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La naturalizzazione della maternità nello shūkatsu e il tasso di natalità

Naturalizzazione dell'istinto materno nello shūshoku katsudō

10. La naturalizzazione della maternità nello shūkatsu e il tasso di natalità

Come ho argomentato in questo capitolo, nello shūkatsu avviene – attraverso la rappresentazione delle donne nei materiali scritti, gli eventi per ragazze e la retorica, incentrata sulla maternità, del work-life balance – un'essenzializzazione delle donne alla loro funzione biologica di riproduttrici. Anche attraverso una retorica che naturalizza l'istinto materno delle shūkatsusei, oltre che tramite le modificazioni del corpo di cui si è trattato nel capitolo precedente, avviene quella parte “affidata ad altri” dell'antropopoiesi delle giovani donne. Anche qui, quindi, l'intervento antropopoietico esterno agisce sul corpo: le funzioni riproduttive del corpo femminile sono, infatti, sempre sottolineate e viene dato per scontato che le giovani abbiano un innato desiderio di essere madri, e che questo ne definisca anche il ruolo all'interno della coppia e le attribuisca, naturalmente, le responsabilità di cura dei figli. Il corpo femminile nello shūkatsu è un corpo “materno”. Il corpo maschile è invece, per contrasto, un corpo che lavora, che se si riproduce non per questo è “paterno” e che è, per la maggior parte del tempo, fisicamente lontano dai suoi figli. In questo modo è anche attraverso un discorso sul corpo che i generi maschile e femminile sono plasmati nello shūkatsu.

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L'istinto materno è naturalizzato all'interno di questo discorso, che è supportato anche tutta una serie di credenze sull'importanza del ruolo della madre, e non del padre, nella crescita del bambino. Ad esempio, è già stata notata la credenza comune che una madre debba stare, per la corretta crescita del neonato, a stretto contatto con il figlio per i primi tre anni di vita, e in generale, che il ruolo della madre sia più essenziale alla vita dei bambini di quello del padre.

Mayu: Per quanto riguarda la cura dei figli non è che... Bè, ultimamente le cose stanno un po' cambiando ma è normale che siano più le donne a occuparsi dei bambini. Quindi penso che [i ragazzi] non ci pensino, loro sono a posto. Tra le due, gli uomini si dedicano al lavoro. Questo modo di pensare è molto normale, tutti più o meno la pensano così. Invece per il matrimonio... Non credo che nessuno vada oltre il pensare di volersi [un giorno] sposare. Non credo siano molto diversi [dalle ragazze] in questo, no? Si limitano a un: “se succedesse sarebbe bello”. “Vorrei tanto”.

Anna: Quest'idea per cui sono le donne a occuparsi dei figli, è perché le donne sarebbero più portate?

M: No, bè, in passato era così, che l'uomo andava a lavorare e la moglie stava a casa, faceva i lavori domestici e cresceva i figli. Molto, molto tempo fa era normale. Tipo fino all'epoca dei nostri nonni. E nella generazione dei nostri genitori ci sono ancora molte persone che la pensano così, la cultura giapponese è così. Mentre tra le persone appena più grandi di noi, diciamo tra i trentenni, a poco a poco sono andate aumentando le famiglie in cui gli uomini stanno a casa e le donne lavorano molto. Quel [vecchio] modo di pensare pian piano sta sbiadendo, però ancora [quelle “nuove” famiglie] sono considerate strane. Anche se sono in aumento le persone pensano “che strano!”. “Che bravo che è il marito!”. E cose del genere. Questo è il modo di pensare dei giapponesi, da tanto tempo a questa parte. Quindi non è questione di essere portata o non essere portata, è così e basta, in questa cultura (Mayu, Intervista 3).

A confermare quello che mi ha detto Mayu vanno a convergere molti elementi che ho osservato sul campo e testimonianze di altre donne. Per citarne qualcuno, sono ad esempio espressioni come “aiutare” la propria moglie a prendersi cura dei figli, usata tra gli altri da Yūto, o il termine ikumen, che paradossalmente sostituisce quello di padre e indica quegli uomini che si dedicano ai figli, o ancora formule usate da alcune aziende come “congedo per supporto alla cura dei figli”, che indicano il congedo per paternità ma sottolineando il solo ruolo di supporto che avrebbero i padri. Anche presso la famiglia che mi ospitava ho spesso osservato dinamiche che confermano questa diversa concezione dell'importanza e dei ruoli dei

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due genitori: il padre diceva spesso, quando vedeva la moglie coccolare i bambini, che il genitore che i figli amano di più è la madre; e ancora, la madre, Marie, nonostante fosse quella dei due che aveva deciso di lavorare part-time per potersi occupare di Rina e Tomo, mi ha raccontato di non essere in buoni rapporti con la suocera, che non la considerava una buona madre perché non aveva lasciato il lavoro per essere sempre a casa con loro.

