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Filosofia sperimentale e filosofia concettuale in rapporto alla neurofilosofia

1.2 Il rapporto tra filosofia e neuroscienze

1.2.4 Filosofia sperimentale e filosofia concettuale in rapporto alla neurofilosofia

Ad essere precisi, prima di proseguire è bene soffermarsi non solo sulla filosofia di stampo analitico. Vi sono all’opposto anche delle filosofie sperimentali che adoperano o addirittura producono dati empirici nelle loro ricerche. Cercherò di mostrare tuttavia che la neurofilosofia, nonostante contenga al suo interno un’importante spazio dedicato alle prove empiriche, non può essere esaustivamente descritta come una filosofia sperimentale, ma che può e deve contenere in modo essenziale un forte nucleo di analisi concettuale. La filosofia sperimentale odierna negli ultimi anni si è vista crescere d’importanza tanto che alcuni studiosi ed interpreti delle ricerche neuroscientifiche non esitano a chiamarsi filosofi sperimentali. In generale, la filosofia sperimentale si occupa di analizzare empiricamente importanti questioni di carattere filosofico, attraverso il pensiero e le intuizioni della gente comune, intesa come quel maggioritario gruppo di persone che non possiedono una preparazione filosofica sui temi dibattuti38. L’obiettivo è ritornare alle questioni morali, religiose, metafisiche di sempre, ma armati dei metodi delle scienze cognitive, perché sembra forte l’impressione che le soluzioni ai problemi filosofici non debbano far riferimento alle idee pre-formate degli specialisti (i filosofi stessi) ma alle intuizioni comuni39. La filosofia sperimentale, in altre parole,

38 Può essere utile distinguere prima facie la filosofia empirica dalla filosofia sperimentale. Cfr. Prinz, J.J. (2008) Empirical Philosophy and Experimental Philosophy, in Knobe J., Nichols S. (Eds), Experimental Philosophy, Oxford University Press, New York, p. 200: «Empirical philosophy works by citation. Philosophers cite relevant empirical research and use it to argue for philosophical conclusions (e.g., in defense of theories that have been traditionally defended by philosophers). Experimental philosophers conduct their own research. This difference bears on the kinds of questions that practitioners of the two approaches have been able to ask». Tuttavia, queste definizioni non hanno valore definitivo, soprattutto quando le varie discipline si incontrano, intrecciando metodi e contenuti: «In sum, it seems that empirical philosophy, experimental philosophy, and experimental psychology all differ as they are most frequently practiced. […] I think the differences are noticeable. But, I also think the differences are contingent. Experimental philosophy sometimes investigate first-order problems, and experimental psychologists sometimes write theoretical paper. Experimental philosophers also collaborate with experimental psychologists and cognitive neuroscientists. When either occurs, the distinction between the two becomes harder to discern» p. 206.

39 desidererebbe comprendere la differenza che sussiste tra intuizione comune e concetto, attraverso degli esperimenti. Secondo i filosofi sperimentali, nelle classiche questioni filosofiche, “laboratorio e poltrona” dovrebbero lavorare di concerto, per evitare l’ormai famoso detto: le teorie senza dati sono vuote e i dati senza teorie sono ciechi. Gli obiettivi della filosofia sperimentale dunque non sembrano a prima vista volersi porre in contrasto con l’analisi concettuale, anzi sembra che non ci sia alcuna intenzione di sottovalutarne l’importanza40. Sennonché, in verità, alcuni degli stessi ideatori di questo programma promuovono la loro filosofia sperimentale attraverso un logo raffigurante una poltrona in fiamme. Al di là di questa contingente ma suggestiva notizia, all’interno delle ricerche sperimentali (in particolare quelle legate ai nuovi risultati neuroscientifici) vi è il rischio che il piano descrittivo e quello prescrittivo vengano sovrapposti e identificati: per esempio il fatto che ora si possano studiare i meccanismi neuronali coinvolti nelle decisioni morali, attraverso esperimenti neuroscientifici somministrati alla popolazione, non significa che da ciò si possa inferire come sia giusto agire oppure quale sia il modello morale più “evoluto”, pena la caduta nella fallacia naturalistica41.

Un esempio utile a presentare questa problematica possono essere gli studi di Joshua Greene sui cosiddetti “trolley problem”, attraverso l’utilizzo della risonanza

40 Per citare un altro importante filosofo sperimentale: cfr. Appiah, K.A. (2008) Experimental Philosophy, in Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association 82 (2), pp. 14-16 : «Neither questionnaires nor brains scan are likely to settle debates between deontologists and consequentialists, or compatibilists and incompatibilists. And, of course, they are not offered to that end. For here, as with the debate with the situationists, the confrontation with evidence can help theorists clarify what claims they are and are not committed to. […] What we’re not going to end up with is some sort of metaphysics by plebiscite; we wouldn’t want to. For most of us don’t believe the truth is simply what most of us believe. […] The new experimental philosophy, I hope I’ve made clear, poses no threat to philosophical analysis. It offers stimulus, challenge, interest, and not just new sources of funding».

