nella seconda metà degli anni '30 le femministe, in un clima di crescente tensione a causa della rigida militarizzazione che il paese stava attraversando, trovarono rischioso continuare a chiedere pari diritti nel “solo” nome della giustizia, e si dedicarono invece a chiedere dei miglioramenti, come il suffragio universale, attraverso la retorica della bosei hogo: il femminismo giapponese, a differenza di quello americano, vide nella maternità la possibilità di restituire alle donne i loro diritti, il loro potere, e decise quindi di sottolineare le differenze di genere, ma non colse i limiti di un'idea complice dell'ideologia di stato (Nemoto 2016).

La bosei hogo, la protezione della maternità, ha giocato un ruolo molto importante nel discorso politico sulla partecipazione femminile alla forza lavoro a partire dai primi anni del '900, restando più o meno dormiente durante gli anni '50 e i '60, per poi riemergere negli anni '70 in occasione del dibattito sulla Equal Employment Opportunity Law, ed è stata utilizzata sia per negare alle donne pari condizioni e salari, sia per facilitare le madri lavoratrici. Queste contraddizioni sono state possibili per merito dell'ampiezza dei significati attribuibili alle parole “maternità” e “protezione”. Per esempio, quando la politica si impossessò dei termini usati dal discorso femminista, «male politicians and social reformers more often called for a ‘motherhood protection’ that focused on women’s bodies, on their fecundity, on protecting women’s physical (and moral!) potential to bear children» (Molony 1993:124). Il discorso della politica, contrariamente a quello femminista, cercava quindi di negare alle donne l'accesso a certi tipi di lavoro, e non di facilitarne e allungarne l'impiego, per proteggere i

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corpi di potenziali madri, in virtù delle loro differenze fisiologiche, limitando le ore di lavoro e i posti in cui potevano essere assunte. Questo tipo di “protezione” era quindi evidentemente centrato sul corpo biologico delle donne in virtù delle necessità riproduttive del corpo sociale. Le contraddizioni della retorica della bosei hogo sono particolarmente evidenti se si riassumono le priorità dello stato nella prima metà del '900: da una parte quella di assicurare al paese la crescita economica e l'industrializzazione necessaria ad allinearsi con le altre potenze mondiali, e quindi di utilizzare le donne come una riserva di manodopera a basso costo che accettava di lavorare in condizioni peggiori e di cui ci si poteva facilmente liberare all'occorrenza; dall'altra quella di crescere demograficamente sia per rifornire l'esercito imperiale, che per continuare a rispondere alla crescente domanda di manodopera delle industrie. In definitiva la contraddizione di fondo che ha reso inefficaci tutte le politiche che riguardavano la maternità, fu quella del doppio ruolo delle donne di produttrici e riproduttrici.

In Japan, those who have argued that the physical health of women should be protected, if only for the sake of their roles as mothers or future mothers, have frequently been those who have also contended that women are temporary, peripheral, uncommitted participants in the labour market; that they should be the first to be discharged at times of recession and rationalization; that their earnings are supplementary to the income of the main (male) breadwinner; and that they therefore merit less protection of their interests and less representation by organizations such as labour unions (Hunter 1993:10).

In questo contesto ideologico il discorso femminista ha utilizzato argomentazioni economiche e centrate sulla corporeità-fecondità delle donne, a tratti per minimizzare le differenze tra i sessi e, a tratti per enfatizzarle adattandosi alle argomentazioni dei politici, ma sempre nel tentativo di migliorare le condizioni lavorative delle donne. Lo stesso sottolineare le responsabilità di madri delle donne fu, per il femminismo dell'epoca, un modo per chiedere che alle donne fossero garantiti salari migliori.

La prima legge a trattare di maternità, in Giappone, fu la Factory Law del 1916, in nome della preoccupazione dei potenti per la compromissione morale e fisica delle future madri.

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The provisions of the Factory Law dealing with future mothers’ physical and moral health, as Japan’s first legislation regarding maternality, played a significant role in creating the discourse on motherhood protection. There was no question of women’s equality, only their difference, a difference that both required ‘protection’ and demanded women’s fulfilment of their duty to the state to bear healthy children (Molony 1993:126).

Seguì la Mother-Child Protection Law del 1937, che garantiva supporto economico alle madri single e ai bambini sotto ai tredici anni, mentre non offriva un aiuto equivalente ai padri single, promuovendo quindi una visione della famiglia centrata sulle responsabilità di cura della madre. Il dibattito che avrebbe seguito, nel secondo dopo guerra ma anche durante gli anni '90 fino al giorno d'oggi, sarà centrato sul garantire alle donne la possibilità di allevare i figli e di poterli mantenere economicamente.

Nel 1945, quando finì la guerra, il Ministero del Welfare ordinò alle donne di lasciare il lavoro e tornare a occuparsi della casa per lasciare agli uomini i posti che avevano fino ad allora occupato. Ma negli anni che seguirono, sotto le pressioni dell'Occupazione americana – che aveva imposto al Giappone di redigere la Costituzione del 1946 che, sulla carta, stabiliva la parità di genere sul lavoro – le richieste dei sindacati e dei gruppi femministi, il governo decise di redigere una nuova Labour Standards Law, che fu approvata nel 1947 e la cui sezione che riguardava le donne fu elaborata da Setsu Tanino, la prima ispettrice di fabbrica donna del Giappone e la burocrate più esperta in fatto di donne e lavoro. Anche in questa legge ciò che riguardava le donne era centrato sulla protezione della maternità, presente e futura, delle lavoratrici: una «body-centred protection» (Molony 1993:138), che prevedeva anche la possibilità di prendere un permesso di assenza per le donne che soffrivano particolarmente durante le mestruazioni. Queste concessioni però vennero subito meno quando, tra il 1950 e il 1951, venuta meno la presenza americana sul suolo nazionale e divenuta sempre più pressante la necessità di rimettere in piedi l'economia del paese, l'industria prese a protestare contro i “privilegi” come la menstruation leave facendo pressioni sulle donne affinché lasciassero il lavoro.

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