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Shūshoku katsudō e antropopoies

5. Lo shūkatsu come rito antropopoietico

Lo scopo dello shūkatsu è sì quello di trovare un lavoro, ma è anche molto di più di questo. Si tratta di trovare il proprio posto nella società, diventare shakaijin, “persona sociale”, ed evitare il rischio di diventare, invece, rōnin. Per i giovani significa quindi concludere il loro percorso formativo nel modo socialmente prescritto, riuscire a stare al passo con gli altri, percorrere il sentiero già tracciato, essere all'altezza delle aspettative dei propri genitori, degli amici, degli insegnanti e della società in generale. Significa quindi diventare uomini e donne adulti. Rōnin è una parola formata dall'unione dei caratteri cinesi nami (anche letto rō), onda, e hito (anche letto nin), persona, e in origine indicava i “cani sciolti”, i samurai rimasti senza padrone perché ripudiati o a causa della morte dello stesso. In tempi più recenti ha cominciato a indicare le persone che si ritrovino senza lavoro e gli studenti che falliscono i test d'ingresso delle università o lo shūkatsu, ricadono quindi al di fuori del tracciato sociale e si ritrovano a passare almeno un anno senza un'occupazione. La parola rōnin in questo contesto indica il contrario di shakaijin, cioè chi ha fallito lo shūkatsu e non comincerà a lavorare insieme ai coetanei immediatamente dopo la laurea. Essere rōnin per uno o più anni è un grosso svantaggio per i giovani, che si troveranno a dover ripetere lo shūkatsu da capo, l'anno successivo, e a dover giustificare ai selezionatori la loro età, maggiore di quella degli altri

shūkatsusei di quell'anno. La mancanza di una spiegazione adeguata, come ad esempio la

scelta di fare un'esperienza all'estero per migliorare la conoscenza di una lingua straniera, metterà in cattiva luce lo studente, che sarà visto come indolente e incapace di impegnarsi come gli altri. Le sue possibilità di trovare impiego saranno quindi minori. Ed è proprio per questo che moltissimi studenti che non riescono a trovare un lavoro durante il loro terzo anno decidono di continuare gli studi con una laurea magistrale, una scelta molto “diversa” dato che sono pochissimi gli studenti iscritti alle magistrali in Giappone (a esclusione delle lauree scientifiche), per non rimanere senza una qualche occupazione.

Invece la parola shakaijin – unione della parola shakai, società, e hito (anche letto jin) – significa letteralmente “persona sociale”, e anche se può essere meglio tradotta in italiano con il termine “adulto”, sarà qui usata la prima traduzione per mantenere la differenza di significato tra shakaijin e otona, che invece indica più propriamente l'individuo di età adulta.

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Infatti, uno studente di vent'anni che non lavora e vive a spese dei genitori può essere definito

otona, per sottolineare la sua età anagrafica e un tipo di responsabilità sociale diverso da

quello di un bambino, ma non sarà mai definito shakaijin. Infatti, per essere definito tale un individuo deve avere un lavoro ed essere economicamente autonomo, mentre non è necessario vivere al di fuori del nucleo famigliare, e molti ragazzi continuano a vivere nella casa dei genitori ancora a lungo dopo aver cominciato a lavorare, talvolta fino al matrimonio. Questa etichetta porta con sé delle responsabilità: lo shakaijin deve provvedere a se stesso e contribuire alla società, come è emerso dall'intervista con Yūto e Yongh Ah11, che dopo la laurea a Waseda era diventata shakaijin da pochi mesi.

Anna: Cos'è che cambia quando diventi uno shakaijin?

Yūto: La responsabilità cambia. Forse gli studenti sono quelle persone che sono ancora protette dalla società. Cioè, i genitori pagano le tasse scolastiche, se fai qualcosa i genitori sono lì per te. E se fai uno sbaglio vieni perdonato perché sei ancora solo uno studente. Ma quando diventi shakaijin quello che fai ha un impatto sulla società. Hai una responsabilità più grande. E quindi sei in dovere di controllarti di più. Questa è la tua responsabilità. Cosa ne pensi? [Rivolto a Yongh Ah]

Yongh Ah: Mi sembra giusto. Y: Com'è stato per te?