È chiaro quindi che, nonostante le leggi che stabiliscono la parità dei sessi e le campagne promozionali del Ministero della Salute sui padri ikumen, le carriere delle donne sono imprescindibilmente legate alla maternità e non possono non essere ostacolate da essa. Se nelle giovani donne, durante lo shūkatsu, è instillata l'idea di un istinto materno “naturale” e di una conseguente responsabilità genitoriale, negli uomini sembra essere scoraggiato ogni desiderio di essere padri e di occuparsi dei figli, come se fossero cose che non li riguardino. L'istinto materno, lungi dall'essere naturale, è uno specifico prodotto culturale che può dire molto di come la società giapponese concepisca e prescriva un certo tipo di identità femminile e sui motivi per cui le idee locali sulle donne hanno delle determinate caratteristiche. Élisabeth Badinter, che ha studiato a lungo la questione delle donne del XVII secolo che affidavano i figli a balie che vivevano lontane e in condizioni miserabili mettendo a rischio la vita stessa dei bambini, scrive, in riferimento alla storia d'Europa:

La costruzione dell'amore materno alla fine del XVIII secolo dipende da una serie di cambiamenti culturali e da nuove ideologie. Per prima cosa, ci si inizia a rendere conto dell'interesse «economico» della progenitura per lo Stato: nella nuova economia politica del XVIII secolo, lo Stato deve produrre cittadini/soldati, soggetti economicamente e politicamente attivi, e il ruolo della donna in questo nuovo sistema di produzione è quello di occuparsi della sopravvivenza dei futuri cittadini. (…) In secondo luogo, la filosofia illuminista introduce nuovi principi di uguaglianza, sostenendo che la famiglia è la sola istituzione politica naturale, e «naturalizzando» così il ruolo di madre. (…) L'amore materno fu dunque introdotto anche come legittimazione dei ruoli «naturali» nella famiglia (Badinter, 2014:57).

L'identità femminile, così come è rappresentata nello shūkatsu, presuppone un istinto materno naturalizzato, che differenzia inevitabilmente lo shūkatsu di ragazze e ragazzi, come

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ho illustrato, e non solo: ne distingue i ruoli e le responsabilità genitoriali così come i ruoli e le possibilità di carriera all'interno delle aziende. Questa naturalizzazione della maternità che avviene all'interno del quadro antropopoietico con cui l'enterprise-state giapponese plasma i suoi giovani è funzionale al mantenimento di una rigida divisione sessuale del lavoro ed è particolarmente efficace in quanto avviene in un momento fondamentale: quello del primo ingresso nel mondo del lavoro, quando ragazze e ragazzi prenderanno decisioni fondamentali per il loro futuro lavorativo e non.

La diversa consapevolezza che ho riscontrato nelle mie interlocutrici e nei miei interlocutori – relativamente alla necessità di informarsi sul sistema aziendale di supporto ai dipendenti con figli – non è che una conferma del fatto che esiste una sorta di circolo vizioso di creazione e ricreazione delle categorie “per ragazze” e “per ragazzi”: le aziende presentano come “femminili” o “per ragazze” una serie di elementi (il congedo per maternità, le diverse tracce lavorative, il work-life balance, ecc.) creando nelle ragazze una maggiore preoccupazione per essi. Saranno di conseguenza le ragazze a fare più domande su questi argomenti durante le

setsumeikai e questo giustificherà l'esistenza di eventi a loro riservati che si concentrano,

essenzialmente, sul tema della maternità come parte fondamentale dell'identità femminile. Le aziende esercitano quindi una grande influenza su ragazze e ragazzi shūkatsusei: il potere della rappresentazione delle identità di genere in tal modo stereotipate è potere antropopoietico, di plasmazione delle future e dei futuri shakaijin. Per le une è sottolineato l'istinto materno e le relative responsabilità, per gli altri è invece negato quello paterno. Non dovrebbe stupire, quindi, lo scandalo delle selezioni truccate della Tokyo Medical University, pubblicato nell'agosto 2018 dal quotidiano Yomiuri Shinbun: il giornale ha rivelato che dal 2011, anno in cui a passare il test erano state per il 40% donne, l'università ha alterato i risultati dei test di ammissione allo scopo di mantenere sotto il 30% la percentuale delle studentesse ammesse. La motivazione, secondo una fonte anonima interna all'università, sarebbe l'opinione diffusa nell'ambiente che gli uomini siano più adatti ai lunghi turni e alle chiamate d'emergenza dell'ambiente ospedaliero e che le donne invece trascurino, o lascino, la professione per la famiglia. Nonostante la Womenomics del presidente Abe, questo scandalo

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non è poi così stupefacente: questa stessa politica di inclusione delle donne nella forza lavoro, a livello governativo e a livello aziendale, naturalizza ed essenzializza le presunte differenze tra uomini e donne e le loro diverse possibilità e responsabilità nella sfera pubblica e in quella privata.

