Prescrizione estetica e antropopoiesi dell'identità femminile nello
2. Il trucco come onna no reig
Tra le mie interlocutrici, Mayu fu la prima a dirmi che il trucco fa parte delle buone maniere per una donna ed è quindi necessario e obbligatorio nel contesto lavorativo, ma quella fu solo la prima di una lunga serie di occasioni in cui sentii usare l'espressione “onna no reigi”, educazione femminile, per parlare di trucco. È questo un nodo molto complesso, che ci introduce alla dimensione sociale della cosmetica e che, se sciolto a dovere, può dirci molto sul ruolo delle donne all'interno del mondo aziendale, e più in generale all'interno della società giapponese contemporanea.
Mayu: Chissà perché il trucco, eh? Prima di tutto, truccarsi è buona educazione, no? Anna: Buona educazione?
M: Essere struccate non va bene. E poi io non vorrei mai uscire struccata. Per questo mi trucco. Anche se poco, anche se ti metti solo il rossetto, anche se di poco, dà un'impressione migliore. Si vuole dare una buona prima impressione, no? E quindi, penso che sia meglio un volto luminoso, ma non va bene truccarsi in modo troppo vistoso, voglio migliorare l'impressione [che le persone hanno di me] che il mio aspetto produce.
A: Non si può andare a un colloquio senza trucco? M: È maleducato.
A: Maleducato?
M: Per le buone maniere degli adulti, delle shakaijin, sembra che essere struccata non vada bene.
A: Ah davvero?
M: Come minimo devi metterti il rossetto. Sembra sia così. Anche se io non so esattamente [come sia] (Mayu, Intervista 1).
Le lezioni di trucco, oltre che a insegnare i gesti che servono ad applicare i prodotti e i colori adatti ai colloqui di lavoro, erano anche lezioni sul significato sociale del trucco: era
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chiaro come per loro fosse fondamentale non soltanto che le ragazze imparassero le tecniche del corpo necessarie, interiorizzando quella lunghissima serie di nozioni e gesti, ma che imparassero a vedere l'importanza di avere il viso truccato in quanto shakaijin, membri della società. In una di queste lezioni in particolare, imparai molto su questo aspetto della cosmesi e su come le ragazze non possano sottrarsi a queste prescrizioni estetiche. Si trattava di un corso sul midashinami che si è svolto in università, a Waseda, tenuto da due rappresentanti del negozio Aoyama, aperto a ragazzi e ragazze, seguito da un corso di trucco tenuto da un truccatore. Per la prima ora il pubblico era misto e le due relatrici hanno parlato soprattutto di abiti, il campo di loro competenza, sia maschili che femminili. Alla fine della prima ora, quindi, i ragazzi sono stati congedati: la parte che interessava a loro era finita. Nonostante il numero di regole che anche i ragazzi devono tenere a mente per preparare il loro corpo allo
shūkatsu, è chiaro che le prescrizioni che regolano i corpi femminili sono molte di più: le
ragazze hanno infatti seguito un corso di due ore, il doppio del tempo dei ragazzi.