41 L’espressione è di G.E. Moore, utilizzata in principio per criticare l’evoluzionismo sociale di Herbert Spencer. Con fallacia naturalistica si intende qualsiasi tentativo di determinare il concetto di bene al di là della sua estrema semplicità, attraverso la sua identificazione con qualcosa di naturale. Più in generale è l’errore commesso nel momento in cui si intende derivare da una descrizione fattuale una prescrizione normativa. Le origini di questa fallacia si possono riscontrare nella legge di Hume, secondo la quale non è possibile derivare dall’essere il dover essere. cfr. Da Re, A. (2010) Le parole dell’etica, Mondadori, Milano, pp. 75-83, 134-6

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magnetica funzionale (fMRI) 42. Greene rintraccia i meccanismi neuronali che influiscono sulla scelta dell’individuo all’interno di alcuni dilemmi morali, collegando le rapide reazioni emotive alle scelte di matrice deontologica e la più lenta riflessione cognitiva alle scelte di genere consequenzialista. Al di là di questa correlazione discutibile, è più importante evidenziare come secondo Greene le scelte consequenzialiste, prodotte da strutture neuronali evoluzionisticamente più recenti, come la corteccia prefrontale mediale e legate allo sviluppo sociale dell’essere umano, siano superiori alle scelte deontologiche, irriflessive e impulsive, che deriverebbero soprattutto dall’attivazione dell’amigdala. Sembra appunto che dal piano descrittivo dei meccanismi decisionali del cervello si passi ad un piano normativo, dal quale si deduce l’inaffidabilità morale di un sistema in virtù della superiorità evolutiva dell’altro. Tuttavia, l’inferenza di Greene che segna il passaggio da uno stato descrittivo delle attivazioni neuronali coinvolte nelle scelte morali, ad una presa di posizione di tipo prescrittivo, su quale sia il modello decisionale eticamente migliore, non è in alcun modo dimostrata scientificamente, né logicamente, è piuttosto un presupposto filosofico del ricercatore43.

In secondo luogo bisogna considerare che i dati provenienti dalle analisi delle intuizioni delle persone comuni possono senza dubbio fornire nuovi spunti di riflessione per l’analisi concettuale, ma non possono costituirne la sostituzione. Infatti è errato pensare che sia più rigoroso e preciso lo sviluppo dell’analisi delle intuizioni delle persone comuni rispetto a quelle degli specialisti; secondo quest’idea sembra che per indagare la natura umana sia necessario prendere in considerazione le intuizioni comuni e note alle persone non addette ai lavori, piuttosto che le riflessioni di chi è influenzato da anni di ricerca filosofica. In verità le “intuizioni popolari” possono più che altro fornirci delle coordinate fenomenologiche riguardo allo status quaestionis di un determinato problema, possedendo appunto un funzione

42 Cfr. Greene, J. et al. (2004) The neural bases of cognitive conflict and control in moral judgment, in Neuron, Vol. 44, 389-400. Greene, J. et al. (2008) Cognitive load selectively interferes with utilitarian moral judgment, in Cognition, Vol. 107, 1144-1154.

43 Cfr. Berker, S. (2009) The Normative Insignificance of Neuroscience, in Philosophy and Public Affairs 37: 293–329.

41 descrittiva, ma non normativa; per fare un esempio che mostri l’utilità descrittiva, ma non performativa della filosofia sperimentale: in una serie di esperimenti sociali intrapresi da filosofi sperimentali come Nichols, Knobe, Nahmias e Roskies, i soggetti giudicavano i gradi di libertà e responsabilità di diverse azioni a seconda dello scenario più o meno deterministico che veniva loro presentato44. Ma, come spiega chiaramente Adina Roskies, le concezioni cosiddette “ingenue” (quelle che possediamo comunemente tutti noi) di libertà e responsabilità non possono dipendere dalla risposta alla questione sul determinismo ai cui le neuroscienze vorrebbero rispondere45. Ipotizzando per assurdo che un giorno fosse determinata con certezza scientifica l’inesistenza della libertà umana a livello fisico e neurobiologico, questo di per sé non implicherebbe conseguenze performative sul nostro agire morale, poiché il concetto di libertà è innanzitutto relazionale, sociale e culturale46; ad ogni modo, il dibattito sul libero arbitrio all’interno delle neuroscienze si è di recente riaperto, con un ripensamento in direzione opposta al puro determinismo47. A differenza della posizione “empirica”, un lavoro filosofico concettualmente rigoroso consiste nell’analisi di una determinata questione, che può certamente iniziare dall’intuizione comune, ma che procede successivamente a

44 Cfr. Roskies, A., Esiste la libertà se decidono i nostri neuroni? in Lavazza, A., Sartori, G. (a cura di) (2011), Neuroetica. Scienze del cervello, filosofia e libero arbitrio, Il Mulino, Bologna, pp. 53-55.