Yo: Finora? Bè, sono d'accordo. Ma se vogliamo dirlo in termini più duri, la responsabilità ce l'hai sempre avuta. Al contrario tu hai sempre delle responsabilità ma […]12se sbagli ti viene

detto, vieni rimproverato. Ti dicono che è sbagliato. Quando diventi shakaijin non te lo dicono più. Ma forse lo dicono alle tue spalle, non lo puoi sapere. Quello che voglio dire è che ormai sei solo tu che puoi prenderti cura di te stesso. Devi capire tutto da solo, quello di cui sei responsabile, quello che hai sbagliato, altrimenti nessuno lo farà al tuo posto. Quello che ci dicono ora [che sta facendo il training] è che quando staremo lavorando davvero sarà molto peggio, quindi è meglio che sbagliamo ora che c'è ancora qualcuno che ci “protegge”. Ci

11 Yongh Ah Lee, 26 anni, di origine coreana. Al momento dell'intervista si trovava in Giappone da sette anni e

si era appena laureata a Waseda in Scienze dell'educazione. Era aprile, l'inizio del nuovo anno fiscale, e lei, che era stata assunto da un'azienda di consulenze aveva da poco iniziato a lavorare, quindi aveva più esperienza di Yūto, l'amico che mi aveva presentato, e ci ha raccontato la sua esperienza da shakaijin.

12 Qui Yongh Ah fa riferimento a un episodio, che poco prima ci aveva raccontato, che le è capitato all'interno

di un'associazione studentesca e che ho scelto di togliere perché non è qui necessario a comunicare quello che Yongh Ah voleva dire. Per l'intervista completa si veda in appendice Yūto, intervista 1 (Yongh Ah era presente, è stata lei a presentarmi Yūto e inizialmente non voleva partecipare all'intervista ma l'abbiamo coinvolta nella conversazione in più punti).

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rimproverano. Ci trattano ancora un po' come bambini. Si dice ichininmae13, no? Non siamo

ancora ichininmae, ora lavoriamo in negativo (Yūto, intervista 1).

Questa importante transizione, che implica una rinuncia alle libertà dello studente e l'assumersi le responsabilità del membro funzionante della società, è un lungo percorso tormentato non solo dai dubbi su quale strada intraprendere, ma, come mi ha spiegato Mayu, anche dal dubbio di non esserne all'altezza di questa prova.

Anna: Ci sono cose che ti preoccupano al momento?

Mayu: Non è tanto questione di preoccupazione, ma di costante insicurezza. E se non ricevi nessun naitei? E quindi è frustrante. Lo dicono tutti. Le cose che dobbiamo fare ormai le sappiamo, e va bene, ma siamo nell'incertezza. Insomma, come dire, se fosse un esame di ammissione, se tu studi o non studi puoi vedere come questo influisce sul risultato. In qualche modo ce la farai, però per quanto riguarda lo shūkatsu entra in gioco anche il caso. E sì, entra in gioco anche per gli esami di ammissione, ma...

A: Però si dice che gli studenti della Keio, come quelli di Waseda e come tutti gli studenti di università prestigiose, ricevano sempre dei naitei, no?

M: No, questo è quello che dicono quelli che non sono di Waseda o Keio. Me lo dicono spessissimo, che a me andrà bene perché sono di Keio. Ma in realtà non è così.

A: Hai dei senpai che non hanno ricevuto neanche un naitei?

M: Ce ne sono. Bisogna anche dire che aveva provato soltanto in aziende molto ambite, ma una di loro non ha ricevuto nessun naitei e quindi non aveva nessuna opzione, ha dovuto fare

shūrō per un anno: si dice shūshoku rōnin14. Visto che non ha altra opzione, non ha dove

andare, ha dovuto fare un anno di shūrō per niente. E poi un altro senpai, che aveva fatto del suo meglio fino all'estate, ma non ha ricevuto nessun naitei, e mi aveva detto che avrebbe fatto

shūrō. Ma l'ultima volta che gli ho chiesto ha detto che farà una magistrale (Mayu, intervista

2).