Considerato l'attuale tasso di natalità molto basso del Giappone, possiamo prevedere che, probabilmente, buona parte delle ragazze che hanno fatto shūkatsu mentre io svolgevo la ricerca sul campo non avranno mai figli, ma nonostante questo sono discriminate, nel mondo aziendale, in nome della loro capacità riproduttiva che finisce per essenzializzare e ridurre la loro identità a quella di madri in potenza. Questi modi di rappresentare l'identità femminile e quella maschile è funzionale al piano demografico dell'enterprise-state giapponese, il cui obiettivo è quello di alzare il tasso di natalità e limitare così i danni economici causati dall'invecchiamento della popolazione. Come scrive Badinter, la costruzione dell'istinto materno come naturale è dipesa anche dagli interessi economici dello stato la cui esigenza è quella di “produrre” cittadini. L'enterprise-state giapponese, questa indissolubile unione di stato e mondo aziendale, di sfera politica ed economica, ha un fortissimo interesse ad alzare il tasso di natalità, i cui numeri insufficienti a garantire un ricambio della manodopera stanno danneggiando la situazione economica nazionale.

Se nella legge sulle pari opportunità e nei white papers dell'Equal Employment, Children and Families Bureau (la cui sola esistenza svela il forte collegamento tra lavoro femminile e tasso di natalità) resta implicito, anche se forte, l'obiettivo di fondo di alzare il tasso di natalità, a volte le aziende lo esplicitano. Per esempio, mentre ero sul campo, la Daito Trust Construction ha tenuto un incontro informativo sul work-life balance all'interno di una fiera del lavoro per ragazze, durante la quale ha spiegato alle studentesse che se le aziende vogliono assumere più donne è perché hanno bisogno di più dipendenti, ma che non vogliono per questo far diminuire ulteriormente le nascite. Ne sono la conseguenza i nuovi ed efficienti regolamenti aziendali in fatto di supporto alla maternità.

L'assimilazione delle donne nel mondo del lavoro, teoricamente al pari degli uomini, serve sì a sopperire alla mancanza di manodopera (che peraltro non può essere sopperita

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sufficientemente da manodopera straniera viste le rigidissime politiche giapponesi in fatto di immigrazione) ma avviene in un modo che lascia inalterata la tradizionale divisione sessuale del lavoro, per il timore che le donne che lavorano scelgano di non fare figli. Le donne entrano quindi in quanto lavoratrici esplicitamente “diverse” in un mondo lavorativo che resta implicitamente “maschile” e non vi sono mai integrate al pari degli uomini. Questa divisione è tanto più efficace quanto è costruita proprio a partire da come sono definiti i generi. Lo stato e le aziende pensano così di raggiungere il doppio obiettivo di continuare a sfruttare il lavoro maschile il più possibile, con serie conseguenze sulla salute dei dipendenti (Nemoto 2016), sfruttare anche la manodopera femminile ma continuare a delegare alle donne gli oneri che altrimenti il welfare del paese dovrebbe garantire ai suoi lavoratori: la cura dei figli, della casa, dei compagni. Come ho illustrato in questo capitolo, il modo in cui la Womenomics e le direttive del Ministero della Salute vengono applicate, nella realtà dei fatti, dalle aziende conferma tutto questo: i nuovi sistemi di supporto ai (o meglio, alle) dipendenti con figli implementati dalle aziende sono ottimi, ma ne usufruiscono solo le donne perché è implicito che siano a loro rivolti.