45 Ivi, p. 55.

46 Cfr. Gazzaniga, M.S. (2005) La Mente etica, Codice edizioni, Torino 2006, pp. 86-89.

47 Solitamente, si fa riferimento ai celeberrimi esperimenti di Libet del 1983, successivamente ripetuti e migliorati negli ultimi anni, come una prova deterministica del fatto che il nostro cervello prima pianifica incosciamente l’azione e poi “decide” coscientemente l’azione già preparata. Alcuni ricercatori del Bernstein Center for Computational Neuroscience di Berlino (tra cui Haynes, autore di numerosi articoli sperimentali sulla scia di Libet, che sostenevano l’inesistenza del libero arbitrio) hanno recentemente ribaltato questa concezione, che oramai si era consolidata soprattutto nel campo delle scienze cognitive: in un esperimento hanno chiesto ai soggetti di premere un pedale, se una luce diventava verde, e di fermarsi, se diventava rossa. Le luci colorate erano gestite da un computer che monitorava i potenziali di preparazione all’azione dei soggetti; se questo segnale fosse davvero un processo puramente inconscio e non modificabile, allora i soggetti non sarebbero mai riusciti a togliere in tempo il piede dal pedale. Invece la nostra volontà è risultata in grado di interrompere e modificare un’azione, entro certi limiti di tempo, anche se questa è già stata preparata a livello motorio. Prima decidiamo, poi agiamo, come vuole anche il senso comune. Cfr Schultze-Kraft, M., et al. (2015) The point of no return in vetoing self-initiated movements, in PNAS, vol. 113 no. 4, pp. 1080-1085.

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decostruirla, giacché ciò che sembra noto e comune, proprio perché non vagliato criticamente, spesso non è veramente conosciuto48.

É dunque questo il rischio nel quale parte della filosofia sperimentale può incappare: che, a partire dalla descrizione di ciò che è psicologicamente condiviso in maniera maggioritaria, si possa dedurre una teoria filosofica dal carattere normativo. Infatti la filosofia non può fondarsi sullo studio empirico delle intuizioni della maggioranza delle persone, ma sulle condizioni (epistemiche e non solo psicologiche) del pensiero stesso. Un programma di ricerca di carattere psicologico può piuttosto essere utile ad estendere gli orizzonti di studio della filosofia stessa. Sembra proprio che, almeno da questo punto di vista, le poltrone siano costituite da materiale ignifugo. Si può comprendere, dunque, che, nonostante l’importanza del dato sperimentale, sussiste una differenza qualitativa non trascurabile tra fondazione empirica ed estensione empirica delle teorie filosofiche; solo la seconda definizione sembra accettabile nel rispetto del significato della critica filosofica.

In seguito a queste considerazioni, credo sia corretto dire che la neurofilosofia non può essere assimilata tout court alla filosofia sperimentale, sebbene una consistente parte della sua ricerca lavori su dati empirici. Senza analisi concettuale e critica del metodo la riflessione filosofica non potrebbe che ricoprire il ruolo di opinionista esterna dei risultati scientifici. Allo stesso tempo la neurofilosofia non può, a causa del suo legame con la ricerca empirica, essere ricondotta solamente ad un genere di filosofia analitica: deve infatti ben guardarsi dal rischio di diventare un’operazione lessicografica dei concetti cerebrali e mentali. Ritengo piuttosto che la neurofilosofia debba muoversi su un piano di stretto rapporto tra “laboratorio e poltrona”: cercare di schiacciare un piano sull’altro non rende giustizia al progetto di sviluppo di questa disciplina: in quanto riflessione interdisciplinare la neurofilosofia ha l’arduo compito di sostenere entrambi i metodi di ricerca e di conciliarli assieme, entro i limiti della loro parziale permeabilità reciproca.

48 «Il noto in genere, appunto perché noto, non è conosciuto. Quando nel conoscere si presuppone alcunché come noto e lo si tollera come tale, si finisce con l’illudere volgarmente sé e gli altri». Hegel, G.W.F. (1807) Fenomenologia dello spirito, Vol I, Storia e Letteratura, Roma 2008, p. 25.

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