Lo shūkatsu non è obbligatorio, né è una cerimonia ufficiale come il seijinshiki, la cerimonia della maggiore età (vent'anni, in Giappone), ma nonostante ciò c'è una certa imprescindibilità in esso. È la strada da intraprendere, il passo da fare dopo l'università, e tutti i giovani, anche quelli che decidono di fare un altro percorso, non possono prescindere dallo

13 Colui che può svolgere, in autonomia, il lavoro per uno.

14 Qui Mayu unisce le parole shūshoku, impiego, e rōnin, per specificare che si tratta di un anno in cui la sua

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shūkatsu nel definire le loro scelte, quando anche per contrasto. Infatti scegliere di

rimandarlo, di continuare gli studi o di andare a lavorare all'estero sono scelte non convenzionali che produrrebbero il dubbio, tra i coetanei e i famigliari, che lo studente non abbia il coraggio di affrontare questa dura prova. Nanaka15, per esempio, ha fatto una scelta fuori dal comune quando ha deciso di continuare gli studi, perché la sua ambizione era quella di lavorare per il governo giapponese oppure per un'organizzazione internazionale che si occupi di diffusione della cultura giapponese all'estero. Quando si è chiarita le idee e ha capito quello che voleva fare, ha deciso di smettere di fare shūkatsu come tutti gli altri, ma non senza un certo disagio.

Anna: Dici ai tuoi amici che non stai facendo shūkatsu?

Nanaka: Solo agli amici intimi. Non mi piace dirlo apertamente. A: E come mai?

N: Credo sia perché io so che la cosa normale da fare sarebbe fare shūkatsu e quindi sono un po' come un'outsider. In Giappone c'è ancora l'idea che non fare quello che fanno gli altri ti rende un po' un'outsider. Non in senso negativo, ma mi fa sentire diversa. E credo che la maggior parte delle persone non capirebbe il motivo per cui io non voglio fare shūkatsu e invece voglio studiare. Dovrei spiegargli tutto, dei miei sogni. Quindi lo sanno gli amici, quelli che voglio che mi capiscano e conoscano le mie ragioni.

A: Pensi che dirlo ad altri ti farebbe mettere in discussione la tua scelta?

N: Non penso che mi metterebbe in discussione, non più. Verso febbraio o marzo ero molto preoccupata, non ero sicura della mia decisione, ma ora so che sto facendo la cosa giusta. Questo è quello che voglio fare quindi anche se qualcuno mi dicesse qualcosa io risponderei che se non capisce, fa lo stesso, questo è quello che io voglio fare. Ma ora non parlo della magistrale e di quello che sto facendo perché lo shūkatsu è così difficile e molti dei miei amici sono davvero stressati ultimamente. Quindi dirgli che io sto facendo qualcosa di diverso... Bè so che a molti di loro non importa che cosa fanno gli altri. Quindi a molti di loro non importerebbe. Ma, non so, credo che non sia una cosa che dici e basta. Lo tengo per me. E poi è vero che prima mi sentivo... bè, non in colpa, ma a disagio a non fare shūkatsu. Le persone potrebbero pensare che sto scappando, perché è una cosa molto difficile. Se me lo chiedono io lo dico che vado alla magistrale, quindi non lo sto nascondendo.

A: Quindi immagino che la maggioranza stia facendo shūkatsu?

15 Nanaka Kan, 21 anni, era al terzo anno alla School of International Liberal Studies di Waseda al momento

dell'intervista. Quando l'ho conosciuta, in inverno, aveva cominciato a fare shūkatsu, ma poi durante la primavera ha maturato la decisione di continuare gli studi. Si identifica come diversa dai suoi coetanei non solo per la sua scelta riguardo gli studi, ma anche perché aver passato cinque anni negli Stati Uniti quando era piccola l'ha resa, secondo lei, più americana che giapponese negli atteggiamenti.