Secondo Claude Meillassoux, nei diversi sistemi economici produzione e riproduzione sono strettamente interconnessi e «ogni modo di produzione possiede una propria legge di popolazione» (Meillassoux 1978:2). Nella sua descrizione delle comunità domestiche africane, caratterizzate da piccoli numeri e dall'agricoltura di sussistenza, l'autore attribuisce al controllo delle donne, da parte degli uomini anziani delle comunità, una funzione essenziale al mantenimento di quello specifico modo di produzione: fungeva al mantenimento del potere degli anziani, della sottomissione degli uomini giovani, degli accordi con le altre comunità domestiche, ma soprattutto, poter controllare e disporre a proprio piacimento delle funzioni riproduttive e del lavoro delle donne, con l'imposizione dell'esogamia, serviva a garantire il riprodursi stesso di comunità altrimenti destinate a estinguersi. Una società come quella giapponese contemporanea è chiaramente molto diversa da una comunità domestica africana, ma secondo Meillassoux si può parlare di famiglia, nelle società capitalistiche, come di sopravvivenza della struttura sociale delle comunità domestiche. La famiglia sarebbe

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quindi funzionale, essenziale, al mantenimento del modo di produzione capitalista, in quanto luogo di riproduzione della forza-lavoro e grazie al lavoro gratuito delle donne.

Il modo di produzione capitalista dipende in questo modo, per ciò che riguarda la propria riproduzione, da un'istituzione che gli è per natura estranea, ma che ha mantenuto in vita fino a oggi come la più adatta a questo compito e, fino a ora, la più economica grazie alla mobilitazione gratuita del lavoro – in particolare quello femminile – e in virtù dello sfruttamento dei sentimenti affettivi che dominano ancora i rapporti tra genitori e figli (Meillassoux 1978:174).

Per una società capitalista, che sfrutta quasi esclusivamente la manodopera nazionale, la cui economia è minacciata da un tasso di natalità molto basso, è chiaro che una delle più grandi preoccupazioni sia, come per le comunità domestiche, la riproduzione. Ed è prevedibile che mondo imprenditoriale e mondo politico debbano quindi convergere in una strategia comune per evitare il collasso economico: il controllo della funzione riproduttiva delle donne e lo sfruttamento del loro lavoro domestico gratuito. Per questo è una preoccupazione fondamentale per l'enterprise-state quella di formare giovani donne consapevoli delle loro responsabilità genitoriali, maggiori di quelle dei futuri compagni, e pronte a sacrificare le loro carriere per privilegiare la cura dei figli; e allo stesso tempo quella di formare giovani uomini pronti a sacrificare tutto il loro tempo e le loro energie per la loro azienda. Questi ruoli sono uno necessario all'altro – gli uomini non potrebbero lavorare tutto il giorno se la compagna non si occupasse della casa e dei figli e le donne non potrebbero mantenere le famiglie se non fosse per i compagni – e se sono naturalizzati all'interno del mondo aziendale giapponese e nel contesto sociale più ampio, sono però arbitrari e funzionali a uno specifico modo di produzione.

Se si può osservare l'esistenza di una divisione dei compiti, molto variabile secondo i casi d'altra parte, tra uomini e donne – o comunque tra coloro che rispondono alle categorie sociali dell'”uomo” e della “donna” – compiti che fanno della donna (o dello schiavo) la serva dell'uomo, questa definizione è consecutiva a una sottomissione precedente della donna e non a immaginarie capacità distinte. Non vi è che il parto e l'allattamento di cui le donne siano le sole capaci. (…) In realtà nulla, nella natura, spiega la divisione sessuale del lavoro (…). Tutti

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i compiti a loro spettanti sono imposti alle donne con la costrizione e quindi sono tutti fatti culturali che devono essere spiegati e non servire da spiegazione (Meillassoux 1978:28).

Se per ricostruire questo mosaico abbiamo dovuto prima raccogliere molti tasselli in diversi ambiti e in diverse forme, è perché in questo contesto politico, sociale ed economico il potere antropopoietico esercitato sui giovani e il controllo che, in questo modo, è esercitato sui corpi delle donne, è da loro introiettato. Utilizzando ancora la metafora del panopticon di Foucault, questo potere non ha la forma di una legge o di un controllo esplicito e unidirezionale – Foucault lo chiamerebbe sovrano – ma è piuttosto una rete multifocale, una costellazione di istituzioni tra cui Foucault stesso insieme alle prigioni, agli ospedali e alle scuole annoverava le fabbriche, e che qui sono sostituite dalle aziende (Foucault 1978). Questo tipo di potere, senza “testa” ma diffuso capillarmente in tutte le istituzioni e in ogni individuo, agirebbe, secondo il filosofo, proprio su e attraverso il corpo: i soggetti lo incorporano ed esercitano quel controllo su loro stessi. Nel caso dello shūkatsu, ragazze e ragazzi introiettano, incorporano, il controllo che l'enterprise-state esercita su di essi attraverso la retorica della divisione sessuale del lavoro e diventano i controllori di se stessi. Questo controllo, inoltre, è profondamente legato ai loro corpi, sia perché avviene anche attraverso un disciplinamento corporeo notevolmente minuzioso (come è stato descritto nel capitolo 2), sia perché è inerente al genere degli individui.