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Naturalizzazione dell'istinto materno nello shūshoku katsudō

3. Il modo di lavorare femminile

La josei no hatarakikata, che significa letteralmente “il modo di lavorare femminile”, è stato per me un mistero per tutta la prima parte della mia ricerca. Non riuscivo a capire che cosa intendessero i relatori di tutti quegli eventi per ragazze con questa espressione che non avevo mai sentito usare se non in quel contesto: pensavo infatti che fosse utilizzata in senso letterale e indicasse un modo diverso delle donne di svolgere lo stesso lavoro degli uomini.

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Non è esattamente così, ma si tratta piuttosto del modo in cui le donne dovrebbero adattare il loro modo di lavorare a presunte esigenze legate alla biologia dei loro corpi, ovvero alla loro capacità riproduttiva.

L'espressione è di solito utilizzata in coppia con un'altra: work-life balance, che indica un giusto equilibrio tra il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla vita privata. È intorno a questi termini che ruota la retorica che pervade gli eventi per ragazze, i cui titoli sono, ad esempio, “per chi desidera dedicarsi sia al lavoro che al proprio privato”, “come rendere compatibili lavoro e cura dei figli”, e simili. Ed è in questo contesto che l'espressione apparentemente generica, work-life balance, assume invece un significato molto preciso, anch'esso legato alla capacità riproduttiva del corpo femminile.

Spesso nei titoli degli eventi figura la parola work-life balance stessa, più spesso si trovano espressioni come jibunrashiku, ovvero “adatto a sé”, relativo al modo di lavorare: si tratta spesso di incontri in cui le relatrici parlano alle ragazze di come dovranno trovare una strategia, negoziare dei termini, per poter lavorare “a modo loro”. Quello che tutte queste espressioni che formano la retorica del “modo di lavorare femminile” stanno, se non altro, a significare, è che nel discorso sul lavoro femminile nelle aziende giapponesi esiste una differenza nel concepire il modo in cui le donne e gli uomini lavorano.

Quando agli eventi per ragazze era nominato il “modo di lavorare femminile”, seguiva sempre una serie di informazioni sul sistema assistenziale delle aziende, su cui di solito non si soffermano molto, nelle setsumeikai “miste”, lasciando intendere che sia un argomento di interesse esclusivamente femminile. Così come nei volantini e nei dépliant per ragazze durante le setsumeikai le relatrici, solitamente donne, si dilungavano nella spiegazione delle politiche aziendali in fatto di assenza per maternità, di riduzione dell'orario per le madri lavoratrici e nel parlare di work-life balance. A leggere bene i materiali informativi, gli stessi

benefit sono garantiti anche agli uomini con figli, perché per legge le aziende non potrebbe

fare differenze tra uomini e donne nei loro regolamenti in materia, ma durante lo shūkatsu gli studenti maschi non ne sentiranno mai parlare e, se ne avranno l'occasione, sarà solo dopo la premessa che questo tipo di informazioni sono di interesse per le ragazze. Addirittura, quando

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nelle setsumeikai miste i relatori parlano di sistema aziendale di supporto ai dipendenti con figli, capita che si scusino con gli studenti maschi presenti e giustifichino quei pochi minuti che dedicano alla questione dicendo che alle ragazze presenti potrà certamente interessare. È chiaro quindi che l'espressione work-life balance – per come viene usata quasi esclusivamente all'interno di eventi per ragazze e sempre in coppia con informazioni sul “modo di lavorare femminile” – è definita in termini molto specifici nonostante il suo significato inizialmente generico: più che di equilibrio si tratta di una doppia responsabilità delle donne che lavorano, quella di lavoratrice e quella di madre, come dimostrano anche le parole di Ayuko.

Anna: Hai mai sentito usare l'espressione work-life balance? Ayuko: Sì, ovviamente.

An: Hai mai partecipato a eventi, seminari o simili, sul work-life balance? Ay: Sì.

An: Che tipo di seminari?

Ay: Uno era un seminario sullo shūkatsu, quel tipo di evento che ha come target le sole ragazze, ed era un evento durante il quale si poteva ascoltare l'esperienza di una dipendente donna che nonostante lavorasse molto, nella traccia sōgō, aveva dei figli, una famiglia. E le facevano domande su come trova un equilibrio tra sfera privata e sfera lavorativa. E ti fa pensare “ah, potrei fare anche io così”, “se lavorassi in quest'azienda potrei riuscirci”, “in questa azienda si può lavorare in questo modo”, “in questa azienda ci sono tante donne che lavorano molto mantenendo un equilibrio con la loro vita privata, quindi forse anche io potrei lavorare felicemente lì”.

An: Erano eventi riservati alle ragazze?

Ay: Ci sono sia quelli per sole ragazze che quelli aperti a tutti. Ma [anche] a quelli, tra i partecipanti c'erano pochi ragazzi, eh (Ayuko, Intervista 1).