Quel giorno, a fare lezione era un truccatore che aveva lavorato alla Shiseido per molti anni
prima di aprire uno studio proprio. Esordì, per cominciare la sua spiegazione, dicendo che «il trucco fa parte delle buone maniere», intendendo con questo due cose: lo stesso truccarsi fa parte della buona educazione, e il modo in cui ci si trucca deve sottostare a delle norme di comportamento, che cambiano in base alla circostanza. Ci ha fatto l'esempio di un funerale, a cui sarebbe totalmente inappropriato indossare un rossetto dal colore acceso. Mentre truccava la ragazza che si era fatta volontaria ci ha spiegato il motivo per cui si devono usare colori come il beige, il rosa e il marrone: essendo colori neutri non portano con sé eventuali connotazioni, positive e negative, come i colori più vivaci, e indossandoli non si rischia di incorrere in giudizi, negativi o positivi, da parte delle persone con cui si interagisce, ma avranno un effetto “neutrale”. Ci ha inoltre insegnato un modo per meglio guardarci come ci vedranno i recruiter e truccarci, così, nel modo più giusto dal loro punto di vista, ovvero lasciando uno spazio equivalente al nostro braccio teso tra noi e lo specchio: se ci truccassimo guardandoci troppo da vicino finiremmo per vedere troppi difetti e rischieremmo di esagerare con il trucco per coprirli. Per molte delle cose che ci ha spiegato, il truccatore adduceva spiegazioni che esulavano dalla cosmesi e dall'estetica in sé, ce ne spiegava l'effetto che
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avrebbe provocato nelle persone che ci avrebbero fatto il colloquio e le conseguenze che avrebbe avuto. Per esempio, parlando dell'eyeliner ci disse che usarne uno nero potrebbe far pensare ai selezionatori, soprattutto se uomini, che siamo troppo truccate, e questo produrrebbe in loro un'impressione negativa. Su quanto trucco sia “troppo trucco”, e perché, è stato difficile ottenere chiarimenti, sia in contesti come questi che durante le interviste, perché, come ho intuito, si tratta di quel tipo di informazioni che le mie interlocutrici davano per scontate e quindi spesso non erano esplicitate durante le lezioni. Ma ho avuto modo di raccogliere, qua e là, indizi sparsi su come il trucco “eccessivo” (definizione molto relativa, dato che un'infinità di dettagli potrebbero far apparire una shūkatsusei troppo truccata), così come un completo troppo attillato o troppo corto, crei l'impressione che la candidata voglia migliorare il suo aspetto, essere più bella, invece che adattare il suo aspetto alle aspettative degli altri. Il corpo delle shūkatsusei è, per così dire, “sessualizzato” anche in un contesto come quello dei colloqui di lavoro: il suo volto “troppo” truccato o il suo corpo “troppo” scoperto risulterebbe sessualmente attraente agli occhi dei selezionatori maschi. Anche in questo contesti, allora, le giovani donne devono stare molto attente a come mostrano il loro aspetto, attribuendo a se stesse la responsabilità di innescare con il proprio corpo il desiderio maschile. Per esempio, durante il corso di shūkatsu manners di Waseda, la donna che ci faceva lezione ci spiegò in che modo era opportuno legare la sciarpa intorno al collo durante lo shūkatsu invernale, ovvero fermandola con un nodo dietro il collo: annodarla sul davanti sarebbe stato, secondo lei, come dire «guardatemi il petto» («mune o mite kudasai»). Ma la più esplicita è stata la signora Sakai, la truccatrice, che lavorava con uno studio fotografico che si occupava anche di foto per lo shūkatsu, alle cui lezioni ho assistito due volte. Ogni volta ci ha mostrato delle foto a confronto, del tipo che si allega agli entry sheets con cui ci si candida, chiedendoci quali trovassimo appropriate per questo scopo. La maggior parte delle foto mostravano ragazze truccate alla moda, sorridenti, con i capelli tinti di colori chiari, fotografate di tre quarti. Queste ragazze, ci chiedeva, «sono carine, non è vero?». Per poi aggiungere che una foto del genere farebbe molto probabilmente pensare ai selezionatori uomini cose come «porterei volentieri a cena questa ragazza», e non «sembra una ragazza con cui è piacevole lavorare». Le foto dovranno quindi mostrare ritratti frontali di ragazze truccate
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in modo neutro, con i capelli, neri, raccolti o allontanati dal viso, dal sorriso pacato e lo sguardo deciso (vedi fig.1).
Fig.1 Fototessere a confronto all’interno dei materiali che sono stati distribuiti durante una lezione di trucco della signora Sakai. La foto a sinistra è un esempio di come non si debba apparire nelle foto da allegare agli entry sheets, mentre quella a destra è l’esempio corretto.
Così come Marie, dicendo a Rina che non avrebbe più potuto andare con il papà alle terme nell'area maschile perché avrebbe potuto attirarsi gli sguardi degli uomini, anche nelle parole della signora Sakai ancora una volta la sessualità maschile è rappresentata come predatoria e incontrollabile, qualcosa di cui le donne hanno la colpa. Il corpo femminile figura quindi come la preda, colpevole di aver attirato lo sguardo del predatore: è il corpo femminile, di conseguenza, a essere attentamente censurato, sottoposto a una lunghissima serie di regole che, imponendo da un lato di truccarsi e dall'altro di non truccarsi troppo, limita e definisce molto precisamente il modo in cui una donna può disporre del suo corpo in pubblico.