75 N: Sì, tutti quanti (Nanaka, intervista 3).

La testimonianza di Nanaka è particolarmente interessante proprio perché offre un punto di vista esterno rispetto a quello dei suoi coetanei. Quando l'ho conosciuta, a gennaio, stava facendo shūkatsu come tutti gli altri, indossava il completo nero e l'impermeabile beige, ma una settimana dopo, quando ci siamo incontrate per il primo colloquio stava già maturando in lei l'idea di fare qualcosa di diverso. Il suo senso di disagio è molto significativo, perché mostra il peso che lo shūkatsu ha come rito antropopoietico e tappa fondamentale della maturazione dell'individuo, che avviene in una precisa finestra temporale e con una precisa modalità. Nanaka diventerà comunque shakaijin, non perderà il diritto a questo status sottraendosi al rito, ma è uscita dal sentiero già tracciato e questo non può non suscitare in lei e nei suoi amici quello che Remotti chiama un «senso di arbitrarietà e di provvisorietà che viene trasmesso da ciò che è particolare» (Remotti, Viazzo 2007:29): la vertigine di chi si sporga oltre i limiti tracciati dalla cultura e intraveda l'infinita vastità delle possibilità umane e si trovi quindi di fronte all'arbitrarietà delle varie scelte culturali, non più solide certezze ma variabili equivalenti.

Avendo fatto la scelta di sottrarsi al rito, Nanaka è consapevole del rischio che le sue azioni vengano messe in dubbio e le siano chieste delle spiegazioni. Come scrive Martine Segalen, riferendosi al modo in cui Van Gennep teorizzò la ritualità, «la partecipazione ai rituali diventa una guida per valutare il grado di integrazione nella comunità. In ogni rituale è insita un'ingiunzione, e sottrarsi ostentatamente all'imposizione collettiva è un modo per esprimere le proprie scelte sociali» (Segalen 2002:39-40).

Nanaka ha sottolineato più volte il fatto che quella a cui si sta sottraendo è una prova molto dura, a cui tutti gli studenti universitari si sottopongono. Il loro stress a cui Nanaka accenna riguarda due aspetti della trasformazione in shakaijin: il lavoro antropopoietico che lo studente fa su se stesso e quello che il gruppo opera sull'individuo. È quindi un processo doppiamente trasformativo, durante il quale studenti e studentesse negoziano la loro transizione allo stato di adulto sociale tentando di conciliare i loro desideri, le ambizioni, le necessità e le attitudini personali con la rigidità del mondo lavorativo in cui si apprestano a

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entrare, e questo comporta una fatica considerevole. Nell'aprile 2018 ho intervistato per la terza e ultima volta Kanae16, la ragazza che mi è stata più vicina durante la ricerca e con cui ho collaborato più lungo. È stato il colloquio più significativo e anche quello in cui l'ho vista più stanca e affaticata dall'incessante lavorio mentale richiesto dallo shūkatsu. Le sue parole comunicano con immediatezza questa fatica antropopoietica.

Kanae: Sono proprio stanca. Lo shūkatsu mi ha proprio stancata.

A: È stancante vero? Devi continuare a riflettere. Dev'essere stancante, no? Penso sia quello che ti stanca di più.

K: Sai, la sera, anche prima di dormire sono lì che penso “ah, devo pensare a quello” e non riesco più a dormire! [Pensieri come] “Ah, devo fare anche quello”, “devo preparare anche quell'altro”, “oggi non l'ho fatto”.

A: Accidenti!

K: Anche perché non è che io mi senta sempre motivata. Ci sono giorni in cui non ho voglia di fare. E in quei giorni, se li passo a non far niente, a guardare la tv, a smanettare col telefono, la giornata finisce in un attimo e poi ti accorgi “ah, cavolo, oggi dovevo fare quella cosa!”. Oppure: “non ho scritto l'ES!”. Non sono mai finite. Le cose che devi fare. Quando ne finisci una ce n'è un'altra. E un'altra.

A: Non finisce mai, eh?

K: [E ti chiedono] “E tu che cosa vuoi fare?”. “Cosa vuoi fare nella nostra azienda?”. Te lo chiedono all'infinito. E tu rispondi “questo” e “quello”, e si va avanti così (Kanae, intervista 2).