All'interno del quadro degli eventi per ragazze, risulta chiaro come le espressioni “modo di lavorare delle donne”, work-life balance, jibunrashii (“a modo proprio”) e nagaku hataraku, “lavorare a lungo”, convergano tutte a formare un'unica immagine: quella della madre- lavoratrice, che avrebbe delle esigenze specifiche, diverse da quelle degli uomini, a cui le

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aziende rispondono con regolamenti appositi, di cui sono le principali beneficiarie. In questo quadro non compaiono mai gli uomini con figli. Infatti, Mayu mi ha descritto con queste parole che cosa si intende, secondo lei, con “modo di lavorare femminile”:

Anna: Che cos'è la josei no hatarakikata?

Mayu: È proprio [l'avere] figli, sposarsi, sì insomma, ovviamente se ti sposi e fai dei figli il modo di lavorare deve cambiare. E quindi il fatto di poter continuare a lavorare anche se la tua vita privata è cambiata [in questo modo] è quello che si chiama “modo di lavorare femminile” (Mayu, Intervista 2).

Inoltre, verso la conclusione dell'intervista ha aggiunto:

Mayu: Dopo tutto in Giappone si è sempre pensato separatamente. I maschi sono così, le femmine sono così. Pensavano così. Mentre di recente si è iniziato a parlare di parità dei sessi. Ma all'inizio, dieci, trent'anni fa, era normale che i maschi lavorassero e le donne restassero a casa a fare i lavori domestici. Invece ora le donne lavorano, possono lavorare anche se hanno figli, ma...

Anna: Le donne hanno un “modo di lavorare femminile” e gli uomini... il modo normale di lavorare. Non viene fatta una discriminazione?

M: Sì. Anche quello in realtà non mi piace per niente. Ma se hai dei figli non c'è niente da fare. Anche se hai dei figli sei in grado di fare lo stesso lavoro di un uomo, no? Però magari non puoi lavorare fino alle otto, nove di sera, e quindi penso non ci sia niente da fare. Anche se non mi piace (Mayu, Intervista 1).

Nella retorica utilizzata dalle aziende e nelle parole delle mie interlocutrici ho spesso trovato un sovrapporsi, fino a confondersi, dell'identità di genere femminile con l'essere una madre in potenza (il desiderio di avere figli e la responsabilità della loro cura), mentre lo stesso non avviene per i ragazzi: le donne sarebbero fondamentalmente madri in potenza, le cui priorità sono i figli, mentre gli uomini sarebbero sarariiman in potenza, la cui priorità è il lavoro. Infatti, le parole di Mayu chiariscono un aspetto fondamentale del “modo di lavorare femminile”, quello di essere definito in contrasto a un modo di lavorare che è implicitamente “maschile”: quello del sarariiman, l'impiegato che è stereotipicamente uomo (salary-man),

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dedica la grande maggioranza del suo tempo all'azienda facendo diverse ore di straordinari ogni giorno, e che spesso prende parte, dopo il lavoro, ai “divertimenti aziendali” come feste, bevute (nomikai) e visite agli hostess club, e che quindi è quasi sempre assente da casa. Per esempio, Mayu mi ha parlato così di suo padre che, secondo lei, ora che non è più molto giovane non lavora tanto quanto prima:

Anna: Tuo papà fa molti straordinari?

Mayu: Mio papà? Bè, direi di no. Oddio, non lo so. Non so molto del suo lavoro. Ormai ha una certa età e non lavora più tanto come prima. Non penso tanti.

A: Passa tanto tempo a casa quindi?

M: [Deve pensarci] No, non è tanto a casa. Però succede anche che torni a casa presto [la sera], tipo alle 21. Se non va a bere. E mi sembra prestissimo [per il suo ritorno], quanto torna alle 21. E ultimamente succede spesso (Mayu, Intervista 2).

È chiaro, quindi, che questo modo di lavorare “maschile”, del sarariiman, è considerato “il” modo di lavorare, e le donne, con il loro presunto modo diverso di lavorare, dovranno trovare dei modi alternativi – e questo spiegherebbe l'uso di espressioni come jibunrashii, “adatto a sé – per ritagliarsi il tempo e il modo di dedicarsi anche al lavoro domestico e alla cura dei figli e dei parenti anziani. Il modo di lavorare “maschile” è quello egemonico in senso gramsciano: il modo di lavorare “standard” da cui le donne divergono, che ha caratteristiche precise, strettamente legate all'idea di mascolinità (come è stato trattato nel capitolo 1), che sono state interiorizzate da uomini e donne finché la loro arbitrarietà è diventata invisibile ai loro occhi. Di conseguenza, nella retorica del work-life balance, le donne sono rappresentate come membri necessariamente “devianti” della forza lavoro, per quanto negli ultimi anni si parli in termini positivi di questa “devianza”: infatti, come si è visto nel capitolo 1, la storia del lavoro femminile in Giappone è stata caratterizzata, durante tutto il '900, da una grave penalizzazione delle stesse sulla base di quelle stesse presunte “caratteristiche specifiche” del loro genere che ora sono chiamate josei no hatarakikata, “modo di lavorare femminile”, e sono invece rappresentate in modo positivo. Ma se il significato profondo continua a essere che le donne

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non possono lavorare come gli uomini sono poi così diverse le idee locali di oggi e di ieri sul ruolo sociale delle donne e sulle loro responsabilità domestiche?