Truccarsi “troppo” starebbe quindi a significare che la ragazza in questione non ha tenuto in considerazione il contesto e le persone che avrebbe avuto davanti, si è truccata a suo gusto e non pensando a cosa sia gradito e considerato appropriato dai selezionatori. Anche il truccatore che è venuto a Waseda, però, ha sottolineato che se da una parte non si può eccedere e ci si deve truccare in modo neutro, dall'altra il trucco deve essere visibile: il trucco sul viso delle shūkatsusei deve comunicare che si è preparata con cura al colloquio, perché gli attribuisce importanza, e non si è quindi truccata “per sé”, per essere bella, per “l'altro”, ma ha utilizzato il trucco come reigi, forma di educazione.
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Nel trucco come forma di educazione il rossetto, ci disse anche, è particolarmente importante perché le donne della generazione delle nonne delle shūkatsusei di oggi non uscivano mai di casa senza, anche quando non aggiungevano null'altro. Aggiunse infine che anche se ultimamente uomini e donne sono trattati alla pari nel mondo del lavoro, «le donne sostengono i colloqui in modo femminile» («josei wa joseirashiku mensetsu o ukemasu»). Infatti, ho spesso sentito dire dalle mie interlocutrici e durante le lezioni di midashinami che è consigliabile che le ragazze indossino la gonna per i colloqui, invece dei pantaloni.
Anna: E per il completo? Qual è il giusto completo?
Nanaka: Un completo nero. I completi soliti, “quei” completi neri. Ma quando io sono andata con mia madre a comprare un completo per lo shūkatsu, potevo scegliere tra gonna e pantalone. Io li ho indossati entrambi ma quando ho provato i pantaloni, mi facevano sembrare un po' namaiki. Come si dice? Credo sia come “arrogante”. Quando indossavo i pantaloni. Forse è la mia faccia però...
A: Qual è la parola che hai usato? Namaiki?
N: Namaiki. Mi faceva sembrare così, quindi ho comprato la gonna. Ma la mia amica che indossa i pantaloni non lo sembra affatto.
A: Ma come mai tu hai pensato di sembrare arrogante?
N: No, bè, me l'ha anche detto mia madre. «Sembri un po' arrogante», cioè non sembri umile. Quindi ho preso la gonna (Nanaka, Intervista 1).
Dalle parole di Nanaka e dal consiglio di sua madre, che al momento dell'intervista lavorava in un'università proprio per il supporto agli shūkatsusei, si evince che indossare una gonna per un colloquio di lavoro non significa soltanto fare shūkatsu in modo “femminile”, ma anche dimostrarsi umili: significa sottostare alle norme di comportamento socialmente prescritte nell'ambiente aziendale e alla definizione socialmente accettata di “donna”. È interessante la sua scelta della parola “namaiki” per descrivere il suo aspetto quando indossava i pantaloni, perché nonostante lei l'abbia tradotta con la parola inglese “arrogant”, la definizione che ne danno i dizionari è più specifica: indica infatti “l'azione del parlare o agire avventatamente senza tenere conto della propria età e delle proprie capacità, o la persona che agisca in questo
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modo”2. Scegliere una gonna significava quindi, per Nanaka, dimostrarsi umile, consapevole della sua posizione di ultima arrivata, indossando un capo d'abbigliamento tradizionalmente femminile: adattarsi alla definizione locale dell'identità femminile stereotipata e rispettare le prescrizioni imposte ai corpi femminili significa, qui, dimostrare umiltà e consapevolezza delle gerarchie aziendali, caratteristiche molto apprezzate dalle aziende giapponesi. Allo stesso modo il trucco, come ci hanno insegnato in queste lezioni, serve alle shūkatsusei ad «affrontare i colloqui in modo femminile», accettando di “indossare” una femminilità stereotipata, che cancella le differenze tra le diverse donne e che addomestica il corpo femminile stabilendo i confini precisi della sua espressività.
Rina, in particolare, mi ha spiegato a fondo il modo in cui il volto truccato esprime rispetto per l'altro, specialmente nel contesto lavorativo, ma non solo, e di conseguenza del significato che ha il trucco per una shakaijin.
Rina: Io non lavorerò nelle vendite, quindi andrò con i miei abiti normali, a lavoro. Ma non andrò mai a lavoro struccata. Ovviamente, perché in ufficio devi incontrare altre persone. Anna: Ah quindi tu non vorresti andare in ufficio struccata?