La jikobunseki, l'autoanalisi a cui i giovani si sottopongono per capire che tipo di lavoro vogliano fare, quali siano le loro priorità e quali le loro attitudini è un vero e proprio lavoro di

16 Kanae Saitō, 21 anni, durante la mia ricerca ha concluso il terzo anno di università, a Waseda, e ha iniziato il

quarto. Come Nanaka, era iscritta alla School of International Liberal Studies. Kanae ha iniziato lo shūkatsu già in estate, a metà del suo terzo anno. In modo metodico e accurato si è data da fare senza aspettare l'inizio delle attività ufficiali e ha preso la ricerca molto sul serio. L'ho conosciuta a poche settimane dal mio arrivo ed è lei che mi è stata vicina nella prima fase della ricerca, quella del più profondo riposizionamento, in cui non sapevo ancora che direzione dare al campo e stavo ripensando le domande da fare durante le interviste. Kanae mi ha assecondata in tutti i miei riassestamenti, pratici e teorici, ha portato pazienza e in questa fase difficile mi ha coinvolta nel suo shūkatsu invitandomi agli eventi a cui prendeva parte, portandomi con sé quando ha comprato il suo completo da shūkatsu e facendo da cavia per le mie prime interviste. Mi ha aiutata enormemente con i suoi commenti, sempre misurati e pensati, la sua sincerità e la sua profondità, ma anche dandomi il sostegno della sua amicizia.

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antropopoiesi che fanno su loro stessi. Si tratta infatti di riflettere su se stessi, riguardare a tutto quello che si è fatto fino al presente, in che modo si sono fatte le proprie scelte, per capire il proprio shūkatsu no jiku, l'asse del proprio shūkatsu: usata in modo metaforico, la parola jiku, asse o perno, indica quella priorità che guida lo studente nella sua scelta lavorativa, ma in definitiva in una scelta di vita molto importante. Come mi ha detto Mayu la

jikobunseki serve a «capire tu chi sei, che personalità hai. Cosa vuoi diventare in futuro»

(Mayu, intervista 2). Non si tratta quindi solamente di una riflessione, ma di una riorganizzazione della propria memoria, della propria storia: è un raccontarsi a se stessi. E raccontandosi a se stessi, gli shūkatsusei si autodefiniscono in un certo modo, si plasmano in una certa forma, ai loro stessi occhi. Mayu, per esempio, mi ha raccontato di come lei pensi alla scelta da fare alla fine dello shūkatsu: una riflessione che ha fatto ripensando a come, quando ha finito il liceo, si è guardata indietro e ha pensato che nonostante quella scuola non fosse quella che voleva (non aveva superato il test per la sua prima scelta) in quegli anni aveva imparato molto, era cresciuta e aveva stretto delle amicizie importanti, e questo l'ha convinta che la scelta di quella scuola fosse, in fin dei conti, quella giusta. Allo stesso modo, mi ha raccontato, ha cercato di affrontare le incognite della scelta da fare alla fine dello

shūkatsu.

Mayu: La cosa che scegli non può che essere una, no? Anche per il lavoro è così, ne puoi scegliere solo uno. E anche quando ne scegli uno non puoi sapere se le altre [scelte possibili] fossero più giuste. Non puoi confrontare, [non puoi dire] “questo sarebbe stato meglio” o “sarebbe stato meglio prendere questa direzione”. Quando scegli una strada devi continuare per quella, e mentre la percorri credo sia meglio pensare che sia la tua vita perché l'hai scelta. Io ho sempre ragionato così, nella mia vita. Qualunque cosa scegli, può diventare la tua vita. Qualsiasi cosa può diventare la tua vita [seikatsu], se ti piace, qualsiasi cosa va bene. Una cosa divertente, una cosa in cui ti impegni, una cosa che ti fa crescere. (Mayu, Intervista 1).

Allo stesso modo, lo stesso argomento è emerso parlando con Kanae, che ha usato quasi le stesse parole quando mi ha detto che secondo lei non esiste un'azienda o un lavoro che si adatti perfettamente a sé e che ci si deve quindi impegnare per rendere la propria scelta quella “giusta”.

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Ma l'operazione antropopoietica che gli studenti fanno su se stessi non può prescindere dal contesto più ampio, dove l'antropopoiesi opera su un ulteriore livello, quello attuato dall'enterprise-state giapponese e dalle aziende. Bisogna innanzitutto considerare che la scelta che lo studente fa quando decide di accettare l'offerta di una o di un'altra azienda ha dei limiti importanti: il candidato non ha nessuna voce in capitolo per quanto riguarda il ruolo che