R: Io ci andrei, certo, perché è una seccatura [truccarsi]. Ma non penso sia permesso. Bè forse non si può dire che non sia permesso, ma non è molto... Insomma, visto che ci sono anche altre persone... Non vai [a lavoro] struccata. Penso di non aver mai sentito di qualcuna che vada al lavoro senza trucco. Però dipende dal lavoro. Per esempio, un'istruttrice di nuoto. Una persona con un lavoro del genere penso possa anche andare struccata. Ma tra chi lavoro in un ufficio non ci sono donne che non si trucchino.
A: Ah davvero? Ma cosa vuol dire “perché ci sono altre persone”? Cos'è che ti preoccupa? Cosa ti fa pensare che visto che ci sono altre persone, ti devi truccare?
R: Tra i giapponesi... Nella cultura giapponese dire che una donna è suppin [struccata] vuol dire che non ha cura di sé, una persona che se ne frega, quindi se vai in ufficio suppin la gente penserà di te “ah, a quella lì non gliene frega proprio niente eh”. Penseranno che sei trascurata (Rina, Intervista 1).
Anche in altre occasioni Rina mi aveva spiegato che lei indossa sempre del trucco quando sa che avrà a che fare con molte persone durante la sua giornata, soprattutto se dovrà
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interagire con persone che non conosce, come per esempio durante il suo baito (lavoro per studenti), o persone a lei superiori (me ue no hito). Invece non avrebbe avuto problemi a presentarsi allo zemi (seminario di tutti i laureandi di un professore) che entrambe frequentavamo, o a lezione, visto che ormai conosceva tutti. Per lei, mi spiegò, era una forma di rispetto, un modo di far capire alla persona che aveva di fronte che si era preparata per quell'incontro e gli dava importanza. Anche Kanae mi ha spiegato una cosa simile.
Anna: Quindi non lo fai per una questione di educazione?
Kanae: No, io no, ma penso che le shakaijin debbano truccarsi per una questione di educazione. Cioè, io penso che loro la pensino così. Perché?
A: Sì.
K: Non è questione di seiketsukan? Capisci cosa vuol dire? A: Sì.
K: Per gli uomini non è la barba? Le donne non hanno la barba ma... Se hai le occhiaie, coprendole il tuo volto sembra più luminoso, e poi sembri in salute, dai una buona impressione a chi ti vede. E le studentesse, sai, possono anche frequentare solo i loro amici, no? Non devono per forza parlare con altre persone. Invece quando diventi shakaijin devi essere in grado di andare d'accordo con persone che non conosci. In quelle situazioni l'impressione [che hanno di te], il modo in cui ti comporti, hanno un impatto sulla persona con cui interagisci. Devi dare una buona impressione. Cioè, devi... Se dai una buona impressione puoi costruire una relazione migliore. E questo ne fa parte, il trucco (Kanae, Intervista 2).
Dalle parole di Rina e Kanae possiamo capire come sia lo sguardo dell'altro, uno sguardo esterno, quello degli altri shakaijin, a innescare la consapevolezza di dover modificare il proprio aspetto per essere accettate all'interno del contesto lavorativo. In definitiva, il trucco rientra nel midashinami, e quindi nella cura dell'aspetto “per l'altro”, ma è specifico delle donne, che quindi dovranno rispettare un numero molto più alto di regole rispetto ai coetanei maschi e incorporare un numero più alto di tecniche: il controllo che devono esercitare sul loro corpo si estende anche al viso e richiede un'attenzione, e una sorveglianza, costanti. Così come per gli uomini, rispettare le regole del midashinami serve a dimostrare umiltà: una donna che si trucchi “troppo” o non si trucchi affatto dimostrerebbe di privilegiare i suoi desideri, il suo modo di essere, invece che quello che ci si aspetta da lei, e questo
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destabilizzerebbe il rigido ordine gerarchico delle grandi aziende giapponesi. Come mi ha detto Rina, gli altri penserebbero di lei che è una persona a cui “non importa” dell'etichetta, della sua posizione, del rispetto che bisogna dimostrare anche con il corpo e le sue modificazioni ai propri superiori. Per contrasto, le aziende straniere o le start up, più piccole, non strutturano i dipendenti in un'organizzazione gerarchica altrettanto rigida, e ne consegue che non impongano un codice di abbigliamento specifico.